Raimondo di Sangro


di Giuseppe Rosica

La gioventù

L’illuminista Antonio Genovesi descrive Raimondo di Sangro, settimo principe di Sansevero, come un «Signore di corta statura, di gran capo, di bello e gioviale aspetto, filosofo di spirito, molto dedito nelle meccaniche, di amabilissimo e dolcissimo costume, studioso e ritirato, amante la conversazione di uomini di lettere».
Raimondo nasce il 30 gennaio 1710 a Torremaggiore, in provincia di Foggia, da Antonio di Sangro e da Cecilia Gaetani d’Aragona, famiglie di antichissimo lignaggio. Sia i Sansevero che i Gaetani vantavano ascendenze al medio evo, un’eredità che li poneva in una posizione di autonomia rispetto alle varie dominazioni succedutesi a Napoli. La personalità di Raimondo fu influenzata dalle vicende dei genitori. La madre Carlotta era morta quando il Principe aveva un anno; era figlia di Aurora Sanseverino e Nicola Gaetani, intellettuali, mecenati di filosofi e di artisti come Vico e Solimena, fautori dello sviluppo di un pensiero rinnovatore che i primi del 1700 poteva apparire rivoluzionario.
Il ramo paterno, di tradizione militare, annoverava numerosi condottieri al servizio dell’esercito spagnolo lungo tutto l’arco del vicereame. Ma è soprattutto nel periodo asburgico (1705-1734), dopo la morte di Carlo II di Spagna, che la famiglia di Sangro divenne particolarmente potente. Il nonno, Paolo di Sangro, si era guadagnato il titolo di Grande di Spagna, di prima categoria, per sé e per i suoi discendenti maschi, oltre a tutti gli incarichi ufficiali presso la corte.
La figura del nonno paterno ha un ruolo fondamentale nella formazione di Raimondo, poiché è alle sue cure, cui era stato affidato da piccolissimo, che si deve lo sviluppo intellettuale del Principe e il suo amore per la ricerca. Raimondo era stato mandato a Roma a studiare presso i Gesuiti dove era entrato in contatto con una cultura orientata sia in senso umanistico che scientifico. Per entrambe le branche del sapere Raimondo aveva manifestato interesse ed inclinazione.

Le meraviglie

Nel 1729 si manifestò la vivacità dello spirito di Raimondo: presso il Collegio dei gesuiti si voleva organizzare un festeggiamento per la nascita della figlia di Carlo VI d’Austria, Principessa Maria Amalia. Il cortile del Seminario avrebbe ospitato le rappresentazioni in programma. Occorreva un palco mobile adatto per il teatro ma smontabile per far posto alle giostre. Gli ingegneri avevano proposto soluzioni piuttosto complesse che prevedevano l’intervento di numerosi uomini di fatica.
Il diciottenne Sansevero presentò un progetto che si rivelò il più funzionale di tutti: «con argani, ruote e corde, tutto nascosto alla vista degli spettatori, senza neppure apparirvi uomo che le tirasse, si vide subitamente ritirare il gran palco; quando dovettesi dar luogo per la Cavalleria, e quindi, sollevandosi nel mezzo, e restringendosi l’una metà e l’altra nel terreno, pendenti a forma di libro, rimase in pochi istanti tutto ristretto e ridotto nel picciol spazio di tre soli palmi..».
L’episodio è testimonianza di due aspetti del suo «personaggio», oltre che dell’ingegno del principe. Benché nobile, non disdegnava applicarsi a un’attività per così dire tecnologica, impegnando la sua fertile mente nell’ideazione di un apparato da festa. Con un’altra eccezione soltanto, il duca Ferdinando Sanfelice, fratello del famoso cardinale Antonio e architetto di alcuni dei palazzi più belli del rococò campano, mai nessun nobile napoletano aveva ritenuto convenevole dedicarsi ad arti cosiddette «meccaniche».
Raimondo rompe questa barriera di «casta» mettendosi su una strada che lo porterà a fare i più diversi esperimenti, talvolta anche con ricadute utili al viver quotidiano: inventare ad esempio una specie di stoffa impermeabile e finanche un modo più semplice per stagnare le pentole di rame.
La «meraviglia» che quel «portento» aveva destato nei presenti, ci introduce in quell’atmosfera di «magia», ricercata dal principe stesso, che finirà per accompagnare il suo personaggio, ingigantita e deformata dalla supertizione del popolo: un’aura alimentata da un lato dall’orgogliosa certezza della propria superiorità e dall’altro amplificata dalla mediocrità di interlocutori capaci di scambiare per portenti le sue conoscenze e le sue realizzazioni nel campo della scienza e della tecnica.
A quell’epoca infatti queste discipline erano coltivate da pochissimi uomini, e spesso a rischio della propria incolumità personale: non soltanto perché essi conducevano degli esperimenti potenzialmente pericolosi per la quasi totale assenza di conoscenze e di metodiche sperimentali, ma soprattutto perché, indagando il mondo della natura, questi pionieri venivano a trovarsi in conflitto con le «verità assolute» della Chiesa.
Un’ulteriore prova del desiderio di «meravigliare» furono le ricerche condotte dal principe nel campo della pirotecnica, mettendo a punto metodi e formulazioni fino ad ottenere i più vividi e brillanti colori che mai si erano visti nel reame. Anche in questa disciplina però Raimondo non si dedicava con lo spirito dello stregone ma con l’accanimento e la logica dello scienziato, annotando i passi e i risultati di volta in volta raggiunti. Dopo gli studi romani Raimondo riprende a Napoli intorno al 1730 le sue ricerche e i suoi esperimenti, realizzando una serie d’invenzioni di pratico utilizzo.

