Prometeo o lo stato dell’umanità

di Francesco Bacone – (tratto dagli Scritti Filosofici – Ed. UTET – a cura di Paolo Rossi)

Gli antichi tramandano che l’uomo fosse opera di Prometeo e fatto di fango, se non che Prometeo mescolò alla massa particole dei diversi animali. Costui, volendo proteggere la sua opera con qualche beneficio, e non sembrare solo il fondatore del genere umano, ma anche il benefattore, di nascosto salì in cielo portando seco un fascio di arbusti di ferula e, accostatili e accesi al carro del sole, portò il fuoco a terra e lo donò agli uomini.

Raccontano che di sì grande beneficio gli uomini fossero poco grati a Prometeo. Anzi, fatta una cospirazione, accusarono presso Giove Prometeo per la scoperta fatta. Il fatto non fu accolto come potrebbe sembrar giusto. Infatti l’accusa piacque oltremodo a Giove e ai superi. Compiaciuti, non solo con benigna indulgenza diedero l’uso del fuoco ma anche diedero agli uomini un nuovo dono oltremodo amabile e gradito: la perpetua gioventù. Costoro, orgogliosi e sciocchi posero il dono degli dei su di un asinello. Nel ritorno l’asinello era tormentato da una acerba e violenta sete; arrivato ad una fonte il serpente addetto alla guardia gli vietò di bere se non avesse ceduto ciò che portava sul dorso, qualunque cosa fosse: il disgraziato asinello accettò la condizione, e, in questo modo la possibilità di ringiovanire passò dagli uomini ai serpenti in cambio di una boccata d’acqua. Ma Prometeo però, senza venir meno alla sua malizia, riconciliatosi con gli uomini dopo la perdita del loro premio, in modo però da includere nella pelle dell’uno con l’animo esulcerato verso Giove, non esitò a portare i suoi inganni persino nei sacrifici. Si racconta che una volta immolasse a Giove due tori, in modo però da includere nella pelle dell’uno anche il grasso e la carne dell’altro e da imbottire l’altra pelle soltanto di ossa, e infine con atteggiamento pio e religioso, lasciò a Giove la scelta. Giove, arrabbiato per l’astuzia e la malafede, ma trovata l’occasione di vendicarsi, scelse il toro truccato; e, rivolto alla vendetta, sapendo di non poter reprimere la insolenza di Prometeo, se non avesse danneggiato il genere umano (della cui creazione e gli andava superbo e si esaltava chiusa parentesi), comandò a Vulcano di fabbricare una donna bella ed affascinante, alla quale anche gli dei ad uno ad uno diedero le loro doti, e che perciò fu chiamata Pandora.

A questa donna posero tra le mani un elegante vaso in cui avevano chiusi tutti i mali e tormenti; ma in fondo si celava la speranza. Essa con il suo vaso dapprima andò da Prometeo cercando se eventualmente volesse prendere ed aprire il vaso; ma quello cauto ed astuto rifiutò. Disprezzata, andò poi da Epimeteo, fratello di Prometeo (ma di indole molto diversa). Costui, senza esitazione aprì temerariamente il vaso; e, vedendo quei mali di ogni genere uscirne fuori, troppo tardi rinsavito, con gran fretta e sforzo, tentò di rimettere al vaso il suo coperchio, ma poté appena conservare ultima e sul fondo la Speranza. Alfine Giove, imputando molte e gravi colpe a Prometeo, che una volta aveva rubato il fuoco, che aveva preso in giro in quel doloroso sacrifizio la maestà di Giove, che aveva disprezzato un suo dono, aggiungendo anche un nuovo delitto di aver violentato Pallade; lo gettò ai ceppi condannandolo ad eterni supplizi. Era stato condotto infatti per ordine di Giove sul monte Caucaso ed ivi legato ad una colonna si che in nessun modo si potesse muovere: vi era poi un’aquila che con il rostro, durante il giorno gli strappava e mangiava il fegato, che di notte rinasceva in proporzione della parte divorata, di modo che mai mancasse materia di tormento. Raccontano però che ad un certo momento il supplizio ebbe fine: Ercole, attraversando l’oceano su di una coppa che aveva ricevuto in dono dal sole, giunse nel Caucaso e, trafitta l’aquila con le frecce, liberò Prometeo. Furono poi istituiti presso certuni popoli gare di portatori di lampade in onore di Prometeo. In esse si doveva correre portando una fiaccola accesa: se si spegneva, bisognava dare la vittoria a chi seguiva e ritirarsi, e vinceva chi avesse portato la fiaccola accesa fino al traguardo.

