Il Mistero dei Templari

 
Martin Bauer
Il mistero dei Templari
Le vicende del potente e controverso
Ordine di monaci guerrieri, in un’avvincente narrazione
basata sulle più recenti ricerche storiche
 
 
 
 
Per la preparazione del materiale fotografico si ringrazia l’ufficio del
Turismo di Francoforte, la sezione culturale dell’ambasciata siriana di
Bonn, le linee aeree siriane di Monaco, l’ufficio del turismo di Francoforte,
la libreria Parker, il Corpus Christi College di Cambridge, la libreria
Bodleian di Oxford e la British Library di Londra.
Un ringraziamento particolare rivolgo ai collaboratori dei succitati Uffici
del Turismo e biblioteche e, prima fra tutti, la signora Maxeiner e il signor
Cannel.
Saluto anche le graziose signore delle linee aeree siriane.
Un grazie di cuore ai collaboratori della biblioteca statale di Monaco,
sezione manoscritti. Ringrazio inoltre Gertrud Bauer per la correzione
stilistica e Julia Bauer per quella sia stilistica che di contenuto.
 
Fonti per le immagini
British Library, Londra, segnatura: Man. Add. 28681 f. 9. Schedelsche
Weltchronik (Norimberga, 1493), f. 17. British Library, Londra, segnatura:
Royal MS 19B XV f. 37. Bodleyan Library, Oxford, segnatura: MS Douce
264 f. 38 v. Chronica Maiora des Matfhaus, Parigi. Parker Library, Corpus
Christi College, Cambridge: segnatura CCC MS 26 p. 220, CCC MS 16 f.
58 v.
 
Per L’editing: è stata mantenuta la forma originale per quanto riguarda i
numeri dei secoli, cioe: “i” in sostituzione di “I” come 1 (UNO) di primo.
 
 
 
 
 
 
 
 

 
 
 
«I Templari c’entrano sempre, in qualche modo i Templari hanno le
mani in pasta», questa è la conclusione di Umberto Eco nel suo Pendolo di
Foucault e difatti sembra che quest’Ordine cavalleresco, la cui tragica fine
risale a 600 anni or sono, sia ancora vivo nei pensieri e nel cuore di molte
persone. Molti sono inoltre convinti che sia sopravvissuto allo
scioglimento, risalente al 1314, e alla morte sul rogo dei suoi capi. Già al
tempo dell’Ordine correvano parecchie voci sui suoi superbi cavalieri, tutti
vestiti di bianco, che nella disfatta mostrarono disprezzo per la morte, ma
che nel quotidiano si lasciavano a malapena intravedere. Che cosa
accadeva dunque dietro le mura merlate del castello dei Templari?
Da dove proveniva realmente la loro ricchezza, nota a tutti?
Nella loro superbia i confratelli non ritennero mai necessario renderne
conto al popolo, al contrario sembrava che godessero delle voci che
andavano nascendo intorno all’Ordine e questo fu un errore
particolarmente grave, che li condusse direttamente alla fine. Nel 1307 il re
Filippo di Francia, raccolte le dicerie, le trasformò in capi d’accusa per il
processo che organizzò contro l’Ordine. I pettegolezzi e le dicerie erano
ormai giunti alle orecchie dei più: le autorità francesi credettero senza
difficoltà alle imputazioni e anche la difesa dei Fratelli da parte del papa fu
piuttosto tiepida. Gli atti del processo, i verbali degli interrogatori, le
perquisizioni di quasi tutte le sedi dell’Ordine, tutto portava solo a
indicazioni insufficienti al chiarimento di numerosi interrogativi, a molti
dei quali non è possibile rispondere neppure oggi.
Che cosa resta dunque dei Templari? Per molti storici essi rappresentano
solo una nota a margine della storia delle Crociate.
Posto che l’influenza dell’Ordine sulla nostra vita odierna sia nulla, due
idee dei Templari continuano a vivere:
– come poche altre organizzazioni, l’Ordine simboleggia un’Europa unita.
I Templari, infatti, provenivano dalle più diverse regioni d’Europa e si
riunirono per l’esecuzione di un compito comune. Le chiamate alle
Crociate di allora corrispondono, in qualche modo, all’odierno trattato di
Maastricht: il tentativo di unire l’Europa.
– Non solo però il comune ideale delle Crociate, ma anche l’idea del
cavaliere-monaco vive ancora oggi, anche se in forma diversa, nello stuolo
di militanti del volontariato in Europa. In loro sopravvive la figura che
Ugo di Payens inventò nel 1120: il soldato che agisce per raggiungere
 

 
 
 
obiettivi etici. Il cavaliere-monaco di quei tempi è il cittadino in uniforme
di oggi.
 
 
 
 
 
La Prima Crociata si concluse con un completo trionfo. Il 13 luglio 1099
Gerusalemme tornò in mano dei Cristiani, dopo secoli di dominio
musulmano. Tra i Crociati dilagò un’incredibile felicità: essi avevano
portato a termine, a costo di indicibili fatiche, il pellegrinaggio santo e
finalmente liberato la città dagli Infedeli in maniera drastica.
I cronisti narrano che fiumi di sangue scorressero per le strade di
Gerusalemme. Per secoli, Cristiani e Musulmani si erano contesi il
dominio di Gerusalemme, città sacra per i fedeli di ben tre religioni:
cristiana, ebraica e musulmana. Per l’Occidente medievale, Gerusalemme
rappresentò il mitico centro del mondo, tanto che Sant’Agostino la definì la
città della pace senza tempo.
 

Qui, secondo il credo diffuso in tutto il mondo, Cristo scese dal cielo,
qui, dopo la sua resurrezione e con il trionfo del Bene sulle forze delle
Tenebre, fu riportato il Paradiso in terra.
Questa nuova Gerusalemme celeste divenne il simbolo di una speranza
di salvezza senza confini. Il fatto che quasi nessun cristiano avesse visto la
città prima del 1099, stimolò enormemente la fantasia popolare; tanto che
la rappresentazione della Gerusalemme reale e di quella divina si
mescolarono. Tutto ciò venne sfruttato da preti e re nelle loro chiamate alle
Crociate con il miraggio, a coloro che si mettevano in viaggio, di un paese
immensamente ricco.
Sull’onda di questa propaganda molti crociati si aspettavano realmente di
trovare tetti d’oro nella mitica Gerusalemme, ma si trovarono invece a
dover espugnare con la forza la “città della pace infinita” e non trovarono
né oro né pace. Poiché la situazione dello stato crociato rimase critica
anche dopo l’espugnazione di Gerusalemme, i pellegrini si trovarono
impegnati in una lotta durissima. Ben presto si comprese che conquistare
la città e mantenerne il dominio erano due cose ben diverse. La maggior
parte dei Crociati, dopo la grande vittoria, desiderava tornare subito a casa
e solo una minima parte di quegli eroi era orientata a trattenersi
durevolmente in Oriente.
Durante i primi anni il flusso dei nuovi pellegrini bilanciò quello dei
Cristiani che tornavano a casa, tanto che la forza media complessiva potè
essere mantenuta. Sull’onda dell’euforia per i successi ottenuti in Palestina
molti volontari si mettevano in marcia dall’Europa per partecipare a una
sorta di pellegrinaggio armato.
Dopo che le città portuali erano cadute in mano cristiana, i Crociati non
dovettero più sottoporsi a lunghe marce e poterono imbarcarsi direttamente
per la Terrasanta.
Tuttavia un simile viaggio non si presentava certo esente da pericoli,
poiché al massiccio flusso di pellegrini si unirono anche persone animate
da motivazioni molto meno nobili, quali ladri e rapinatori. La via
principale conduceva al porto di Jaffa, fino a Gerusalemme, passando per
Ramleh. Il percorso, in particolare il tratto montuoso tra Ramleh e
Montoje, si trasformò ben presto nel rifugio prediletto dai briganti, tanto
che nessun viaggiatore osava affrontarlo senza un’adeguata scorta armata.
Molti cronisti narrano di un assalto musulmano a una carovana di
pellegrini tra Gerusalemme e il Giordano, nella Pasqua dell’anno 1119.
Questo episodio non rappresentò certo un caso isolato, tenendo conto degli
usi e costumi estremamente rozzi diffusi in Terrasanta, ma ebbe una
 

 
particolare importanza, poiché diede il via immediato alla fondazione
dell’Ordine dei Templari.
Il fatto che non esistesse alcun percorso sicuro tra Oriente e Occidente
creava un circolo vizioso: la mancanza di sicurezza in quelle zone tenne a
lungo lontani i pellegrini, la cui presenza, d’altra parte, era necessaria e con
urgenza, per presidiare le terre conquistate.
Solo una comunità cristiana numericamente più consistente sarebbe stata
in grado, quindi, di avere a disposizione un presidio di uomini armati in
grado di difendere i pellegrini dagli assalti.
Ancora nell’anno 1115, il re di Gerusalemme, Baldovino i, si lamentava
che i cristiani residenti in città fossero talmente pochi, che tutti insieme
avrebbero potuto a malapena riempire una delle strade principali della
città.
Ugo di Payens, nobiluomo della regione dello Champagne, si rese conto
del problema e nell’anno 1119 decise di dar vita a un’associazione militare
che potesse, in seguito, proteggere il percorso delle carovane dei pellegrini.
 
 
 
Sulle circostanze precise della fondazione dell’Ordine ben poco si sa,
perché non esistono cronache dell’epoca o, purtroppo, sono andate perdute.
Di solito si cita il cronista Guglielmo, arcivescovo di Tiro, che però non
nacque che nel 1130 e il suo racconto non può certo considerarsi di prima
mano. Secondo la sua Historia rerum in partibus transmarinis gestarum
(Storia degli avvenimenti d’oltremare), fu fatto solenne voto davanti a
Garimond, patriarca di Gerusalemme, di vivere, da quel momento in poi,
secondo le regole di San Benedetto: in povertà, castità e obbedienza.
Coloro che aderirono, giurarono inoltre che avrebbero fatto tutto il
necessario per rendere le strade sicure e proteggere i pellegrini da rapine e
agguati da parte degli Infedeli.
Giacomo di Vitry, vescovo di Akkon, ci fornisce nel xiii secolo qualche
ulteriore dettaglio sulla fondazione. Egli riferisce: «Nove uomini aderirono
a questo patto santo e servirono per nove anni iii abiti laici che i credenti
avevano dato loro in elemosina».
Il re, i suoi cavalieri e il patriarca erano colmi di compassione per questi
nobili cavalieri che avevano rinunciato a tutto per Cristo. Una storia
commovente, inventata, però, da cima a fondo.
Giacomo si pone in contraddizione con Guglielmo di Tiro sul numero di
cavalieri fondatori: occorre però tener conto che tra il 1119 e il 1128 altri
 

cavalieri avevano fatto il loro ingresso nell’Ordine e che il numero iniziale
di nove cavalieri non va preso alla lettera poiché potrebbe avere solo un
valore simbolico.
Il numero tre simboleggiava infatti, nella mistica medievale dei numeri,
la santità (presumibilmente per il concetto della trinità di Dio) e il numero
nove era considerato il numero santo per eccellenza, essendo il risultato di
tre volte tre, quindi la perfezione assoluta Tutto ciò ci porta a pensare che
in realtà non si trattasse di nove cavalieri, bensì, più realisticamente, di
alcuni cavalieri prescelti, per importanza, su un numero ben maggiore.
Sul numero preciso dei membri fondatori dell’Ordine non possiamo dire,
in ogni caso, nulla di più preciso. Alcuni autori moderni hanno preso il
dato alla lettera e hanno raccolto i nomi di nove cavalieri che potrebbero
essere stati della “partita”. Queste speculazioni appaiono comunque oziose,
non vi sono infatti precisi documenti sulla data di fondazione dell’Ordine
dei Templari che possano supportare o contestare simili congetture.
Torniamo quindi a Giacomo di Vitry e al suo racconto, ben sapendo che
è inventato e lasciamoci semplicemente influenzare dalla bella immagine:
nove cavalieri che vissero per nove anni vestiti di consunti abiti laici avuti
in elemosina.
Importante in questo contesto è che il voto di povertà valeva solo per i
singoli cavalieri e non per l’Ordine.
Non fosse altro perché ogni nuovo membro era tenuto a intestare
all’Ordine stesso tutti i propri beni, tanto che l’Ordine poteva contare già su
una considerevole ricchezza solo pochi anni dopo la sua fondazione.
Da allora, dall’anno 1119 cioè, cominciò anche il flusso di donazioni,
seconda fonte importante per l’agiatezza della confraternita.
Lo stesso Baldovino ii, re di Gerusalemme, si affrettò a mettere a
disposizione dell’Ordine, da poco fondato, il suo palazzo e si trasferì in un
altro edificio, appositamente costruito, nei pressi della torre di David.
Poiché la sede dell’Ordine sorgeva proprio nel luogo in cui, in
precedenza, era stato costruito il tempio di Salomone, ben presto i cavalieri
cominciarono a essere indicati come i “Fratelli del Tempio”, “Cavalieri del
Tempio” o più semplicemente Templari: ufficialmente però il loro nome
era “Poveri soldati di Cristo” (Pauperes commilitones Christi templique
salomonici Hierosalemitas).
Ma da chi partì l’iniziativa della fondazione? Guglielmo di Tiro pone la
questione in questi termini: i cavalieri fecero il voto, quindi il Patriarca e
gli altri vescovi affidarono loro la prima missione che consisteva nella
protezione delle strade, naturalmente dopo la remissione dei loro peccati.
 