 La Cappella di San Severo


Il nome di Raimondo di Sangro è legato ad uno dei monumenti più famosi di Napoli, la cappella sepolcrale di famiglia per la cui realizzazione occorsero circa trent’anni. Vi presero parte artisti di levatura europea che sotto la guida e lo stimolo del Principe riuscirono a esprimere il pensiero del committente in maniera unica e sorprendente.
Naturalmente Raimondo fu anche un intelligente ed esigentissimo committente. Prima di dedicare il suo ingegno e le sue energie alla Cappella, egli s’era adoperato fin dal 1735 per il rifacimento di alcune parti del palazzo avito in piazza San Domenico Maggiore, forse cogliendo l’occasione dell’arrivo a Napoli della cugina Carlotta Gaetani d’Aragona, che egli aveva sposato per procura cinque anni prima.
Un documento dell’epoca recita che il 19 febbraio furono pagati «quaranta ducati a Don Raimondo di Sangro e per esso a Gaetano Spallino capomastro fabbricatore del grezzo di pozzolana lapillo et acqua comprata per servizio di detto Suo palazzo, e piombo comprato per coprire l’appennato del balcone della camera della Fenice».
La testimonianza è utile non solo per ricostruire la cronologia degli interventi di restauro sul palazzo Sansevero, ma anche perché ci fa conoscere l’esistenza di un’ambiente che era utilizzato da Raimondo per i suoi esperimenti di chimica: la «camera della fenice». Uccello sacro e favoloso degli egiziani, la fenice è un simbolo alchemico: combinazione ideale di significati per il giovane aristocratico, desideroso di avvolgere in un alone di mistero la sua attività scientifica. Lo conferma un passaggio della Breve nota di quel che si vede in casa del Principe di Sansevero, una guida che si vendeva già nel 1766:
In una stanza d’un altro Appartamento, che chiamano della Fenice, il quale sta tutto in fabbrica, per renderlo meglio diviso e comodo, si veggono due macchine anatomiche, o, per meglio dire, due scheletri, d’un maschio (a sinistra), e d’una femmina, ne’ quali si osservano tutte le vene de’ corpi umani, fatte per iniezione, che, per essere tutti intieri, e, per diligenza, con cui sono stati lavorati, si possono dire singolari in Europa. Oltre a tutte le visceri, e le parti interiori del corpo, colla apertura del cranio, si osservano tutt’i vasi sanguigni della testa; e coll’aprirsi la bocca, si veggono i vasi della lingua. Mirabile poi la delicatezza colla quale e’ stato lavorato il corpicciuol d’un Feto che morì in un colla Madre, la quale sta in piedi e si fa girare d’ogni intorno, per osservarsene tutte le parti. Le dette due macchine, o scheletri, son opera del Signor Domenico Giuseppe Salerno, Medico Anatomico Palermitano.
La Massoneria