La favola reca e addita molte vere e gravi riflessioni. In essa già da tempo parecchie cose furono notate giustamente altre sono del tutto ignorate. Prometeo significa in modo chiaro ed evidente la Provvidenza: infatti nell’universalità delle cose solamente la generazione e la costituzione dell’uomo era scelta e tratta dagli antichi come cosa attribuita peculiarmente alla provvidenza. Di questa attribuzione, non solo sembra essere causa il fatto che la natura umana racchiude la mente e l’intelletto, sede della provvidenza, e dato che sembrerebbe ostico ed incredibile che la ragione e la mente derivi e tragga origine da principi bruti ed ottusi, si deve concludere che la provvidenza insita nell’animo umano abbia come modello, garanzia e fine la superiore provvidenza; ma anche questo si propone: che l’uomo è il vero centro del mondo se non altro per le cause finali. Tanto che, se non ci fosse, le rimanenti cose sembrerebbero vagare e fluttuare senza scopo, né avere più fine, come dicono di una scopa sfasciata, tutto è sottoposto all’uomo, e per di più esso prende e sceglie dalle cose singole l’uso e il frutto. Infatti le rivoluzioni periodiche degli astri servono per riconoscere le stagioni e le zone del mondo, le meteore per presagire le tempeste, i venti per navigare e per muovere macine e macchine, le piante e gli animali di ogni genere servono per costruire case o ripari agli uomini o come vesti, vitto o medicine o infine per agevolare il lavoro o per piacere e comodità: tanto che tutte le cose sembrano provvedere non a se stesse ma all’uomo.

Non senza ragione è aggiunto nella favola che nella plastica massa di fango si trovano mescolate particelle tratte da diversi animali e temperate con quel fango; perché è verissimo che l’uomo è di gran lunga la cosa più complessa e composta di tutte quelle abbracciate dall’universo, sì che non a torto dagli antichi era chiamato Microcosmo. Per quanto gli Alchimisti abbiano preso troppo alla lettera e deformato troppo grossolanamente l’eleganza del termine Microcosmo allorché vogliono trovare nell’uomo tutti i minerali, tutti i vegetali e ogni altra cosa o sostanza similare. Resta tuttavia certo e sicuro ciò che dicemmo: il corpo umano è cosa estremamente organica e soprattutto commista di tutti gli enti e a causa di ciò sviluppa e afferma le facoltà e le perfezioni più ammirevoli. Infatti le potenze dei corpi semplici, per quanto sicure rapide, sono poche, non essendo per nulla potenziate dalla commistione, concentrate ed equilibrate, mentre la forza e l’abbondanza della potenza risiede nella mescolanza e nella composizione. Nondimeno l’uomo, nelle sue origini, sembra essere cosa nuda ed inerme, tarda nel difendersi, priva di tutto.

Perciò Prometeo si affrettò a scoprire il fuoco che soccorre e fornisce aiuti e sollievi a quasi tutte le necessità ed usi umani tanto che se l’anima vien detta forma delle forme e la mano strumento degli strumenti, il fuoco merita di essere definito aiuto degli aiuti e potere dei poteri. Da esso derivano infatti moltissime operazioni, e le arti meccaniche e le scienze se ne giovano in mille modi. Il modo poi in cui fu compiuto il furto è ben descritto è consono alla natura del fatto. Si dice che ciò avvenne per mezzo di un fuscello di ferula avvicinato al carro del sole. Poiché la ferula è usata per picchiare e percuotere, essa significa chiaramente che la generazione del fuoco avviene tramite le percussioni e gli sfregamenti dei corpi che attenuano la coesione della materia e la pongono in moto e la dispongono ad accogliere il calore dei corpi celesti e ad impadronirsi ed asportare il fuoco di nascosto, quasi rubandolo al carro del sole.