Questo racconto appare però poco credibile, poiché se i Templari avessero
realmente fatto soltanto voto di povertà, castità e obbedienza si sarebbe
trattato di semplice professione delle regole benedettine e, in quanto tale,
non particolarmente interessante. Si può quindi supporre per certo che Ugo
di Payens abbia fondato l’Ordine per la protezione dei pellegrini e che
Baldovino sia rimasto tanto entusiasta dell’iniziativa di Ugo, da accogliere
il nuovo Ordine nel suo stesso palazzo. Probabilmente Baldovino ospitò i
Templari non solo per il ruolo importante che promettevano di ricoprire
nel regno, ma anche per un calcolo legato alla politica interna. La nobiltà
della Terrasanta aspirava infatti, dopo il 1117, a una maggiore
indipendenza dalla supremazia reale.
Baldovino sperava di poter legare a sé i Templari con qualche
donazione, per poterli eventualmente utilizzare più tardi contro la inquieta
nobiltà del suo paese.
Guglielmo di Tiro distorce del resto intenzionalmente la verità, quando
sostiene che fin dall’inizio i Templari avrebbero dovuto servire il re. Egli
critica, nella sua opera, la ricchezza e l’arroganza dei Templari e sottolinea
che l’Ordine avrebbe quindi visto la luce senza mezzi propri e sotto
comando straniero.
Nei primi anni i Templari erano effettivamente sottomessi, per certi
versi, sia al Patriarca sia al loro benefattore, il re.
Tuttavia, re e Templari, non vivevano un rapporto di effettiva superiorità
o sottomissione, bensì in una sorta di simbiosi: entrambe le parti
riconoscevano quanto potessero divenire reciprocamente importanti e
cercavano di andare d’accordo.
In una prima lettera, Ugo di Payens si lamentava tuttavia del crescente
malcontento dei confratelli per il fatto di dover obbedire a signori diversi
dai capi dell’Ordine.
Ma Luigi Charpentier ci fornisce una versione totalmente diversa dei
fatti: infatti, secondo lui, l’Ordine fu fondato con uno scopo completamente
diverso dalla mera protezione dei pellegrini. Il principale compito dei
Templari non sarebbe quindi stato in Terrasanta, bensì in Francia. Si dice
che Benedetto da Norcia – il fondatore dell’Ordine dei Benedettini che, più
tardi, fu proclamato santo – nel vi secolo fosse venuto in possesso di
documenti segreti antichissimi, da molto tempo accessibili solo agli
iniziati.
 
 
 
 

 
Nella pagina a fronte; Il tempio di Salomone (rappresentato in modo
sproporzionato rispetto agli altri edifici) come simbolo del centro di
Gerusalemme. Il quartier generale dell’Ordine si trovava nel luogo in cui
prima sorgeva questo tempio, proprio al centro del mondo.
 
 
 
Pare che Benedetto partendo da questi abbia inventato la confraternita
laica: i monaci erano normalmente inseriti nella vita quotidiana e potevano
di conseguenza diffondere con discrezione queste conoscenze ma stavano
sotto la protezione dell’Ordine, per sfuggire alla persecuzione da parte di
signorotti o vescovi.
 

I principi avrebbero cercato, secondo Charpentier, di impedire in ogni
modo che il sapere segreto (tramandato dai monaci) venisse trasmesso alle
persone semplici, al popolo.
Per Charpentier l’Ordine dei Templari fu fondato, secondo un piano
vecchio di secoli, solo per proteggere i predicatori che diffondevano tra il
popolo il “sapere segreto” tramandato dall’antichità. Purtroppo anche il
ragionamento di Charpentier era pura speculazione e non era supportato da
alcun fatto.
Sull’anno preciso della fondazione dell’Ordine regna tra gli storici molta
incertezza. Nei documenti ufficiali i Templari vengono menzionati per la
prima volta negli atti del Concilio di Troyes del 1128, durante il quale
vennero codificate le regole dell’Ordine.
In base ai documenti, quel Concilio fissa nel giorno dedicato a
Sant’Ilario (cioè il 13 gennaio) dell’anno 1128, il nono anno dalla
fondazione dell’Ordine cavalleresco.
A prima vista la data di fondazione appare dunque chiara: il 1119.
Ma nuove ricerche partono dall’anno 1120, poiché a quei tempi era in
vigore nella Francia del Nord il calendario che contava gli anni a partire
dall’annunciazione di Maria, cioè dal 25 marzo.
II gennaio 1128 si trovava dunque, secondo questo conteggio, già nel
1129 e l’Ordine, di conseguenza, avrebbe avuto origine solo nell’anno
1120.
Per complicare ulteriormente la cosa, Guglielmo di Tiro cita il 1118
come anno di fondazione.
Appare quindi impossibile stabilire con certezza oggettiva la data, tanto
più che l’affermazione di Giacomo di Vitry, che la colloca al nono anno,
non può essere presa alla lettera poiché i nove cavalieri che si riuniscono in
un Ordine e operano di nascosto per nove anni, fa pensare alla mistica dei
numeri.
Il numero nove rappresenta, come già detto, la perfezione.
Di quest’aura di perfezione i cavalieri dell’Ordine si circondavano
volentieri, e il mito sulla fondazione sostituì ben presto la realtà storica,
tanto a fondo, che noi oggi non possiamo stabilire, in modo oggettivo, ciò
che è storico e ciò che è inventato: verità e fantasia -come spesso accade –
si sono dunque intrecciate in modo inestricabile. Anche altri ricercatori
non credono a una fondazione intorno all’anno 1119 e tentano di
dimostrare l’esistenza dell’Ordine già dal 1114 o 1115. I sostenitori di
quest’Ultima tesi portano come prova una lettera del vescovo Ivo di
Chartres, dell’anno 1114 o 1115, al conte Ugo di Champagne, più tardi
 

membro dell’Ordine, nella quale discuteva la decisione di Ugo di
abbandonare il voto di castità e di associarsi a una “Milizia di Cristo”.
I Templari si presentarono ripetutamente, soprattutto nei primi anni,
come la “Milizia di Cristo” e non si deve assolutamente a loro l’invenzione
di questa espressione. Già l’apostolo Paolo l’aveva usata e il papa Urbano ii
stesso aveva parlato di una “Milizia di Cristo” nelle sue prediche
antecedenti alla Prima Crociata.
E vero che il conte Ugo di Champagne riferisce dell’Ordine dei Templari
già nel 1114, ma egli era un intimo confidente di Ugo di Payens e
presumibilmente ne conosceva i progetti che, in quel momento, non erano
ancora stati realizzati né ufficialmente dichiarati. Si può quindi fissare, con
discreta sicurezza, la data di fondazione dell’Ordine tra il 1118 e il 1120.
In ogni caso ci si può meravigliare del fatto che non esista praticamente
alcun documento in grado di stabilire inequivocabilmente la data di
fondazione dell’Ordine dei Templari. Perché, ad esempio, il cronista di re
Baldovino ii, Fulvio di Chartres, non dice una parola sull’ingresso dei
Templari nel palazzo, nel quale, fino a poco prima, aveva egli stesso
abitato?
In buona sostanza, però, la domanda sulla precisa data di fondazione
dell’Ordine è puramente accademica. Sapere per quanti anni esso sia
esistito in segreto, prima di uscire allo scoperto, resta comunque
totalmente ininfluente.
Infatti l’Ordine assunse reale importanza solo con l’ingresso del conte
Ugo di Champagne, nel 1126. Solo da allora cominciarono ad arrivare le
donazioni, presumibilmente a partire da quello stesso anno crebbe anche il
numero dei confratelli e il mondo esterno cominciò ad accorgersi dei
Templari e ad accettare la loro missione. Anche sul fondatore ufficiale e
primo Grande Maestro dell’Ordine, sappiamo molto poco.
Egli sarebbe nato intorno al 1080 a Payens, una località dello
Champagne, fatto cavaliere, divenendo signore di Montigny-La-gesse, e
possedeva terre nella regione di Tonnere. Si sposò ed ebbe un solo figlio,
Teobaldo, che nel 1139, divenne abate del monastero di Sainte Colombe, a
circa dieci chilometri da Troyes. Sembra del resto che Theobald avesse
messo in pratica il desiderio di suo padre di essere monaco e cavaliere al
tempo stesso: egli, infatti, si annoiava palesemente come abate di Sainte
Colombe. Quindi impegnò brevi manu una corona d’oro di grande valore,
appartenente al suo convento, per finanziare la sua partecipazione alla
Seconda Crociata (1147-1149). Secondo alcuni storici, Ugo di Payens
aveva partecipato già alla Prima Crociata (1096-1099) da cui aveva fatto
 

ritorno nell’anno 1100. Prove certe dei suoi pellegrinaggi a Gerusalemme
si hanno però solo relativamente agli anni 1104 e 1114 e, in occasione di
quest’ultimo viaggio, si stabilì definitivamente a Gerusalemme. I primi
progetti per una “Milizia di Cristo” sembra esistessero fin da allora, come
dimostra la già menzionata lettera di Ugo di Champagne al vescovo Ivo di
Chartres. Ugo di Payens e il conte Ugo di Champagne erano
verosimilmente legati fra loro ed è probabile che Ugo di Payens
appartenesse a un ramo cadetto del casato nobiliare di cui era capo il conte
Ugo.
Luigi Charpentier confuta però l’estrazione nobiliare di Ugo di Payens,
anche perché, a suo parere, i Templari rappresentavano una milizia
socialmente rivoluzionaria che avrebbe dovuto aiutare il popolo a liberarsi
dal giogo della nobiltà. Ma la sua versione, secondo cui Ugo di Payens
altro non sarebbe stato se non un impiegato dell’amministrazione della
provincia, appare poco verosimile: i due Ugo intrattenevano stretti rapporti
fra loro e intrapresero insieme il pellegrinaggio negli anni 1104 e 1114.
In favore di un rango più elevato di Ugo di Payens parla, del resto, il suo
matrimonio con una figlia della casata di Montbard, che apparteneva alla
media nobiltà e il cui più famoso rampollo fu Bernardo di Clairvaux. Di
questo Bernardo si parlerà in seguito poiché divenne il più influente
portavoce dei Templari.
Con grande energia egli sostenne la novità dell’idea di Ugo di Payens,
quella cioè di riunire monaco e cavaliere in una sola persona. Ugo realizzò
la sua visione dei cavalieri-monaci con la fondazione dell’Ordine. La
rapida ascesa dei Templari, che cominciò nel 1116, dimostra che questa
idea si adattava perfettamente al clima spirituale del tempo. Ugo decise di
utilizzare pubblicamente l’atmosfera favorevole e intraprese nel 1127, con
cinque confratelli, un “viaggio promozionale” in Occidente.
Per prima cosa si intendeva ottenere un riconoscimento ufficiale
dell’Ordine da patte delle autorità ecclesiastiche e poi la benedizione per
reclutare nuovi membri e chiedere donazioni. Dar credito a ciò che narrano
i cronisti dell’epoca, secondo i cui racconti “nove poveri cavalieri”
avrebbero collaborato alla formulazione del regolamento dell’Ordine
durante il Concilio di Troyes nel 1128, pare azzardato. Infatti cinque
Templari sarebbero stati presenti al Concilio mentre solo quattro sarebbero
rimasti a proteggere i pellegrini in Terrasanta: davvero pochi! Che cosa
facevano questi cavalieri, rimasti in Terrasanta negli anni tra il 1127 e il
1129, mentre il loro capo Ugo di Payens viaggiava in Occidente? Non lo
sappiamo e non è che uno dei molti interrogativi a cui nessuno può
 