Il principe aderì alla Massoneria nel 1744 e fino al 1751, anno in cui Benedetto XIV e Carlo III di Borbone tentarono di porre fine alla attività delle logge napoletane. Le prime logge napoletane si erano formate dopo l’introduzione dei principi massonici nel regno, al tempo del vicereame, dalla fine del ’600, da parte di elementi del ceto militare austriaco. Ma la fonte attendibile più datata è un manoscritto conservato nell’archivio della Società Napoletana di Storia Patria, redatto nella prima metà del ’700 in cui si parla di logge attive a Napoli fra il 1749 e il ’51.
In un analogo manoscritto il Principe di Belmonte si riferisce alle logge napoletane: «I Liberi Muratori sin dal tempo di Carlo III si erano introdotti a Napoli, ma vi si mantenevano in maniera nascosta, e ristretti fra solo forestieri, che sotto un altro pretesto si radunavano. Da principio vi furono ammessi un piemontese, di mestiere acquavitaro, ed un francese, mercante di drappi. Costoro, conosciuti a fondo i principi della società, pensarono di erigere una loggia separata. Infatti l’anno 1745 eseguirono un tale immaginato disegno».
Il Principe di Belmonte era una figura di primo piano della massoneria siciliana alla fine del Settecento e numerosi suoi documenti sono conservati nella Biblioteca di Palermo. La matrice massonica militare era stata introdotta nel regno da Felice Gassola, massone piacentino affiliato ad una loggia in Inghilterra e giunto nella capitale del regno con l’esercito di Carlo di Borbone. Questi entrò presto in contatto con il Principe di Sangro; si trovano tracce di questo rapporto nelle pagine scritte da Pietro Napoli Signorelli, allievo di G. B. Vico, che ha lasciato opere ricchissime di notizie sulla cultura napoletana dell’epoca.
Egli ricorda: «….una carta per cartocci d’artiglieria che si converte subito in carbole senza rimanervi favilla veruna accesa…. era questa invenzione inglese che si servava a Londra gelosamente. Re Carlo, nel 1745, ne ordinò che se ne facesse copiosa provvisione per servirsene di campagna. Il Principe Sansevero, ad insinuazione del piacentino Gazzola, general comandante l’artiglieria, vi riflette, stima di essersi apposto nel trovare la mistura opportuna e dopo giorni uno presenta al Re sei fogli di una carta da lui fatta che alle pruova riuscirono al meglio della carta inglese».
Nel 1744 Raimondo aveva avuto modo di conoscere il Gazzola durante la campagna contro gli austriaci che tentavano la riconquista di Napoli. Nella battaglia di Velletri Raimondo poté dare prova del proprio valore e della fedeltà alla casa di Borbone che regnava su Napoli dal 1734. Il filone massonico di origine «militare» e quello di origine «borghese» furono fusi in uno proprio da Raimondo di Sangro, mercé la collaborazione del Gazzola che, attraverso i suoi contatti inglesi, lo propose e ne ottenne l’elevazione al grado di «Gran Maestro delle Logge Napolitane». Ma un altro personaggio aveva lavorato per la riunificazione delle logge: Francesco Zelaja, alfiere militare che aveva capito che per salvare le logge bisognava metterle sotto la protezione di un personaggio intoccabile come il Principe di Sansevero.
I primi del 1740 v’erano due anime massoniche nel regno di Napoli: una formata dai ranghi più elevati della gerarchia militare insieme ai nobili legati alla corte, ed una seconda che accoglieva gran parte dei commercianti, inglesi e francesi, che commerciavano con il regno, ed anche ufficiali di basso rango. La maggioranza di coloro che componevano questa seconda «ala» borghese delle logge partenopee era di religione calvinista, ed era questa ala che era guidata dallo Zelaja.
A partire dal momento del riconoscimento di Raimondo come Gran Maestro di tutte le logge napoletane, il nostro Principe si tuffa nella politica del regno, avvicinandosi al Re di cui gode la stima e collaborando alla ristrutturazione dell’esercito, anche attraverso l’invenzione di macchine da guerra, del tutto nuove per l’epoca. Tale attività la mantenne fino al 1751 anno in cui, cedendo alle pressioni vaticane che, pressanti, preludevano ad uno scontro armato, Carlo III di Borbone dovette con un editto cancellare le logge napoletane e bandire la massoneria dal regno. Raimondo di Sangro abiurò.
Tale gesto da alcuni fu interpretato come atto di vigliaccheria, da altri come unico atto possibile per salvare i fratelli, disciogliendo l’ordine. Il progetto del di Sangro era di far risorgere la nobiltà napoletana, spesso accusata di essere dedita solo alla vita di corte, alla caccia, e di essere legata solo ai propri privilegi feudali. Riscattarla quindi dal letargo per aprirla ai fermenti innovatori che in Europa si facevano sentire.
Convinto seguace di Bayle, Shaftesbury, Collins e Toland, da cui aveva mutuato i principi di tolleranza religiosa e di libertà di pensiero, il Principe non può fare a meno di coinvolgere nel proprio progetto i magistrati con i quali i nobili rivaleggiavano «negli affari del Regno» procurando grave disagio alla corona, al regno intero, ed offrendo all’estero motivo di discredito per il Regno di Napoli, terzo regno del mondo conosciuto. Questo aprirsi di Raimondo alla borghesia, questo considerare «nobili» coloro i quali mostrano ingegno, virtù, ed onestà, e’ di certo dovuto all’evolversi del suo pensiero massonico.
In un’allocuzione in loggia ad alcuni apprendisti, (1754) Raimondo afferma:

Sono molto lusingato di potervi dare questo titolo, e di poter col tempo rivelarvi tutte le gloriose prorogative che esso comporta. Accettati, per il vostro medesimo desiderio e per un suffragio che vi assicurano le vostre qualità personali, nella nostra rispettabile società, dopo aver sfidato i pregiudizi del secolo, le opinioni del profano, dopo aver superato con costanza precisa le prove differenti che vi hanno condotto nell’augusto santuario della massoneria, è infine giusto che vi metta a parte della luce che avete cercato con tanta cura, e non contento di aver colpito i vostri occhi con il vivo fulgore dei suoi raggi, che io vi riscaldi il cuore, lo animi, illumini la vostra anima e il vostro spirito, svelandovi i misteri delle nostre logge, facendovi conoscere il vero oggetto dei lavori, lo scopo vero della nostra associazione, le regole per la nostra condotta ed i principi della nostra morale.
Tutto ciò che facciamo è relativo alla virtù, è il suo tempio che noi costruiamo, e i semplici e grossolani strumenti di cui facciamo uso non sono che i simboli dell’architettura spirituale di cui ci occupiamo. Voi vedrete, fratelli, avanzando nei gradi dell’Ordine, cosa che il vostro zelo meriterà senza dubbio, fino a che punto l’allegoria ne sia sottilmente sostenuta: io posso, per adesso, rivelarvi solo quei segreti ai quali lo stato di apprendista vi permette di essere iniziati: non traccerò la storia della nostra origine; consultate i libri santi, voi la troverete all’epoca della sublime costruzione che consacrò con la saggezza del più grande dei re, un magnifico monumento alla gloria e al culto dell’Eterno. …
Questa breve spiegazione, fratelli, dissipa il prestigio che vi ha potuto preoccupare prima di conoscervi… noi non ci lasciamo ingannare né dai nostri principi, né dai nostri sentimenti: riuniti dallo stesso zelo noi siamo fratelli e ne facciamo gloria… Opere simili di una stessa provvidenza, siamo tutti uguali, la nascita, i ranghi, la fortuna non ci fanno uscire da questo giusto livello… Uomini semplici, modesti nei piaceri, essenziali nelle amicizie, fermi negli impegni, puntuali nei doveri, sinceri nelle promesse.
Vi sono già presenti quei fermenti che porteranno al 1789, anche se in maniera elitaria, ma con la consapevolezza che il processo Illuministico avrebbe sconvolto la società e la politica. La conoscenza del pensiero dell’epoca, da parte di Raimondo, è dimostrata dalla sua biblioteca: 1600 volumi circa con opere autografe di Pierre Bayle, Denis Diderot, Montesquieu, Voltaire, Condillac, Rousseau, e tanti altri. Innumerevoli le opere a carattere tecnico-scientifico. L’unico testo di carattere cabalistico era Il Conte di Gabalis, scritto dall’abate francese Villars de Mountfauçon, che il Principe aveva nell’edizione originale francese del 1742 e in una edizione tradotta in Italiano da lui stesso e pubblicata nel 1752.
Dopo i fatti del 1751, la repressione, la scomunica ed il tentativo a vuoto dell’Inquisizione di tradurlo a Castel Sant’Angelo, Raimondo si vede costretto a chiudere la tipografia in cui stampava i manoscritti da lui stesso tradotti, a volte sotto pseudonimo. Due gesuiti, in particolare, tallonavano da presso il Principe: Innocenzo Molinari e Francesco Pepe che riferivano ai responsabili superiori dei «servizi» vaticani circa le opere e le iniziative del Principe. Soprattutto si scagliavano, nei loro rapporti, contro le opere «pericolosamente scientifiche» che Raimondo stampava e divulgava: un vero attentato alla dottrina della fede. Terminologia che troviamo ancora in questi giorni.
Fra le opere editate una in particolare suscitò le ire del papa di turno tanto da provocare l’editto di scomunica e la richiesta d’estradizione. Si trattava d’una Lettera Apologetica dell’Esercitato Accademico della Crusca contenente la difesa del libro intitolato – Lettere d’una peruana – per rispetto alla supposizione de’ quipu scritta alla Duchessa di S ***. L’opera, scritta da Raimondo sotto mentite spoglie, esprimeva simpatie per il deismo inglese, trattava di cabalismo in maniera scientifica e poneva interrogativi sull’origine e sull’evoluzione dell’universo, arrivando a dubitare delle «verità superiori» della dottrina cattolica del momento.