Segue una parte notevole della parabola. Si dice che gli uomini, invece di mostrarsi grati del beneficio, si rivolsero all’indignazione, alle lagnanze e all’accusa, e deferirono a Giove Prometeo e il fuoco, e questa dilazione fu accettissima a Giove tanto che per questo egli aggiunse un nuovo dono ai beni degli uomini. A che fine questa approvazione e remunerazione di un ingrato crimine verso il benefattore (per un vizio che in sé racchiude tutti gli altri)? Il fatto sembra avere un senso nascosto.

Questo è il significato dell’allegoria: quando gli uomini accusano la loro natura e l’arte essi hanno una buona intenzione è un ottimo scopo; essendo l’atteggiamento contrario inviso ed infausto agli dei. Coloro infatti che portano alle stelle la natura umana e le arti che hanno appreso e si diffondono nell’ammirazione delle cose che posseggono stabilmente, e vogliono assolutamente far passare come perfette le scienze che professano o coltivano, sono i primi ad essere meno riverenti verso la natura divina alla cui perfezione quasi equiparano le loro cose. Inoltre sono anche più infruttuosi per gli uomini, pensando di essere arrivati al sommo della perfezione e non cercando, come già sazi, cose ulteriori. Al contrario quelli che denigrano e accusano la natura e le arti e sono pieni di lamentele, non solo estrinsecano un animo più modesto, ma sono stimolati di continuo a nuova attività e a nuove scoperte. Perciò mi par strana l’ignoranza e il cattivo genio di uomini che, servi dell’arroganza di pochi, anno in tanta venerazione quella filosofia peripatetica (che è solo una parte, e non la maggiore del pensiero greco) da ritenere non solo inutile, ma anche sospetta e pericolosa qualunque accusa rivolta contro di essa. Più della fiduciosa e dogmatica scuola di Aristotele, bisogna approvare Empedocle e Democrito che, l’uno come invasato, l’altro con grande riservatezza, sostennero l’oscurità di tutte le cose, che noi non sappiamo nulla, che nulla distinguiamo, che la verità è immersa in pozzi profondi, essendo mirabilmente mescolato ed unito il falso al vero. (Ma la Nuova Accademia ha troppo ecceduto nel dubbio). Gli uomini debbono essere dunque ammoniti su questo fatto: che ogni accusa alla natura e all’arte è grata agli dei, e che significa impetrare dalla divina bontà nuove elargizioni e doni; e che l’accusa mossa a Prometeo cioè al maestro e alla sua autorità, per quanto aspra e violenta, è più utile e giovevole che perdersi in congratulazioni; ed infine che l’illusione della ricchezza deve porsi tra le cause maggiori della povertà.

Quanto al tipo di dono che si dice abbian preso gli uomini in cambio dell’accusa (il fiore della giovinezza che mai appassisce), esso è di tal fatta che sembra mostrare come gli antichi non disperassero di trovare modi e medicine idonei per ritardare la vecchiaia e prolungare la vita; ma ponessero questo beneficio piuttosto tra quelli che, una volta posseduti, perirono e si dissolsero per l’incuria e la neghittosità umana, che non tra quelli che furono sempre loro legati e mai concessi.

Gli antichi dicono e accennano infatti che, per il giusto uso del fuoco e per la vigorosa condanna degli errori delle arti, non mancò agli uomini la munificenza divina per ottener siffatti doni; ma furono essi stessi a privarsene allorché posero questo divino dono su di un asinello tardo e pigro. Questi sembra essere l’esperienza, piena di lentezza e di indugi, dal cui passo tardo da testuggine, è sorto quell’antichissimo e triste detto: «La vita è breve; l’arte è lunga». Io sono difatti dell’opinione che quelle due facoltà, la dogmatica e l’empirica, non sian state ancora ben congiunte ed unite; e che il compito di portare nuovi doni degli dei sia stato affidato o alle astratte filosofie come a un uccello lieve, o alla lenta esperienza come a un asinello. Del quale, tuttavia, non bisogna mal fidarsi se non intervenga quell’incidente della via e della sete. Giudico infatti che se taluno segue l’esperienza con una determinata legge e con metodo, e non è trascinato per via ad esperimenti che servano o al guadagno o alla ostentazione, sì che per seguirli disfi o deponga il suo fardello, costui non sarebbe un inutile portatore di nuova e aumentata munificenza divina. Che poi proprio quel dono sia passato ai serpenti, sembra un’aggiunta meramente esornativa, se non significa forse che gli uomini si vergognano di non riuscire ad ottenere per sé con il fuoco e le altre arti quelle cose che la natura elargì a molti altri animali. Anche quella subita riconciliazione degli uomini con Prometeo dopo la fine delle loro speranze, contiene un monito utile e prudente: denota infatti la leggerezza e la temerarietà umana negli esperimenti nuovi. Se essi non danno subito successo e non rispondono alle aspettative, subito gli uomini abbandonano l’impresa iniziata e precipitosi ritornano alle idee antiche con le quali si riconciliano.