 
rispondere in modo convincente. Nonostante siano stati già brevemente
trattati, li riassumiamo qui di seguito ancora una volta:
–  Perché non esistono scritti di cronisti contemporanei sulla fondazione
dell’Ordine?
–  Come potevano proteggere “nove poveri cavalieri” il cammino dei
pellegrini?
–  Per quale motivo non compaiono per nulla i Templari, anche negli
anni dal 1119 al 1126, nonostante Ugo di Payens e tutti gli altri cavalieri
fossero già presenti a Gerusalemme?
–  Di che cosa si occupavano in quel periodo?
–  Proteggevano già il cammino dei pellegrini?
–  Perché non ci è giunta alcuna cronaca?
–  Come mai Ugo di Champagne sacrificò la sua vita in Francia al
servizio dell’amico Ugo di Payens che, per ricchezza e discendenza, gli era
inferiore?
Domande su domande ad alcune delle quali non si potrà mai dare una
risposta soddisfacente. Anche in futuro si potrà quindi speculare a lungo
sulle circostanze inerenti la fondazione dell’Ordine. Soltanto a partire dal
“viaggio promozionale” di Ugo di Payens, nel 1127, in Occidente, si
dirada un po’ di nebbia della storia e possiamo seguire con maggior
precisione l’operato dei Templari. Re Baldovino ii finanziò questo viaggio
e lo appoggiò anche idealmente, dando a Ugo di Payens una lettera di
raccomandazione in cui lodava apertamente il progetto dei Templari. In
questo itinerario Ugo di Payens visitò la Normandia e attraversò il canale
della Manica.
Viaggiò per tutta l’Inghilterra e si spinse fino in Scozia, reclutando
ovunque cavalieri per Gerusalemme.
L’opera di raccolta di Ugo e dei suoi confratelli riscosse un grande
successo in Champagne, in Borgogna, in Belgio e nelle Fiandre.
Anche i re della Penisola Iberica mostrarono fondamentalmente una
positiva inclinazione nei confronti dei Templari, ma tentarono di sfruttare
per sé le loro energie perché, in fondo, anche Spagna e Portogallo erano
assediati o minacciati e anche là era necessario proteggere i Cristiani.  
 
 
 
Facendo una constatazione retrospettiva, meraviglia che l’idea di Ugo
abbia trovato fin dall’inizio un forte consenso, anziché cozzare contro una
decisa resistenza.
 

La sua invenzione era di certo rivoluzionaria: per la prima volta, infatti,
la contemplazione e la lontananza dal mondo della vita monacale venivano
combinati con l’azione, rozza e sanguinaria, dei condottieri.
Come si poteva amare la gente come monaco e ucciderla come
cavaliere? Come si potevano riunire in un’unica persona due attività e
missioni tanto inconciliabili?
Che cosa dovremmo pensare oggi di un ufficio legale, i cui membri si
dedicassero nel pomeriggio al furto, o di un gruppo di pompieri che
appiccasse sistematicamente incendi nel tempo libero?
Questi paragoni così estremi sono scelti di proposito per metterne
meglio in evidenza l’acuto contrasto. Non bisogna dimenticare poi che la
contrapposizione tra monaco e cavaliere ci appare oggi meno forte di come
potesse apparire a un uomo del xii secolo.
In quel tempo lo stato religioso godeva nella società medievale di grande
considerazione, i monaci erano considerati come dei santi che avevano
rinunciato al mondo per essere più vicini a Dio.
I cavalieri, invece, erano considerati in ogni caso, al massimo, come un
male necessario, un vero e proprio tormento che nel corso del xii secolo si
era sviluppato in modo esponenziale.
La rappresentazione che facciamo oggi dei nobili cavalieri ha subito
l’influenza dei romanzi di corte come il Parsifal  di Wolfram von
Eschenbachs, che a partire all’incirca dal 1170 propongono un quadro
idealizzato dei cavalieri cristiani e dei trobadours (cantori di corte). Questi
libri descrivono come si sarebbero dovuti comportare i combattenti, non
come in realtà si comportavano.
L’avvento della cavalleria rappresenta un ulteriore sviluppo iniziato
intorno alla fine del primo millennio.
Questi soldati a cavallo, che si lanciavano in battaglia chiusi nelle loro
corazze, provenivano, già all’inizio dell’xi secolo, quasi esclusivamente
dalla nobiltà. Solo più tardi, molti, non di nobili origini, presero servizio
come cavalieri: erano uomini al servizio del re, per lo più di umile
estrazione che, con le loro prestazioni militari, cercavano di migliorare la
propria posizione.
Già a partire dall’xi secolo, infatti, i re tendevano a collocare questi
uomini in posizioni importanti, per limitare l’influenza delle grandi
famiglie nobili che, fino ad allora, le avevano per tradizione occupate.
Mentre molti figli di contadini, coraggiosi e intelligenti, sfruttavano ben
volentieri l’opportunità di una carriera al servizio del re, i nobili
osservavano questa evoluzione con grande diffidenza poiché vedevano
 

malvolentieri simili carrieristi ottenere in un sol colpo gli stessi loro diritti
e servire nella stessa unità accanto ai figli di principi o addirittura
assumerne il comando.
Questi due gruppi di cavalieri non si distinguevano solo per le loro
origini, ma anche per la loro fedeltà: i nobili combattevano
sostanzialmente per se stessi, mentre gli altri sapevano bene che avrebbero
dovuto essere grati per la loro ascesa al signore che li aveva assoldati e per
lo più lo ricompensavano con assoluta lealtà.
In genere i soldati di professione, benché creati proprio per rinforzare
l’Ordine, portarono tuttavia qualche inquietudine. Taluni ubbidivano solo
controvoglia o per nulla ai loro principi e nelle regioni da loro governate,
non avevano remore a rapinare e ad assalire i pellegrini, se si presentava la
buona occasione.
Sotto i Capetingi il potere dei re decadde e le aggressioni della cavalleria
furono, fino all’inizio del xii secolo, sempre più sfacciate.
Essendo il re troppo debole per impedire gli eccessi peggiori, la Chiesa,
come ultima autorità sociale, fece perciò un tentativo estremo. L’abate
Sugar di Saint Denis, consigliere dei re di Francia nel xii secolo, insultò i
cavalieri, definendoli sobillatori, briganti, stupratori e rapinatori. Ma la
Chiesa non disponeva, per sua natura, dei mezzi adatti a contenere con la
forza i cavalieri. I vescovi potevano solo proclamare la cosiddetta “pace di
Dio” che proteggeva alcuni luoghi (chiese e cimiteri), persone (chierici),
cose (proprietà della Chiesa) o utensili da lavoro dei contadini.
Papa Urbano ii, nelle sue prediche per la Crociata, offrì ai cavalieri una
via di uscita alla loro prescrizione dalla società: «Potrebbero essere
cavalieri di Cristo, d’ora in poi, coloro che fino a ora furono solo briganti!
Gli stessi che fino a ora si sono battuti solo con i loro fratelli e i loro
parenti, potrebbero combattere ora, con pieno diritto, contro i barbari! Ne
avrebbero eterna ricompensa… ».
Dal momento però che Urbano ii conosceva bene i suoi polli, non
promise loro solo una ricompensa spirituale (la salvezza) al
raggiungimento dell’obiettivo, bensì anche ricchezze terrene: «Qui erano
tristi e poveri, là diventeranno ricchi e felici».
Ugo di Payens, con i suoi Templari, non voleva invece dare contenuto
morale (o legarli all’adempimento di un compito socialmente significativo)
a spadaccini qualsiasi.
La sua idea prevedeva piuttosto che nell’Ordine entrasse solo l’elite
morale della cavalleria, quindi quei virtuosi rappresentanti della loro
condizione sociale che si comportassero in ogni caso in modo esemplare,
 

 
 
poiché nel caso in cui il cavaliere fosse stato ispirato a ideali cristiani,
sarebbe comunque scomparso l’apparente contrasto tra monaco e cavaliere.
Proprio con questo argomento Ugo tentò di ottenere la benedizione del
Concilio di Troyes per la sua invenzione: la combinazione tra monaco e
cavaliere.
Dopo nove anni di vita segreta, l’Ordine doveva ormai, per più di un
motivo, divenire pubblico, legittimare la sua funzione e darsi regole
vincolanti. Innanzitutto regnava tra i Templari stessi insicurezza estrema
sul proprio stato.
Compivano realmente un’opera gradita a Dio quando proteggevano i
percorsi dei pellegrini? I membri della prima ora, e questo non si deve mai
dimenticare, erano uomini profondamente religiosi che pensavano
seriamente alla salvezza della propria anima ma che, per provenienza ed
educazione, erano stati formati ed educati per una vita cavalleresca attiva,
per cui non potevano semplicemente entrare a vivere in un convento, solo
per pregare.
Fu proprio questa insicurezza che spinse molti a non entrare nell’Ordine,
benché interessati.
Ugo di Payens sapeva che i Templari avrebbero potuto arruolare nuovi
aderenti in grande stile se la Chiesa avesse dichiarato la vita del cavaliere-
monaco in grazia di Dio, un modo cioè, legittimamente accettato, per
raggiungere la grazia di Dio.
 
 
 
 
Il 13 gennaio dell’anno 1129 si riunirono, a pochi chilometri di distanza
da Payens, i partecipanti al Concilio di Troyes. Questo Concilio doveva
redigere il regolamento dei Templari, un vero e proprio statuto che tenesse
conto della situazione del tutto speciale dei Templari e al contempo
garantisse la vita monastica dei suoi aderenti. Al Concilio di Troyes,
riunito per redigere il regolamento dei Templari, erano presenti un legato
papale, due arcivescovi, gli abati di numerosi conventi, mentre non
vengono menzionati i membri dell’Ordine che pure erano sicuramente
presenti.
Leggere questa lista di partecipanti fa una certa impressione: la presenza
di un legato del papa, dell’importanza del cardinale Mattia di Albano,
 

dimostra che anche papa Onorio ii era particolarmente interessato agli
avvenimenti. Può essere che Ugo di Payens, durante il suo “viaggio
promozionale”, avesse trovato il modo di far visita al papa a Roma, poco
prima del Concilio. Pur non disponendo di prove certe, appare abbastanza
plausibile che Onorio ii abbia seguito l’evoluzione dell’Ordine, con molto
interesse, già prima del Concilio. Inoltre con Stefan Harding (l’abate di
Cìteaux poi proclamato Santo) e Ugo di Macon (Abate di Fontigny) vi
presero parte i più importanti dignitari dei Cistercensi, il che dimostra
quale fortissima influenza esercitasse questo Ordine monacale sugli ideali
dei Templari. Infine era presente anche Bernardo, il fondatore e abate del
monastero di Clairvaux, colui che incorpora come nessun altro gli ideali
dei Cistercensi che rifiutavano potere e ricchezza della Chiesa e davano
valore a una vita lontana dal mondo quale strada maestra per raggiungere
la salvezza dell’anima. Dal convento di Clairvaux la riforma Cistercense si
diffuse rapidamente in tutta Europa, tanto che ancora sotto la conduzione
di Bernardo sorsero ben 68 nuovi conventi che costituirono il punto di
partenza per fondarne ben altri 168. Bernardo, detto Doctor mellifluus
(“maestro la cui parola scivola come il miele”), per la sua grandiosa arte
oratoria e per la capacità di persuasione, fece strada come influente
consigliere del capo temporale e spirituale del xii secolo e fu protagonista
decisivo per l’organizzazione della Seconda Crociata (1147-1149). Inoltre,
nell’anno 1130, con Innocenzo ii e, nel 1148, con Eugenio iii, furono eletti
papi che avevano subito la forte influenza di Bernardo relativamente a tutti
i grandi problemi in essere. Questa storia tipicamente medievale trovò il
suo coronamento nell’anno 1174 e, proprio a 21 anni dalla sua morte,
Bernardo fu fatto santo. Le prime esternazioni di Bernardo sul nuovo
Ordine non facevano ancora presagire che quest’uomo sarebbe diventato il
più significativo portavoce e promotore dei Templari, tanto che nel 1126
non si mostrò particolarmente entusiasta di entrare nell’Ordine, quando
venne a conoscenza dei piani del suo amico Ugo di Champagne, e avrebbe
preferito invece vedere entrare quest’ultimo nell’Ordine dei Cistercensi.
Con l’ingresso di Bernardo si decise, in ogni caso, il destino dell’Ordine dei
Templari, infatti, già in precedenza, l’entrata nella compagine dei Templari
dei ricchi e potenti Conti di Champagne aveva conferito loro quella
credibilità di cui avevano estremo bisogno. In una lettera al vescovo di
Lincoln del 1129, Bernardo poneva chiare priorità, quali la separazione dal
mondo del monaco che avrebbe avuto un valore di valutazione superiore,
salutare alla stessa spedizione armata in Terrasanta. Tuttavia nel medesimo
anno egli contribuì a fissare le regole dei Templari. Bernardo, che fu –
 

 
come abbiamo già sottolineato – di gran lunga la più nota personalità del
movimento Cistercense di quel tempo, ricevette dai partecipanti del
Concilio l’incarico di elaborare le regole preparate da Ugo di Payens e di
scrivere una prefazione.
 