Fra l’altro egli negava l’aspetto sovrannaturale del «miracolo» di San Gennaro, liquefazione del sangue, che invece era da sempre uno degli eventi più attesi dalla popolazione. Indubbiamente il fenomeno aveva caratteristiche interessanti, ma solo dal punto di vista scientifico, e Raimondo non si astenne dal sottolinearlo. Il nunzio apostolico presso il regno, Gualtieri, in una lettera riservata al cardinale Valenti a Roma, scrive: «mi è stato riferito, con sommo segreto, che il Principe di Sansevero abbia composto certa materia simile al sangue dell’ampolla del Santo Gennaro e che, secondo l’intenzione dell’aria, comparisce di far li stessi effetti; ciò però si tiene in gran segreto serbato». Dopo le ipotesi di Gualtieri del 18 Maggio 1751, cresce intorno al Principe l’ostilità per le cose incomprensibili da lui realizzate, che altro non erano che ricerche di spiegazioni razionali e scientifiche a fenomeni definiti miracoli con superficialità o peggio, mala fede.
Il centro generante le voci ostili, le false accuse e le improbabili informazioni sul Principe era sempre lo stesso: quel gesuita Francesco Pepe che dal 1742 era riuscito a diventare il confessore del Re. In tale veste riusciva, goccia a goccia, a instillare nel Re un sospetto di pericolo per il regno nelle idee di Sansevero. Il fanatismo del Pepe raggiunse punte incredibili: i suoi fedeli ammalati dovevano curarsi ingoiando immaginette sacre e bevendo acqua benedetta. E fu sempre Pepe a scrivere e a far pressione su Benedetto XIV affinché confermasse la condanna sulla massoneria già espressa nel 1738 da Clemente XII nella bolla In Eminenti.
La goccia che fece traboccare il vaso, nell’immaginario collettivo dei gesuiti napoletani e i corrispondenti vaticani, furono poche righe di Raimondo nella sua «Lettera Apologetica…». Con esse il Principe esprimeva il desiderio di «raggiungere i Beati fra le oneste e ritenute salamandre, abitatrici della regione del fuoco». Fu presto formulata l’accusa di eresia contro di lui e si mossero i primi passi per l’incriminazione formale.
Possiamo comprendere l’allegoria contenuta in quelle righe. Nel libro pubblicato dalla stamperia del Principe, Il Conte di Gabalis; ovvero ragionamenti sulle scienze segrete tradotti dal francese da una dama italiana, ai quali si e’ aggiunto infine il Riccio Rapito, Poema del signor Alessandro Pope. Il pezzo di Pope, anch’egli massone, racconta una storiella circa un ricciolo di capelli rubato da Lord Petre a una sua innamorata, tale Arabella Fermor; nel brano si fa riferimento ad una cosmogonia dell’universo fondata sui quattro elementi (terra, acqua, aria e fuoco) e abitato da gnomi, ondine, ninfe, silfi e salamandre.
Il testo era stato ripreso da un gruppo di massoni inglesi che trovavano interessanti le interpretazioni che se ne potevano ricavare sotto una luce cabalistica. Il massone Lord Montague aveva pubblicato l’edizione inglese corredando la propria opera con una serie di rimandi e possibili interpretazioni esoteriche. Quindi Raimondo, accennando alle salamandre, dichiarava apertamente un suo possibile interesse per una ricerca esoterica che potesse sconfinare nella cabala e mettere in discussione l’ordinamento vigente della dottrina cattolica.
Raimondo si stava riferendo a uno studio che aveva in corso su un’analisi effettuata da uno scienziato e letterato: Antonio Conti. Questi aveva tentato d’interpretare e comparare i diversi aspetti delle cosmologie esistenti: egiziana, greca, cristiana. Le religioni «pagane» avevano sempre preso atto d’una realtà fisica dell’universo conosciuto, tentato studi e misurazioni e solo in seguito si erano poste il problema se ci potesse essere una interpretazione religiosa di quanto disponibile sotto i propri occhi. Viceversa la religione cristiana aveva fatto derivare quanto esisteva di materiale da una legge divina imperscrutabile, dogmatica e non discutibile.
D’altra parte lo stesso Raimondo non poteva rimanere insensibile alla dottrina Newtoniana che tentava, riuscendovi in gran parte, a dare risposte scientifiche alle osservazioni sull’universo. Quando parla quindi di salamandre, ondini, etc., non fa altro che esprimere un suo dubbio personale circa le cosiddette «verità rivelate», e un interesse verso quella «filosofia naturale» – poi fisica – che si affacciava sul mondo grazie a Newton.
L’editoria: I viaggi di Ciro