Descritto lo stato umano per quanto riguarda le arti e le cose intellettuali, la parabola passa alla religione; infatti il culto delle arti accompagnò quello divino, subito macchiato è occupato dall’ipocrisia. Sotto quel duplice sacrificio, è elegantemente simboleggiata la persona dell’uomo veramente religioso e dell’ipocrita. Nel primo si trova il grasso, che è poi in porzione di Dio, per il fiammeggiare e la fragranza, che significano l’affetto e lo zelo accesi alla gloria divina e bramosi di cose alte; vi sono viscere di carità ed utili e buone carni. Nell’altro nulla, tranne ossa nude spoglie, si trova; le quali, nondimeno riempiono la pelle ed imitano una vittima bellissima e magnifica; cose tutte dalle quali bene sono simboleggiati i riti inutili ed esteriori e le empie cerimonie con le quali gli uomini gravano e gonfiano il culto divino, cose organizzate piuttosto per l’ostentazione che per la pietà. Né basta agli uomini offrire a Dio simili ludibri, ma anzi glieli impongono ed attribuiscono, come se Egli stesso li avesse scelti e prescritti. Certamente il Profeta parla di questa scelta dicendo per bocca di Dio: «è forse questo quel digiuno che ho prescritto affinché l’uomo prostri al suolo il suo spirito per un solo giorno e abbassi il capo come un giunco?».

Dopo la situazione della religione, la parabola si volge ai costumi e alle condizioni della vita umana. È assai noto, è tuttavia ben detto, che tramite Pandora è simboleggiata la voluttà e la libidine che, dopo le arti, la cultura, il lusso della vita civile, si è accesa anch’essa come per dono del fuoco. Pertanto a Vulcano, che pure rappresenta il fuoco, viene attribuita la creazione della voluttà. Da questa, vennero poi infiniti mali negli animi, nei corpi e nelle fortune degli uomini, insieme col tardo pentimento; e non solamente nella condizione dei singoli, ma anche nei regni e nelle repubbliche. Dalla stessa fonte trassero l’origine le guerre, le sedizioni e le tirannidi. Veramente mette conto notare con che bella eleganza la favola dipinga le due condizioni dell’umana esistenza sotto le persone di Prometeo e di Epimeteo come in ritratti o esempi. I seguaci di Epimeteo non sono previggenti e non soppesano a lungo le azioni e stimano ciò che a loro piace al presente, e proprio per questo sono incalzati da molte angosce difficoltà e pericoli, e quasi perpetuamente combattono con essi, ma nel frattempo placano le loro inclinazioni, e, per la loro scarsa conoscenza delle cose, rimuginano nell’animo molte vane speranze, nelle quali tuttavia si dilettano come in soavi sogni, celando le miserie della loro vita. I seguaci di Prometeo, uomini assolutamente prudenti, e che guardano al futuro, riescono cautamente ad evitare mali ed infortuni e li scacciano; ma, con questa virtù, va congiunto il fatto che si privano di molti piaceri e del vario diletto della vita e frodano la loro inclinazione e, cosa ancora peggiore si tormentano e sono tormentati dall’angoscia e da timori remoti. Difatti, legati alla colonna della necessità sono torturati da infiniti pensieri (rappresentati dall’aquila per la loro mobilità) e per di più pungenti, mordaci e corrodenti il fegato. Solo a momenti, specialmente di notte, questi concedono una certa remissione e quiete all’animo, ma di tal fatta che subito ritornano nuove ansietà e timori. Pochissimi hanno avuto il benefizio di entrambe le sorti di mantenere i vantaggi della prudenza e di liberarsi dagli mali degli affanni e dei turbamenti: e nessuno può ottenere ciò se non per mezzo dell’aiuto di Ercole, cioè della fortezza e costanza d’animo, che, preparato ad ogni evenienza ed imperturbabile ad ogni sorte, guarda senza timore, agisce senza fastidio, tollera senza impazienza. Degno d’esser notato è che questa virtù non era innata in Prometeo, ma acquisita e per di più per opera altrui. Infatti nessuna fortezza ingenita e naturale può essere pari a tanta cosa: questa virtù fu portata dal sole e venne dall’estremo oceano. Essa viene infatti dalla sapienza che è come il sole, e dalla meditazione sull’incostanza della vita umana e delle sue onde, che è come un navigare sull’oceano. Cose entrambe che Virgilio ben collegò:

Felice chi può conoscere le cause delle cose
e calpesta con i piedi ogni timore
e il fato inesorabile e lo strepito dell’avaro Acheronte.
– Virgilio, Georg. II

Con somma eleganza si aggiunge, per consolare e rassicurare l’animo umano, che questo eroe grandissimo navigasse in una coppa o in una brocca: affinché gli uomini non si scusino o temano troppo le miserie o la fragilità della loro natura, se totalmente non sono capaci di una fortezza o di una costanza di questo tipo; di questo fatto Seneca disse bene affermando: «è grande cosa avere insieme la fragilità dell’uomo e la fortezza di Dio». Ma è già il momento di tornare a quel particolare che tralasciammo a ragion veduta, per non interrompere il concatenamento dei fatti: cioè quel crimine più straordinario di Prometeo quello di aver attentato alla pudicizia di Minerva. Infatti per questo delitto, invero gravissimo e grandissimo, subii quella pena del dilaceramento dei visceri. Il fatto non sembra essere altro che questo: gli uomini gonfiati dalla vastità della scienza e dalle arti, tentano spesso di sottomettere alla ragione ai sensi anche la sapienza divina; e da questo segue senza alcun dubbio una perpetua ed irrequieta stimolazione e lacerazione della mente. Pertanto bisogna distinguere le cose umane e quelle divine con mente misurata e reverente; e cioè gli oracoli del senso e della fede perché gli uomini non abbiano una falsa filosofia e una religione eretica.

Resta in ultimo quel particolare dei giochi di Prometeo con le ardenti fiaccole. Esso nuovamente si riferisce alle arti e alle scienze, come quel fuoco per la cui memoria e celebrazione questi giochi furono istituiti, e contiene un assai utile ammonimento: che la perfezione delle scienze non deve essere guardata dalla facoltà o acutezza di uno solo, ma dalla successione. Infatti quelli che sono velocissimi e validi nel correre e gareggiare, sono forse i meno abili a conservare accesa la loro fiaccola. Non minore è infatti il pericolo dello spegnimento della corsa troppo rapida che nella troppo tarda. Queste corse e gare di fiaccole sembrano esser state interrotte già da tempo, poiché vediamo le scienze fiorire soprattutto nei loro primi maestri Aristotele, Galeno, Euclide, Tolomeo, mentre la successione non ha fatto e neppure tentato nulla d’importante. Bisogna auspicare dunque che questi giochi in onore di Prometeo, cioè della natura umana, siano ripresi e che la vittoria dipenda dalla buona fortuna e dalla emulazione e dalla gara e non dalla tremula e agitata fiaccola di una sola persona. Pertanto gli uomini siano ammoniti a svegliarsi e a provare le loro forze e la loro successione e a non affidarsi interamente ai piccoli cervelli e alle piccole animucce di pochi uomini.

Questo è quanto ci sembra adombrato in questa favola nota e decantata; né tuttavia neghiamo che vi siano non pochi punti accennanti ai misteri della fede cristiana con mirabile consenso. Innanzitutto quella navigazione di Ercole su di una brocca per liberare Prometeo sembra simboleggiare il Verbo di Dio che si affretta alla redenzione del genere umano come su di un fragile vaso. Ma su questo invero ci interdiciamo di parlare, per non far uso di un fuoco estraneo presso l’altare di Dio.

Prometeo o lo stato dell’umanitàultima modifica: 2011-05-01T21:30:00+02:00da giovannisantoro
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