 
 
In questo testo introduttivo, Bernardo si rivolgeva alla cavalleria laica e
la invitava a «seguire coloro che Dio aveva prescelto nella massa dei
dannati e destinato, con la sua grazia, a difendere la Santa Chiesa».
Citando la lettera di Efeso 1.4, Bernardo aggiunge poi che molti sarebbero
stati designati, ma solo pochi i prescelti.
Ponendo l’accento su questo privilegio di essere prescelti, Bernardo
rimandava apertamente alla famosa allegoria del Tempio di Sant’Agostino.
Infatti Agostino, chiamava prescelti gli uomini che credevano
profondamente, le pietre cioè sulle quali sarebbe stato edificato il nuovo
tempio di Dio.
Il “nuovo tempio” rappresentava nell’allegoria una Chiesa riformata
secondo gli antichi ideali cristiani. Si rifacesse come gli uomini eletti,
secondo Agostino, che avrebbero dovuto riformare la Chiesa ufficiale;
così, secondo Bernardo, i Templari avrebbero dovuto essere i prescelti per
costruire una nuova cavalleria, che non uccidesse e aggredisse ma
conducesse, al contrario, un’esemplare vita cristiana.
Questa introduzione di Bernardo suona, nell’insieme, non proprio
entusiasta, soprattutto se la paragoniamo con Lode della milizia,
pubblicato lo stesso anno. Al tempo del Concilio, Bernardo non appariva
quindi ancora convinto dell’idea del cavaliere-monaco. Questo che spiega
il tono sobrio e colto della sua prefazione che, con il richiamo ripetuto
all’allegoria del Tempio di Sant’Agostino perseguiva infatti uno scopo ben
preciso.
Nel Medioevo, non vinceva una disputa chi portava il miglior
argomento, bensì chi poteva citare a proprio favore le più alte autorità
ecclesiastiche. Nel momento in cui Bernardo riuscì quindi a creare un
collegamento tra i Templari e l’universalmente venerato Agostino,
attraverso l’allegoria del Tempio ebbe sui contemporanei lo stesso effetto
di una approvazione incondizionata dell’impresa dei Templari da parte di
Sant’Agostino stesso.
L’Ordine che aveva appena visto ufficialmente la luce, poteva dunque
contare su tre illustri padrini: il papa (Onorio ii, rappresentato da un
 

 
legato), l’uomo più santo dell’epoca, Bernardo di Clairvaux e, seppur
indirettamente, il più influente Padre della Chiesa, cioè Sant’Agostino.
Nonostante quanto è stato sempre sostenuto, il testo delle regole dei
Templari non è in ogni modo frutto della penna di Bernardo di Clairvaux
poiché è vero che nel xiv secolo, durante il processo contro i Templari,
parecchi cavalieri testimoniarono che le regole dell’Ordine si dovevano a
Bernardo di Clairvaux, ma in realtà, come poteva essere tanto informato
un Templare del xiv secolo sul Concilio di Troyes?
No, queste testimonianze dimostrano soltanto che persino un
appartenente all’Ordine non era più in grado di distinguere tra la realtà
storica e l’autoritratto abbellito che l’Ordine si era costruito nel corso dei
secoli. Forse i Templari, pur conoscendo la verità, ritenevano che la
sfolgorante reputazione di Bernardo di Clairvaux avrebbe illuminato di
luce riflessa l’Ordine e, nonostante sapessero con certezza che le regole
non erano state redatte da lui, gliele attribuirono.
Il testo introduttivo delle regole dei Templari diceva chiaramente, in
ogni caso, che chiunque ne fosse l’autore «La struttura e la suddivisione
dell’Ordine dei Cavalieri le abbiamo udite noi tutti insieme, dalla bocca di
Ugo di Payens e conoscendo il nostro scarso intelletto, lodammo ciò che ci
parve buono e vantaggioso e rifiutammo ciò che ci parve inutile».
Chi avrebbe potuto infatti redigere le regole dell’Ordine, se non il suo
fondatore e Gran Maestro?
Inoltre Ugo di Payens aveva avuto nove anni a disposizione per
elaborare uno statuto che in seguito Bernardo, forse, modificò in alcuni
dettagli.
Il lavoro complessivo della stesura delle regole non può però
allontanarci dalla verità che sta tra i due mondi, quello di Ugo e quello di
Bernardo: Bernardo era e rimase un monaco che non poteva essere
conquistato sicuramente dalla vita del soldato.
Egli aiutò i Templari semplicemente a darsi un’adeguata cornice che
anche la Chiesa potesse accettare.
 
 
 
Esistono due versioni delle regole dei Templari, quella ufficiale in
latino, che fu decisa dal Concilio, e una seconda in francese.
In linea di massima la versione francese coincide con quella latina,
anche se, in alcuni punti, risulta più ampia e più completa.
Il regolamento latino si compone di 72 articoli, che stabiliscono come
 

vivere in comunità nell’Ordine e discetta su tutto ciò che concerne la vita
monastica secondo le severe direttive dei Cistercensi.
I novizi erano obbligati a fare voto di povertà e castità. Il motto ora et
labora  (‘prega e lavora’) caratterizzava la quotidianità dei Templari: essi
dovevano pregare e seguire la messa, se non vi erano incombenze militari
a impegnarli e che venivano, peraltro, stabilite con estrema precisione. Il
regolamento prescrive anche precise norme per l’abbigliamento e la foggia
dei capelli; inoltre i cavalieri dell’Ordine dovevano essere riconoscibili
dall’abito bianco sul quale portavano un mantello bianco, che ben presto
divenne un insostituibile segno di riconoscimento.
Il bianco, colore fondamentale e che era del resto anche il colore dei
Cistercensi, simboleggiava la purezza dell’anima: «a tutti i novizi diamo
abiti bianchi in modo che coloro che hanno lasciato dietro di sé una vita
vissuta nell’oscurità, possano riconoscere che il loro compito consiste
nell’ubbidire al Creatore delle loro anime con una vita pura e immacolata.
Inoltre i Templari devono tagliare i capelli corti come i Cistercensi,
possono però, al contrario dei monaci, portare la barba».
La vistosa croce rossa che i Templari portavano sulle spalle, fu
introdotta solo nell’anno 1147, sotto il pontificato di Eugenio iii.
Il regolamento dei Templari, che rappresenta il principale documento di
fondazione dell’Ordine, si divide in due parti che si occupano della vita
quotidiana: la convivenza monastica è regolata in modo simile a quella dei
Cistercensi, mentre il servizio armato, si basa su alcune riflessioni pratiche
e su un codice d’onore cavalleresco. Il lato rivoluzionario delle regole dei
Templari consiste proprio nella combinazione di questi elementi.
È come per l’invenzione della polvere da sparo dove i componenti
(nitrato, zolfo e carbone di legna) erano già tutti conosciuti nel Medioevo,
ma solo la giusta miscela produsse (per gli Europei) qualcosa di
completamente nuovo. Questo paragone è particolarmente appropriato
perché entrambe le miscele, Ordine dei Templari e polvere da sparo,
avrebbero presto sviluppato un’enorme forza esplosiva nella società del
loro tempo.
Come già ricordato, il regolamento si compone di 72 paragrafi, e non si
tratta di un caso, bensì ancora di un gioco riguardante la mistica dei
numeri. Il numero 72 si ottiene moltiplicando nove per otto volte e l’otto
rappresenta il rinnovamento e la rinascita, mentre il nove simboleggia la
perfezione.
Nel numero 72 si uniscono quindi, in modo ideale, rinnovamento e
perfezione, e perciò già solo il numero dei paragrafi dimostra la
 

straordinariamente elevata concezione che i Templari avevano di se stessi.
All’interno di ogni paragrafo il numero “sacro” tre gioca poi, ancora una
volta, un ruolo decisivo, sia per quanto riguarda le regole spirituali, sia per
le faccende militari. I Templari, ad esempio, avrebbero dovuto accettare la
battaglia contro gli Infedeli, anche quando questi fossero stati
numericamente tre volte superiori, mentre contro i Cristiani, invece,
avrebbero potuto combattere solo se provocati per tre volte.
Anche nella quotidianità entra questa regola del tre: chi trascura i propri
compiti verrà frustato tre volte; tre volte alla settimana è concesso
mangiare carne e tre volte alla settimana si deve fare l’elemosina.
Naturalmente, anche in questo caso, questo numero che ritorna
ossessivamente non è da prendere alla lettera e il fatto che i Templari
dovessero combattere contro forze nemiche tre volte superiori, significa
solo un’esortazione ad affrontare con coraggio il combattimento, anziché
evitarlo.
Purtroppo alcune volte i Templari poi presero alla lettera questi paragrafi
e si gettarono in avventure militari che spesso rasentavano il suicidio. Le
regole che imponevano di affrontare dei Cristiani solo in seguito a una
triplice provocazione avrebbero dovuto invece tener desto nei Templari il
ricordo della loro missione di proteggere i Cristiani dai Saraceni e non di
attaccar lite di qualsiasi tipo con altri cavalieri.
Uno dei più interessanti capitoli del regolamento stabiliva che ogni
uomo libero che facesse atto di sottomissione, avrebbe potuto entrare
nell’Ordine. Tutti coloro che fossero stati interessati avrebbero quindi
potuto farsi avanti con la certezza che nessuna domanda scomoda sarebbe
stata posta loro; in certo qual modo i Templari rappresentavano la “legione
straniera” del Medioevo.
È poco credibile però che Bernardo di Clairvaux abbia approvato
realmente questo passaggio.
Il fatto che le regole fossero così morbide aveva un motivo pratico molto
chiaro: per portare a termine il loro compito i Templari avrebbero dovuto
conquistare molti nuovi aderenti, quindi non si andava troppo per il sottile
nella scelta in base all’idoneità caratteriale. Questa lacerazione tra
considerazioni pratiche e l’alta rivendicazione teorica dell’integrità dei
confratelli, deve però essere rimasta parecchio sullo stomaco dei fondatori
dell’Ordine. Mentre fino al Concilio i Templari rappresentavano una
piccola confraternita elitaria, composta da uomini profondamente religiosi,
poi, all’improvviso, si invitavano ad aderire all’associazione tutti i
malfattori dell’Occidente.
 