Una delle ultime opere pubblicate dalla stamperia Sansevero fu una traduzione di un libro dello scozzese Michel Ramsay, I Viaggi di Ciro, licenziato nel 1753. Michel Ramsay, nel 1730, aveva aderito alla Comunione Massonica e il 17 marzo di quell’anno era stato affiliato alla loggia «The Horn», la stessa in cui poi sarebbe entrato Montesquieu. Ramsay era il rappresentante a Parigi della casa Stuart, deposta dal trono inglese. Egli riteneva che la massoneria inglese, fortemente simpatizzante per la casa regnante degli Hannover, dovesse indirizzarsi più verso la componente aristocratica e culturale, e riteneva che alla guida di essa dovesse porsi Luigi XV, l’Illuminato. Il re di Francia, non risulta se massone o meno, aveva permesso l’insediarsi di una loggia nella corte di Versailles in cui pare fosse affiliato il marchese de Marigny, fratello della Pompadour.
Il libro di Ramsay fu ritenuto per lungo tempo una pietra miliare della massoneria universale e la sua traduzione in italiano non poteva certo mancare nella biblioteca di Raimondo. Egli aveva commissionato la traduzione ad Annibale Antonini, giureconsulto, che aveva a lungo viaggiato in Olanda, Germania e Scozia, per poi fermarsi in Francia dove, a Parigi, era entrato in contatto con il gruppo dei filosofi e dei letterati.
Un filo ideologico lega questi massoni attivi in Francia, Scozia e Napoli; ovvero Marigny, Ramsay e Raimondo. La traduzione di questo libro, illustrato con opere di Nicholas Cochin (autore del frontespizio della Encyclopédie), rappresenta una riflessione, quasi un progetto, indicata a Ciro per il suo viaggio alla ricerca della sapienza, della saggezza; punto di partenza per la formazione d’un grande sovrano che volesse governare con spirito illuminato. Lo stesso Cochin illustra l’opera attraverso una simbologia elaborata con attributi prettamente esoterici, particolarmente graditi al Principe. La sua illustrazione della Encyclopédie doveva aver particolarmente colpito Raimondo, perchè si ritrova il motivo della ricerca della verità velata da svelare in tutta la Cappella Sansevero. Lo stesso Cochin tratteggia l’essenza della cappella:

Sotto un tempio ionico, Santuario della Verità, si vede la Verità avvolta in un velo, raggiante di luce che allontana e disperde le nuvole. A destra la Ragione e la Filosofia badano a sollevare e strappare il velo. Ai suoi piedi, la teologia, in ginocchio, riceve la luce dall’alto.
Ce n’era abbastanza, per i zelanti gesuiti, da sentire compromessa l’intera impalcatura del cattolicesimo. Costretto quindi al silenzio, Raimondo di Sangro non trovò altra maniera di dialogare con il mondo intelligente che quello di scrivere il proprio testamento spirituale nella Cappella, da lasciare a quella parte di mondo che, animata dalla sete della conoscenza, avrebbe profuso sforzi ed energia per interpretarlo.
E quel silenzio imposto, ancor oggi, stenta a essere rimosso.

Tratto da:

  http://www.zen-it.com/


Raimondo di Sangroultima modifica: 2011-10-06T18:25:00+02:00da giovannisantoro
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