Questo dilemma si evidenzia anche nella differenza rivelatrice tra la
versione latina e quella francese del regolamento stesso.
La versione francese permette esplicitamente l’arruolamento attivo di
nuove reclute nel gruppo dei cavalieri scomunicati, mentre nel testo messo
a punto a Troyes è altrettanto esplicitamente vietato.
Soltanto il fatto che la versione latina del regolamento proibisca questo
tipo di reclutamento rappresenta una chiara indicazione che prima del
Concilio i nuovi cavalieri erano stati arruolati proprio in questo modo. Si
ricordi, infatti, che Ugo di Payens aveva iniziato la sua campagna
promozionale già nel 1127.
La sublime esigenza spirituale e la realtà utilitaristica dell’Ordine dei
Templari si trovano quindi apertamente sotto lo stesso cappello, quello del
cavaliere-monaco. Si giunse perciò a un’elegante soluzione: nella versione
latina si rinunciava ufficialmente a questo tipo di arruolamento, ma per
permetterla nella versione francese, utilizzando un minuscolo errore
ortografico.
Si deve riconoscere in ogni caso che il regolamento ufficiale non era
destinato certamente per uso interno, ma avrebbe dovuto piuttosto avere
influenza all’esterno.
Serviva come documento di fondazione e come programma, tramite il
quale, possibili aspiranti o donatori, potessero essere informati sui
Templari. L’approvazione del regolamento da parte di un Concilio
altamente rappresentativo, stigmatizzava la legittimità dell’Ordine e dei
suoi obiettivi e adempiva, inoltre, a un’importante funzione giuridica,
poiché solo con il riconoscimento da parte delle autorità ecclesiastiche la
Confraternita divenne ufficialmente un autentico Ordine, secondo il diritto
canonico.
Degna di menzione è una notevole lacuna nel regolamento: non si trova
infatti alcun riferimento sul compito originario dell’Ordine e cioè la
protezione delle strade dei pellegrini.
Non è molto singolare?
Dovremmo infatti attenderci che il regolamento dei Templari
cominciasse pressappoco così: «Scopo del nostro Ordine è… ». Potevano
delle persone di grande intelligenza come Ugo di Payens e Bernardo di
Clairvaux essersi scordati lo scopo primario della Fondazione,
stabilendone le regole? Appare davvero poco credibile. Di conseguenza
devono aver lasciato di proposito quella lacuna. Ma perché? Forse perché
gli uomini intorno a Ugo in realtà perseguivano uno scopo segreto ben
diverso?
 

Poiché l’intero Ordine non era in realtà che una facciata, sotto la cui
protezione i cavalieri volevano segretamente perseguire il loro vero
obiettivo: la ricerca del Santo Graal? È chiaro però che i sostenitori di
questa tesi non tengono in gran conto l’intelligenza dei Fratelli dell’Ordine.
Non sarebbe infatti stato piuttosto sciocco da parte dei fondatori di
un’organizzazione che volesse mimetizzarsi lasciare nello statuto una
lacuna così visibile, anziché dare all’Ordine uno scopo tanto innocente, e
che non avrebbe dato nell’occhio, come la protezione dei pellegrini?
L’interrogativo su come spiegare la lacuna nel regolamento dei Templari
rimane quindi aperto anche se, presumibilmente, i membri fondatori
vedevano nella protezione dei pellegrini solo una delle molteplici strade
per rendere onore a Dio e non volevano legarsi esclusivamente, per statuto,
a questa.
Secondo un’altra ipotesi si tenta di spiegare la lacuna del regolamento
con il fatto che i padri fondatori pianificavano già per il futuro e questa
considerazione potrebbe essere sensata, osservando gli avvenimenti storici
successivi.
Nel 1291 infatti, dopo la perdita definitiva della Terrasanta, le regole
non devono essere state riscritte per intero nonostante il compito di
proteggere i pellegrini verso questa meta fosse ormai divenuto obsoleto.
Luigi Charpentier suppone, del resto, che in aggiunta allo statuto
ufficiale dei Templari vi fossero alcuni articoli supplementari. Tuttavia
nessuno può fornire in proposito la benché minima prova, ma secondo
questo autore: «Sarebbe contro qualsiasi esperienza se un Ordine che
espletava i suoi molteplici compiti, militari, sociali e religiosi in modo così
conseguente, non necessitasse di forti precetti aggiuntivi, accanto alle fin
troppo semplici regole» (Charpentier, p. 60). Questo argomento non può
tuttavia convincere del tutto, poiché se l’Ordine avesse avuto bisogno di
paragrafi aggiuntivi per portare a termine i propri molteplici compiti,
avrebbe potuto semplicemente darseli. Perseguendo infatti i succitati
compiti in modo del tutto ufficiale, non sussiste alcun motivo per tenere
segrete le regole che si occupano del loro adempimento.
Da uno sguardo storico retrospettivo si può sostenere oggi che la
protezione dei pellegrini non sia stata fissata come primo obiettivo nello
statuto, poiché in realtà non rappresentava un desiderio primario dei
cavalieri.
Dal comportamento complessivo dell’Ordine, nei due secoli della sua
esistenza, risulta che i Templari combatterono prevalentemente nelle
grandi azioni militari per la difesa della Terrasanta e avevano poca o nulla
 

 
simpatia per il “lavoretto” secondario della difesa dei pellegrini.
 
 
 
Nonostante il Concilio di Troyes fosse in quel tempo solo uno dei tanti
(solo in Francia nel 1125 si tennero cinque riunioni simili) esso ebbe un
enorme significato per tutta l’Europa. In primo luogo, stabilì il
riconoscimento ufficiale di una combinazione (quella di monaco e
cavaliere) che realmente, solo pochi anni prima, sarebbe stata impensabile
e che stravolse la visione medievale del mondo che vedeva la società
divisa in tre parti: clero, nobiltà e contadini.
Mise inoltre in moto un processo intellettuale che portò Bernardo di
Clairvaux, una delle più importanti figure del Medioevo, a cambiare di
180° le sue opinioni sulla Guerra Santa e lo trasformò nel più importante
portavoce della Seconda Crociata, che, senza la sua incessante propaganda,
non avrebbe probabilmente avuto luogo.
Per ben due anni Ugo di Payens lasciò i suoi confratelli senza guida in
Palestina, dal 1127 al 1129, e in questo periodo essi dovettero forse
combattere più spesso di quanto non avrebbero gradito. Certamente rapina
e brigantaggio non furono esercitati solo dai Saraceni ma, nei loro
insediamenti, anche dai Cristiani e altrettanto certamente uccisero anche
dei Cristiani.
Nell’anno 1129 i Templari combatterono, nell’assedio di Damasco, come
autentici soldati, furono sconfitti e dovettero subire gravi perdite. Questa
disfatta scalfì profondamente la concezione che avevano di sé: come
poteva essere infatti che la benedizione di Dio non si posasse sul loro
giovane Ordine? Anche nelle gerarchie ecclesiastiche, nonostante lo
splendido riconoscimento ricevuto dai Templari a Troyes, non vi era
alcuna unità di opinione sul fatto che i cavalieri-monaci esercitassero una
professione davvero gradita a Dio. La lettera che un certo Ugo Peccator
(Ugo il peccatore) scrisse ai cavalieri rimasti a Gerusalemme tentò di
rimuovere i dubbi degli stessi Templari sulla loro missione.
Ugo Peccator è sicuramente uno pseudonimo anche se, fino a oggi, non
si sa, chi vi si nascondesse. Il primo sospetto fu naturalmente quello di
ritenerne Ugo di Payens l’autore, ma perché avrebbe dovuto scrivere sotto
pseudonimo al suo Ordine a cui avrebbe potuto rivolgersi più facilmente e
con tutta l’autorità della sua carica di Gran Maestro?
La lettera, da chiunque sia stata scritta, esponeva in ogni caso un quadro
 

 
chiaro dei dubbi che perduravano caparbiamente all’interno dell’Ordine e
che venivano ripetutamente espressi anche da rappresentanti delle
gerarchie ecclesiastiche.
La lettera, tuttavia, difendeva i Templari dai rimproveri che una vita
spesa combattendo fosse biasimevole, poiché la guerra allontana dalla
preghiera.
Quei rimproveri ingiustificati rappresentavano un perfido stratagemma
del male e i Templari avrebbero dovuto soffocare questi dubbi sulla loro
missione, poiché altro non erano se non segnali di vanagloria. I cavalieri
avrebbero dovuto seguire i compiti che Dio, tramite il Gran Maestro,
affidava loro, con totale umiltà, serietà e attenzione. In altre parole la
lettera raccomandava ai Templari di tener la bocca chiusa e di ubbidire.
Poiché Ugo di Payens sospettava che questa lettera da sola non potesse
bastare a giustificare la loro professione, si rivolse all’uomo più stimato
della cristianità di allora, Bernardo di Clairvaux, chiedendogli sostegno.
L’anno seguente all’approvazione delle regole dei Templari, in effetti,
Bernardo di Clairvaux pubblicò un trattato sui monaci-cavalieri,  Lode
della nuova milìzia, nel quale descriveva la lotta armata per la Chiesa
come una strada che avrebbe condotto sicuramente alla salvezza, tanto
quanto la vita monastica.
Il significato della lode, poiché per l’intera esistenza dell’Ordine non è da
sottovalutare, stava a significare l’inizio di un’alleanza inossidabile tra i
Templari, Bernardo di Clairvaux e il papato.
Bernardo lodò gli scopi dell’Ordine e gettò sul piatto della bilancia tutta
la sua influenza per convincere il papa della bontà della causa dei
Templari.
Grazie alla sua intercessione si instaurò infatti un rapporto simbiotico tra
il papato e l’Ordine e da allora i Cavalieri servirono il Sacro Soglio come
un’armata privata e ottennero privilegi straordinari da diversi papi.
 
 
 
Per ben tre volte Ugo di Payens si era rivolto a Bernardo di Clairvaux
perché dicesse qualche buona parola per il suo Ordine appena fondato e la
Lode della nuova milizia, pubblicata nel 1130 o nel 1131, fu la risposta del
dotto abate. Ugo dovette restare affascinato da ciò che lesse! Nella lode,
infatti, Bernardo elogia i Templari, senza limiti, con entusiasmo e con uno
stile raffinato, pieno di giochi di parole e di dotte allusioni.
All’inizio Bernardo condanna la cavalleria mondana del suo tempo,
 

definendola una “malitia” anziché una “militia”, cioè non una polizia bensì
una peste. Egli la descrive come rammollita, sconsiderata, frivola e
smaniosa di rapida fama: «Bardate i vostri cavalli con drappi di seta,
avvolgete le vostre armature con fusciacche colorate, ornate le briglie dei
vostri destrieri con oro e pietre preziose e in questa pompa cercate la morte
in una sfacciata follia o una sconcertante leggerezza».
Ben diversi apparivano invece i Templari, che «evitano il superfluo sia
per gli abiti che per il cibo… non sono mai pettinati, raramente lavati…
armatura e pelle sono cotte da polvere e sole». Tanto trascurati però non
apparivano negli incubi delle loro madri, ma dei loro nemici poiché «
…quando la guerra incombe, essi si preparano internamente con la loro
fede, ma esternamente con ferro e non con oro». Bernardo condanna
quindi non il mestiere di soldato, bensì solo il comportamento di quei
cavalieri che hanno dimenticato Dio. Nel suo testo egli adotta l’idea della
“guerra giusta”, nella quale un cristiano, in condizioni ben determinate,
aveva il permesso di alzare la spada.
Se un soldato infatti uccide un farabutto, egli non è da considerare «un
malfattore, bensì colui che uccide il male». Inoltre «chi ferisce in
combattimento un miscredente (cioè chi crede in altra religione) vendica in
tal modo Cristo contro chi gli reca male… e la morte che causa torna a
profitto di Cristo».
Qui sta la differenza decisiva tra il concetto della “guerra giusta” e di
quella Santa: le guerre giuste contro i Cristiani, si fanno, per lo più con una
buona giustificazione, per difendere il proprio paese. In una guerra giusta
uccidere resta peccato che, però, sarà in seguito confessato e perdonato.
Nella Guerra Santa invece uccidere non rappresenta più un peccato,
bensì un servizio a Dio.
Fondamentalmente Bernardo mette in guardia dall’imporre diversità di
pensiero con la forza: anche nei rapporti con gli Infedeli. La verità, così
come la propria convinzione, non si impongono con la forza e il Cristiano
deve convincere l’avversario con gli argomenti. Tuttavia egli autorizza la
Guerra Santa. Si potevano uccidere i pagani solo per impedire una grave
minaccia e oppressione nei confronti dei credenti.
Nessuna Guerra Santa avrebbe dunque potuto essere condotta con una
cavalleria laica che non riconoscesse alcun Dio e alcuna morale. No, nel
conflitto con i pagani i soldati di Dio avrebbero dovuto comportarsi in
modo esemplare e, con il loro comportamento collettivo, dimostrare una
profonda fede.
I soldati di Cristo si trovavano dunque impegnati in una duplice lotta:
 

contro il nemico e, contemporaneamente, contro gli spiriti maligni della
tentazione.
Ma il cavaliere credente non si sarebbe trovato solo in questa battaglia,
bensì avrebbe «imparato a contare non solo sulle proprie forze, ma
aspettarsi la vittoria dalla potenza delle legioni del Signore». Quindi
Bernardo fa un ulteriore passo avanti giustificando non solo l’uccisione di
pagani, ma persino glorificandola.
Poiché in battaglia la morte incombe sempre minacciosa, egli la
paragona all’incontro con Dio e la guerra, questa eventualità rozza e
brutale, acquisisce in tal modo una sorta di qualità mistica: come i monaci
si avvicinano a Dio con la preghiera, così la battaglia avrebbe
rappresentato il servizio di Dio del cavaliere.
Il cavaliere che uccide fa un’opera buona, il cavaliere che muore
raggiunge direttamente Dio, questo è il concetto fondamentale della
Guerra Santa e Bernardo lo esprime così: «Quando egli (il cavaliere)
muore, non soccombe realmente ma raggiunge la sua meta: la morte che
infligge reca vantaggio a Dio; quella subita, a lui stesso».
La cavalleria laica non avrebbe potuto invece sperare nella salvezza,
poiché per loro «non vi era litigio che non fosse provocato da stupido odio,
da boriosa smania di guadagno o di possesso. Se si perseguono simili
obiettivi, non si è sicuri della salvezza né uccidendo né morendo».
La seconda parte della Lode tenta di chiarire al lettore che la decisione
dei Templari non solo era giustificata ma che essi svolgevano un compito
particolare che nessuno altro avrebbe potuto portare a termine. Non era
possibile certamente porre, a difesa dei luoghi santi della cristianità e a
protezione dei pellegrini lungo il loro viaggio per Gerusalemme, cavalieri
laici che non possedessero fede, ideali e neppure una coscienza.
Bernardo passa poi a elencare i luoghi dei pellegrini che avrebbero
dovuto essere protetti dai Templari e questo capitolo si legge quasi come
un piano di viaggio.
I Templari facevano la guardia a luoghi come Betlemme, «da dove è
scaturito il pane del cielo», Nazareth, la montagna giordana del calvario,
dove «Cristo ci aveva purificato dei nostri peccati», anche se i Templari in
realtà proteggevano meno la Gerusalemme terrena, quanto quella celeste e
preservano non il paese reale, bensì il ricordo delle azioni del Redentore su
questa terra.
La lode si chiude con un appello diretto ai Templari a ben difendere
questi luoghi santi e ad affidarsi non alle loro forze, ma all’appoggio del
Signore poiché, infatti, l’uccisione dei pagani è gradita a Dio, Dio aiuta i
 

suoi: «la vittoria nella lotta non è legata alla grandezza delle armate ma
alla forza che viene dal cielo» e la vittoria con l’aiuto di Dio è dunque
certa.
Bernardo intendeva appassionare con le sue parole, ma ottenne l’effetto
contrario a quanto si era prefìsso, perché con la cieca fiducia in Dio spesso
i Templari si gettavano in azioni suicide e più volte impegnavano le loro
forze in modo sconsiderato e indebolendo decisamente la posizione dei
Cristiani in Palestina.
Alla fine della Lode, Bernardo affronta un noto problema, posto dal
regolamento dei Templari: come avrebbe dovuto l’Ordine trasformare i
suoi cavalieri, che spesso reclutava indiscriminatamente anche in mezzo a
cattive combriccole, in pecorelle fedeli?
In questo passaggio del testo, piuttosto debole, l’abate sostiene
semplicemente che l’illuminazione dei “cattivi ragazzi” debba avvenire
durante la traversata verso la Terrasanta.
Essi partivano dall’Europa come malfattori, ladri e rapinatori, senza
vergogna, di chiese e giungevano a Gerusalemme come i più fedeli
difensori della Terrasanta stessa. Contenuto e forma della Lode devono
comunque aver superato ogni aspettativa tra i Templari che ne fecero
l’insegna del loro Ordine e l’identificazione con lo scritto del futuro Santo
andò tanto avanti, che presto molti Templari furono convinti che Bernardo
stesso avesse fondato l’Ordine.
Solo l’anno prima egli aveva propugnato l’ideale cristiano antico della
non violenza, l’idea cioè che chi di spada ferisce di spada perisce, tuttavia
nella Lode pone preghiera e lotta contro i pagani l’una accanto all’altra,
ugualmente legittimate come due strade adatte per raggiungere la salvezza
dell’anima.
A che si deve questo mutamento d’opinione?
Anche autori seri (ad esempio, Demurger) parlano in rapporto a questo
cambiamento di pensiero, di una “evoluzione della sua posizione”.
Ma quale può essere stato il motivo per il mutamento di pensiero di
Bernardo?
Due avvenimenti significativi si verificarono in questo lasso di tempo:
nel 1129 Bernardo conobbe al Concilio di Troyes i Templari e nel 1130 si
arrivò a uno Scisma nella Chiesa cattolica, per cui sia Innocenzo ii sia
Anacleto ii rivendicarono per sé la dignità papale. Si può scegliere tra
parecchi tentativi di spiegazione a seconda dei gusti, anche se Bernardo
non fece mai alcuna esternazione in proposito, certo è che egli cambiò idea
e, con la disinvoltura dei politici moderni, passò sopra al suo cambiamento
 

 
di pensiero.
Secondo una prima ipotesi Bernardo scrisse la Lode per riconoscenza e
“legami familiari” essendo non solo il nipote di Andrea di Montbard, uno
dei membri fondatori dei Templari, ma anche debitore di un grande favore
al suo amico Ugo di Champagne che, nell’anno 1115, aveva lasciato la
terra ai Cistercensi sulla quale era stato costruito il castello di Clairvaux.
In base a una seconda ipotesi, invece, Bernardo incontrò al Concilio di
Troyes alcuni Templari e rimase tanto impressionato dalla forza della loro
fede e dalla loro dedizione che rimase letteralmente conquistato dalla
combinazione cavaliere-monaco. Per una terza ipotesi, Bernardo si rese
rapidamente conto di quanto avrebbero potuto diventare potenti i Templari
e decise di utilizzare questa loro forza per propri interessi. In effetti proprio
durante lo Scisma egli aveva bisogno di maggiori appoggi nella lotta per
sostenere il suo papa favorito, Innocenzo ii.
In ultima analisi, forse, tutti e tre le suddette ipotesi devono essere
confluite nelle sue riflessioni e il risultato fu che Bernardo dimostrò, con le
sue prediche successive per la Seconda Crociata, che egli perorava
realmente la Guerra Santa e che quindi non aveva composto la Lode solo
per pura riconoscenza.
Inoltre, per ciò che concerne la seconda ipotesi, i Templari comparsi al
Concilio erano sicuramente uomini profondamente credenti, membri della
prima ora e rappresentarono un grande esempio per l’intero Ordine.
Le considerazioni poi di politica concreta che Bernardo avrebbe messo
in moto, secondo la terza ipotesi, dovettero certamente giocare un ruolo
importante per le decisioni dell’uomo di potere di Clairvaux.
 
 
Chi può spiegare lo stretto legame fra Cistercensi e Templari? Fu
realmente per puro caso che sia i Cistercensi, sia i cavalieri-monaci
abbiano entrambi vissuto un’ascesa da stella cometa, dal nulla?
Queste domande hanno occupato a lungo gli uomini di cultura e tanto
per Charpentier, quanto per gli autori Lincoln/Baigent/Leigh, che si rifa a
Charpentier, la soluzione è a portata di mano: Templari e Cistercensi erano
legati nell’amministrazione di un grande segreto che era stato scoperto a
Gerusalemme.
Insieme perseguivano un piano, il cui scopo non avrebbe dovuto essere
conosciuto dagli esterni, che in ogni caso presupponeva un grande sforzo
 

organizzativo.
Luigi Charpentier racconta la seguente storia: il conte Ugo di
Champagne era rientrato nell’anno 1104 dalla Terrasanta e aveva preso
subito contatto con Stefano Harding, l’abate di Cìteaux, e da quel momento
in poi la vita nel castello in cui era stato fondato il movimento dei
Cistercensi era cambiata di colpo. I monaci dell’Abbazia, in precedenza
molto contemplativi, si erano improvvisamente immersi nello studio dei
testi sacri ebraici.
Nell’anno 1114 il conte Ugo si rimise in cammino per Gerusalemme, per
far ritorno a casa già l’anno successivo.
Per quale motivo intraprese un viaggio tanto faticoso per trascorrere solo
un così breve periodo a Gerusalemme? Andò forse a recuperare qualcosa
laggiù?
Qualcosa di tanto importante che non avrebbe potuto affidare a nessun
altro?
Forse il conte Ugo riportò un testo ebraico segreto? In ogni caso nel
1115 era già di ritorno, aveva preso di nuovo contatto con l’abate Harding
e regalato un appezzamento di terreno ai Cistercensi per la costruzione di
un convento e Bernardo, che aveva compiuto 25 anni, fu nominato abate di
questo nuovo convento, destinato a tener chiuso a chiave e proteggere il
testo segreto. Dieci anni più tardi il conte Ugo abbandonò la sua famiglia e
i suoi beni, per emigrare definitivamente in Terrasanta. Che cosa chiedeva
ai Templari?
Pensava forse di cercare, con altri otto cavalieri e con l’aiuto del testo
segreto, la cosa più sacra della cristianità: il sacro Graal, il mitico vaso in
cui era stato raccolto il sangue del Messia, inchiodato alla croce?
Charpentier avrebbe quindi indicato la protezione dei pellegrini, a cui i
cavalieri si erano dedicati, soltanto come pretesto: come avrebbero infatti
potuto mantenere sicure le strade della Terrasanta, solamente nove
(ridicoli) cavalieri?
Eppure non si può senz’altro liquidare queste speculazioni come
un’astrusa sciocchezza, poiché le date storiche e gli avvenimenti vengono
riportati da Charpentier e Lincoln/Baigent/Leigh in modo sostanzialmente
corretto, solo corredate da un’interpretazione del tutto personale.
Non esiste naturalmente dimostrazione delle loro tesi, ma esse (e proprio
questo rende il segreto un mito ben costruito) non possono essere
contestate in modo plausibile, semplicemente perché pochissimi
documenti di quel tempo sono giunti sino a noi.
Gli autori hanno certamente ragione partendo dal legame molto stretto
 

 
tra i tre personaggi centrali della fondazione dell’Ordine: Ugo di Payens, il
conte Ugo di Champagne, e Bernardo di Clairvaux, che non erano
solamente uniti da legami di sangue e reciproche dipendenze, ma un
semplice sguardo alla carta geografica della Francia mostra infatti anche la
loro vicinanza in termini di spazio.
Payens si trova a soli dieci chilometri da Troyes, sede del Consiglio e
sede tradizionale del conte di Champagne e Clairvaux si trova a circa
quaranta chilometri di distanza, in linea d’aria, dalla stessa Troyes.
Se si aggiunge a tutto ciò che, per quanto sia possibile averne una
conoscenza certa, anche tutti gli altri membri fondatori dell’Ordine
provenivano dal nord-est della Francia (anche se da diverse contee),
l’Ordine dei Templari appare all’inizio come un’impresa provinciale, quasi
familiare. Si forma un circolo di “cospiratori” che rappresentava un’unione
ideale per proteggere eventuali segreti.
 
 
 
Dopo il Concilio di Troyes questo carattere familiare andò rapidamente
perso e numerose reclute si unirono ai Templari da ogni contea. L’Ordine
si trasformò quindi da impresa “familiare” in un grande gruppo
internazionale. Con la bolla papale Omne datum optimum del 1139, un
papa si occupò per la prima volta dei Templari e della loro missione che,
del resto, approvava apertamente. Innocenzo ii, chiaramente sotto
l’influenza spirituale di Bernardo di Clairvaux, loda le virtù dei cavalieri
con parole che avrebbero potuto provenire direttamente dalla Lode: «Voi
avete abbandonato la strada facile che conduce alla morte, e scelto con
umiltà il duro cammino che conduce alla vita […] Dio stesso vi ha reso
difensori della Chiesa e oppositori dei nemici di Cristo». Tuttavia
Innocenzo ii non solo lodava i cavalieri, ma concedeva loro ulteriori diritti
in riconoscimento dei loro servizi, poiché egli garantiva innanzitutto
l’indipendenza dell’Ordine da qualsiasi autorità ecclesiastica, a eccezione
del papa. Soltanto a lui, infatti, i Templari avrebbero dovuto render conto.
Inoltre, i Templari non erano sottomessi ad alcuna autorità laica: nessuno,
secondo la Bolla, avrebbe potuto in alcun modo rivendicare il vassallaggio
dei confratelli. Innocenzo ii assicurava, di fatto, la totale autonomia
dell’Ordine che non sarebbe stato più sottoposto, d’ora in poi, né alla
giurisdizione ecclesiastica né a quella laica. In particolare, il papa
garantiva l’indipendenza dall’amministrazione ecclesiastica con alcuni
punti, ben specificati e separati:
 

–  l’Ordine ha le proprie chiese e luoghi di culto;
–  l’Ordine può scegliere liberamente i propri padri spirituali, senza che i
vescovi possano esercitare alcuna influenza. Questi cappellani non saranno
più sottoposti al loro vescovo, ma solamente al Gran Maestro dell’Ordine;
–  nessuno può pretendere dai Templari le decime; al contrario, con
l’esplicita approvazione del vescovo in carica, è perfino concesso ai
Templari di riscuotere le decime direttamente dalla popolazione.
Accanto a questi punti che stabilivano complessivamente la posizione
privilegiata all’interno della Chiesa e che, in un certo senso,
ne facevano una forza militare privata del soglio pontificio, il papa
garantiva ai Templari anche importanti privilegi di fronte ai sovrani laici e
più precisamente:
–  il papa garantisce personalmente per la sicurezza dei membri
dell’Ordine e dei loro beni. Tutte le ricchezze, che costituiscono il bottino
di guerra, appartengono automaticamente a loro e non devono dividerle
con alcun altro;
–  solo il Consiglio generale dei “Poveri Fratelli di Cristo” può cambiare
le regole. I Templari godevano quindi, a partire dal 1139, di una maggiore
indipendenza rispetto a prima quando, ad esempio, il patriarca di
Gerusalemme aveva cambiato arbitrariamente, dopo il ritorno da Troyes di
Ugo di Payens, alcune norme del regolamento dei Templari, naturalmente
con grande disappunto dei Fratelli;
–  come sede principale dei Templari, Innocenzo ii stabilisce la città di
Gerusalemme, intendendo in questo modo impedire che i membri
dell’Ordine che combattevano in Spagna e in Portogallo, si rendessero
indipendenti.
Comprensibilmente, principi e vescovi attaccarono questa Bolla poiché i
privilegi che in essa venivano attribuiti ai Templari, finivano per essere, in
gran parte, a loro spese. Molti potenti in seguito tentarono di aggirare
questi diritti acquisiti e i pontefici si videro costretti, l’uno dopo l’altro, a
riconfermarli, più di una volta.
Eugenio iii (1145-1153) ribadì esplicitamente nel 1145 il diritto dei
Templari a costruirsi le proprie chiese. Adriano iv (1154-1159) intimò
nuovamente ai suoi vescovi di non pretendere le decime dell’Ordine. Al
suo successore Alessandro iii non andò meglio: dovette a sua volta
intervenire in favore dei Templari e rafforzare la loro indipendenza dai
potenti laici e a concedere, inoltre, ai Templari di fare consacrare i propri
ecclesiastici da un vescovo di loro scelta. Innocenzo iii, a sua volta, (1198-
1216) andò addirittura oltre e proibì ai vescovi di scomunicare i singoli
 

 
 
Templari. Come è facile capire, esisteva, tra i papi e i “poveri cavalieri di
Cristo”, un legame particolarmente stretto, poiché il Soglio Pontificio
garantiva all’Ordine privilegi straordinari e completa indipendenza.
Nel xiv secolo, del resto, il re di Francia Filippo iv processò l’Ordine, fra
le altre cose, proprio perché voleva in questo modo colpire il papa.
 
 
 
 
Mentre i Templari rimasti a Gerusalemme dubitavano della legittimità
della loro missione nonostante il riconoscimento ufficiale del Concilio di
Troyes, la lettera di Ugo Peccator e soprattutto l’entusiastica Lode della
nuova milizia avrebbero dovuto tranquillizzarli, anche considerando che il
resto del mondo occidentale si dimostrava assolutamente entusiasta
dell’iniziativa dei Templari.
Già prima del Concilio di Troyes, l’Ordine aveva potuto contare su
 

donazioni e su un consistente aumento del numero dei propri membri e
anche nel suo successivo “viaggio promozionale”, Ugo di Payens aveva
ricevuto in dono terreni e denaro, mentre nuovi cavalieri – francesi, inglesi
e fiamminghi – si univano a lui, sempre più numerosi. Tutti desideravano
partire per l’Oriente con Ugo di Payens, tuttavia solo una parte di loro
aveva intenzione di entrare nell’Ordine definitivamente. Vi erano anche
altri inviati dei Templari che si spostavano in territori più piccoli, rispetto a
quelli cui sovraintendeva Ugo di Payens, ottenendo tuttavia lo stesso
grande successo.
Non appena possibile Ugo inviava i suoi cavalieri nelle varie regioni, per
procedere al reclutamento, anche perché parlavano il dialetto locale, ne
conoscevano la mentalità e, non ultimo, potevano contare su buoni contatti
personali.
Più o meno all’epoca del Concilio, l’Ordine si presentava, quindi, come
un insieme variopinto ed eterogeneo di combattenti, provenienti dai paesi
più diversi, che rappresentavano i piccoli possidenti di mezza Europa e
ricevevano qui una fattoria donata, là un borgo e così via, cioè un vero e
proprio incubo organizzativo!
Ugo di Payens tentò, nel periodo tra il Concilio di Troyes e l’autunno del
1129, di regolare, in certo qual modo, l’amministrazione dei fondi terrieri
in Occidente, prima di percorrere la valle del Rodano per imbarcarsi alla
volta della Terrasanta dalle coste francesi del mare Mediterraneo. Insieme
a lui viaggiava la sua variopinta forza militare che, superando ogni
disaccordo, si riuniva per l’adempimento del grande compito di difendere
la Terrasanta.
L’Ordine dei Templari rappresenta, forse, uno dei migliori simboli di
questa temporanea unità, poiché in tutta la storia della cristianità il
Tempio, per la prima volta, rappresenta una vera organizzazione
sovrannazionale, responsabile solo degli ideali Cristiani e non certo di
qualsivoglia principe o re e la realtà che la stragrande maggioranza dei
cavalieri provenisse dalla Francia, non modificava in alcun modo
l’orientamento fondamentalmente, sovrannazionale dell’Ordine.
Nel più breve tempo possibile dopo il Concilio, Ugo tentò di tornare in
Palestina, dove lo attendeva un grande lavoro. Già verso la fine dello
stesso anno, infatti, guidò un contingente dei suoi cavalieri in un attacco a
Damasco, mentre quali amministratori dei possedimenti in Occidente, nel
frattempo divenuti considerevoli, rimasero tre responsabili di fiducia.
Pagano di Montdidier amministrava, in qualità di Maestro di Francia e
Inghilterra, i possedimenti dell’Ordine in Gran Bretagna e nel nord della
 

Francia, Ugo Ribaud e Raimondo Bernard si occupavano invece
congiuntamente, dei beni nelle province mediterranee, cioè in Linguadoca
e nella Penisola Iberica. Ma come potevano tre soli uomini amministrare
da soli i vasti possedimenti dell’Ordine?
Luigi Charpentier sostiene che i tre rappresentavano, in realtà, solamente
il vertice dell’organizzazione. Secondo il suo pensiero, già da tempo
esisteva una vasta rete segreta di Templari che lavoravano di nascosto e
Ugo di Payens non avrebbe quindi creato alcuna nuova struttura
organizzativa, bensì attivato soltanto la rete segreta dell’Ordine, che già in
precedenza abbracciava tutta la Francia.
A dimostrazione della sua tesi, Charpentier porta le donazioni che i
Templari avevano ricevuto già negli anni antecedenti la fondazione
ufficiale, il che dimostrerebbe che, evidentemente, alcuni iniziati erano a
conoscenza dell’esistenza di un gruppo organizzato che non si mostrava
ancora ufficialmente.
Tutte le donazioni che giunsero all’Ordine prima del “viaggio
promozionale”, dimostrano agli occhi di Charpentier che in Europa
esisteva già una rete di Templari e che i più importanti capi laici ne erano
perfettamente informati.
Nonostante questa argomentazione suoni del tutto plausibile, non risulta
però per questo valida, innanzitutto perché l’organizzazione delle province
dell’Ordine non ebbe origine come per incanto in una notte, ma si sviluppò
e crebbe, come si può dimostrare, lentamente, passo dopo passo.
In secondo luogo i Templari esistevano al più tardi dal 1120, pur non
avendo ancora uno status  ufficiale e fino al 1127 la maggior parte
dell’Occidente non aveva in realtà ancora udito nulla dell’esistenza
dell’Ordine e non si trattava del risultato di un segreto ben mantenuto,
bensì solo della conseguenza della lenta diffusione delle notizie nel
Medioevo.
È il caso, per esempio, di una “inspiegabile” donazione avvenuta prima
del 1127 di cui non esiste una precisa verifica. Presumibilmente infatti la
contessa Teresa aveva donato all’Ordine un castello a Soure in Portogallo,
già nel 1126, ma come poteva essere a conoscenza dell’esistenza
dell’Ordine, si chiede Charpentier, già in quell’anno?
La soluzione dell’enigma sta nel fatto che la data della donazione risulta
falsa e che essa avvenne, in realtà, nel 1128 e proprio in quel periodo
Bernardo cominciò il suo “viaggio promozionale” nella Penisola Iberica.
Solo verso la fine dell’anno 1127, i Templari ricevettero i loro primi doni
– dimostrabili – dall’Europa e tutti provenivano da principi che certamente
 

conoscevano l’Ordine, come per esempio il conte Teobaldo di Champagne,
un nipote del conte Ugo di Champagne, che era entrato tra i Templari nel
1126. Fino al Concilio giunsero solo poche donazioni, ma quasi
immediatamente subito dopo l’Occidente si profuse in generosità.
Tuttavia nell’anno 1130, l’Ordine non possedeva «proprietà terriere di
estensione inimmaginabile» (Lincoln/Baigent/Leigh p. 58), bensì appena
una serie di piccoli poderi sparsi, da cui derivavano solo scarse rendite e il
compito amministrativo più importante per i capi dell’Ordine stava in
primo luogo nel concentrare le proprietà, poiché le fattorie erano tanto più
remunerative quanto più i campi erano collegati.
Gli amministratori dei Templari dovevano quindi tentare di formare,
attraverso lo scambio di terreni, grandi aziende agricole.
Già nell’anno 1128 i Templari scambiarono con un’abbazia dei
Cistercensi, dei poderi a Cerilly con altri a Coulours «più convenienti per
loro» (Charpentier, p. 66). Questo processo di economia aziendale, molto
sensata, quasi inevitabilmente suscitò il sospetto di alcuni autori. Louis
Charpentier ne fa uso per dimostrare la sua tesi, per cui in Francia
l’organizzazione dei Templari procedeva secondo un piano secolare; come
avrebbero altrimenti potuto sapere i rappresentanti dell’Ordine, già nel
1128, quali zone sarebbero state più convenienti per loro?
Come si può vedere da questo scambio di terreni, le donazioni non
recavano ai Templari solo gioia, ma anche un po’ di lavoro e talvolta
perfino grossi problemi. Alcuni terreni lasciati all’Ordine rappresentavano
regali di pura cortesia come, ad esempio, un maggese poco redditizio, ma
poteva capitare di peggio, perché spesso alcune elemosine si dimostravano
a doppio taglio, più utili a chi donava che a chi le riceveva in dono.
Probabilmente la contessa Teresa lasciò infatti all’Ordine il castello di
Soure in Portogallo, nel 1128, con la speranza che i Templari si lasciassero
coinvolgere nella difesa della Penisola Iberica contro i Musulmani.
Contemporaneamente al castello, la contessa donò infatti ai Templari
anche la foresta di Cera, che presentava soltanto un “piccolo difetto”: era
occupata dai Saraceni!
I Templari accettarono il dono, espugnarono la foresta, se ne
riappropriarono effettivamente ma si trovarono all’improvviso impegnati in
un confronto diretto con i Musulmani in Occidente, cosa che avrebbero
proprio voluto evitare.
Spinti da considerazioni analoghe a quelle della contessa Teresa,
parecchi altri signori, in Spagna e Portogallo, trasferirono proprietà
all’Ordine ed effettivamente si contano in totale 36 donazioni, solo tra il
 

 
1128 e il 1136, in Spagna e 6 in Portogallo.
I Templari ricevettero nel 1130, ad esempio, la fortezza di frontiera di
Granana per la difesa della cristianità, «corrispondendo allo scopo per cui
l’Ordine era stato fondato» e allo stesso modo Ugo Ribaud accettò dal
principe Urgel il castello di Barbara e ricevette dal re Alfonso i di Aragona
la fortezza di Calatrava, le cui mura erano state da poco violate.
I Templari accettarono tutti questi doni, nonostante intravedessero
chiaramente il calcolo politico dei nobili donatori, per rispettare l’impegno
di difendere la cristianità. Solo ad un’esca non abboccarono, nonostante
fosse più ghiotta di tutte le altre: l’eredità del Regno di Aragona.
 
 
 
Nell’anno 1131, il re Alfonso i di Aragona e Navarra stabilì le sue ultime
volontà, in cui nominava, quali eredi universali, i tre Ordini presenti in
Terrasanta: quello di San Giovanni, quello del Santo Sepolcro e quello dei
Templari.
Nella Spagna del nord-est il suo dominio comprendeva in totale quasi
58.000 chilometri quadrati, un territorio grande quanto una volta e mezza
la Svizzera e nel 1134, anno della sua morte, Alfonso convalidò il suo
testamento ma, nonostante Alfonso non avesse figli propri, queste
donazioni risultano difficili da spiegare per gli storici. Questo testamento
dimostra forse, come sostengono alcuni studiosi di storia, l’enorme
popolarità di cui godevano in Occidente gli Ordini combattenti? Oppure
Alfonso, che portava il soprannome di “combattente di tutte le battaglie”,
intendeva mettere nelle mani di combattenti veri, non disponibili a
compromessi per la buona causa, la difesa di importanti territori cristiani
della Spagna? In ogni caso i tre Ordini rifiutarono il generoso dono,
nonostante avrebbero gradito entrare in possesso di un proprio grande
stato.
Ancora oggi alcuni rimproverano ai Templari di non aver colto
l’occasione di realizzare l’utopia di uno stato proprio, amministrato con la
mano benevola dei monaci e difeso da quella ferma dei cavalieri.
Perché gli Ordini non accettarono il più grande regalo che fosse stato
loro mai offerto?
Presumibilmente guardandolo più da vicino, questo dono non piacque
loro, poiché la spesa per l’amministrazione e la difesa di un grande Regno
minacciato dai Mori, avrebbe superato di gran lunga le forze dell’Ordine,
allora ancora molto giovane.
 

 
Inoltre avrebbero forse dovuto lottare duramente per l’omologazione del
testamento contro gli altri aspiranti eredi. Infatti alcuni importanti principi
si mostrarono poco entusiasti di fronte al generoso gesto di Alfonso: suo
fratello Ramiro, ad esempio, si considerava personalmente molto più
adatto alla conduzione del Regno e il papa stesso, che in qualità di
feudatario del Regno di Aragona aveva ancora molto da dire, avrebbe visto
di buon occhio Alfonso vii,  re di Castiglia e Leon, sul trono di Aragona,
per guidare la “Reconquista”, cioè il tentativo cristiano di riconquistare la
Spagna e concentrarla in un’unica mano.
Accettare il testamento avrebbe dunque significato per i Templari,
dover concentrare tutte le proprie energie per la Penisola Iberica e la
“Reconquista” e ciò a tempo indeterminato, mentre individuavano la loro
missione più importante nella lotta contro i Musulmani, ma solo in
Terrasanta.
Entrambi gli altri Ordini cavallereschi, la pensavano in modo analogo
sull’argomento e di conseguenza non presero in considerazione seriamente
la possibilità di accettare l’eredità. Tuttavia non abdicarono così
semplicemente alle loro pretese sull’Aragona, ma mercanteggiarono per
quasi dieci anni con la nobiltà spagnola sul prezzo della loro rinuncia.
Il risultato di queste trattative, la Carta del 1143, è del tutto sorprendente
poiché il contratto, infatti, prevede chiaramente che Templari e Ordine di
San Giovanni si dividano gli oneri della “Reconquista” e per il loro
impegno avrebbero ottenuto un quinto dei territori riconquistati con il loro
aiuto.
Perché quindi le confraternite alla fine rinunciarono ai loro diritti sul
testamento, per poi lasciarsi coinvolgere volontariamente nella
“Reconquista”?
La risposta si trova nello sviluppo dell’Ordine dei Templari nei nove
anni successivi alla morte di Alfonso i.
Nell’anno 1134 l’Ordine non avrebbe avuto infatti i mezzi per procurarsi
sicuro rispetto in Oriente, mentre nel 1143 i Templari avevano a
disposizione una cavalleria forte e decisamente capace di combattere, oltre
a considerevoli possedimenti in Occidente. Abbastanza quindi per
combattere per la conquista di nuovi territori anche su due fronti diversi.
 
 
 
 
 

 
Qui di seguito presenteremo la precisa struttura dell’Ordine, come
appariva nel periodo di maggior splendore dei “Poveri Fratelli”.
In una scala ascendente sono presenti tutte le parti fondamentali
dell’intera organizzazione: i singoli membri della famiglia dei Templari, la
gerarchia interna dell’organizzazione e infine la grande struttura
dell’Ordine con i possedimenti in Europa, i castelli nella Penisola Iberica e
per ultima, naturalmente, la sede in Terrasanta.
 
 
Sarebbe totalmente falso, partendo dal presupposto che i Fratelli erano
nullatenenti, concludere che l’Ordine fosse una specie di collettivo
socialista composto da individui con uguali diritti. La confraternita dei
Templari era, al contrario, rigidamente suddivisa in stati, all’interno dei
quali non era possibile alcun cambiamento, quindi né avanzare, né
retrocedere! Un criterio tipico dell’ordinamento sociale medievale, nel
quale ad ogni persona era assegnata una funzione ben precisa a cui avrebbe
dovuto adempiere per tutta la vita, del resto anche la caratteristica
divisione della società in tre stati si ritrovava tra i Templari: chi
combatteva, chi pregava e chi lavorava. Ciò non elimina una certa ironia,
se ci si rammenta che proprio l’invenzione dei cavalieri-monaci aveva
fortemente scompaginato questa suddivisione, in quanto riuniva in una
sola persona lo stato di coloro che pregavano e quello di chi combatteva,
tuttavia è opportuno sottolineare che lo stato di chi combatteva, all’interno
dell’Ordine, era composto da cavalieri, che erano al tempo stesso dei
monaci.
Questo stesso stato era, in ogni caso, di nuovo diviso in due parti: i
cavalieri e gli scudieri (ove la definizione di “fratelli al servizio” o scudieri
non deve essere intesa in modo sbagliato), infatti come i cavalieri anch’essi
andavano in battaglia a cavallo. Si trattava tuttavia di cavalieri di seconda
classe, portavano carichi più pesanti, armi più leggere e, secondo il
regolamento, erano anche meno esercitati nell’uso delle armi e per questo
nella disposizione in battaglia non stavano in prima linea, bensì nella
seconda parte dello schieramento.
Solo la nascita e le proprietà di una nuova recluta decidevano se sarebbe
stato accettato come cavaliere e avrebbe potuto indossare il mantello
bianco, oppure se avrebbe dovuto accontentarsi del semplice mantello
marrone, o nero, dei Fratelli al servizio dei cavalieri veri e propri.
Normalmente solo coloro che appartenevano alla nobiltà avevano
 

ricevuto lezioni per l’uso delle armi e soltanto loro, secondo il
regolamento, potevano portare al loro ingresso nell’Ordine una dote
sufficiente per essere accettati come cavalieri (in ogni caso
l’equipaggiamento completo di un combattente a cavallo comprendeva
almeno tre cavalli!).
Nonostante, secondo il regolamento, i confratelli non possedessero
proprietà personali, tuttavia la ricchezza di famiglia risultava decisiva per
la loro posizione nella gerarchia dell’Ordine: chi non avesse portato
almeno tre cavalli, in alcun modo avrebbe potuto diventare un cavaliere
vero e proprio, se non dimostrandosi un eccellente combattente.
Solo pochissime reclute potevano dunque portare la dote necessaria, di
conseguenza per ciascun cavaliere armato completamente vi erano
all’incirca dieci Fratelli scudieri. Nell’insieme, in Terrasanta erano di
stanza mediamente circa 300 Templari, solo raramente 500, mentre il
numero dei cavalieri di seconda classe e dei Fratelli servitori superò in
rarissime occasioni le 600 unità.
Le poche centinaia di cavalieri si sentivano quindi, a ragione, un’elite e
svilupparono ben presto una spiccata presunzione, legata al loro stato, e
trattavano spesso il resto del mondo con sgradevole arroganza. Come
conseguenza, ben presto tra la gente comune si mescolarono l’ammirazione
per gli atti di coraggio e le sontuose armature dei Templari, ma anche una
forte rabbia per la loro superbia e il loro atteggiamento arrogante.
Un famoso sigillo dell’Ordine mostra due Templari che si dividono un
cavallo, ma questa rappresentazione è puramente allegorica e sta a
simboleggiare la povertà e la fratellanza tra i confratelli. In nessun caso
infatti si può credere che i Templari andassero realmente in battaglia così,
perché già sotto il peso di un uomo con la corazza il cavallo si stancava
tanto rapidamente che era necessario avere sempre un rimpiazzo a
disposizione.
Molti uomini desiderosi di avventura si sentivano magicamente attratti
dall’immagine grandiosa dei Templari, ma indietreggiarono di fronte al
voto monacale e al dover trascorrere il resto della loro vita in povertà,
castità e umiltà.
Per costoro vi era, secondo il regolamento, la possibilità di impegnarsi
come Fratelli, anche soltanto temporaneamente. Solo in tal modo molti si
assoggettavano a compiere tutti i doveri religiosi e militari dei membri a
tempo pieno.
Vi era poi una cavalleria leggera, composta da combattenti di
professione impiegati dall’Ordine per completare e dar man forte alle
 

proprie forze e che ricevevano per questo il normale “soldo” ed erano
quindi sottoposti alla disciplina militare dell’Ordine ma non prendevano
parte alla vita religiosa. Portavano questo nome poiché combattevano alla
maniera dei turchi, erano cioè armati con arco e frecce e cavalcavano con
armature leggere, il che permetteva loro di colpire molto rapidamente e da
maggiore distanza.
Nella posizione di coloro che avevano il compito di pregare, i Templari,
nella loro organizzazione, potevano contare solo sui cappellani, quindi sui
pochi i membri che pregavano esclusivamente e non facevano mai
personalmente uso delle armi.
I cappellani erano i preti dell’Ordine, dicevano messa e confessavano. La
Bolla di Innocenzo il del 1139, precedentemente citata, garantiva ai
Templari di poter scegliere liberamente i loro cappellani e che questi
fossero sottoposti esclusivamente all’autorità papale.
Mentre i due stati di coloro che combattevano e di coloro che pregavano
godevano della massima considerazione nell’Ordine, alla gran parte dei
confratelli lavoratori non rimaneva che una vita molto faticosa, tipica nel
Medioevo.
I contadini salariati, di corvée obbligatoria, e i servi della gleba
compivano i molteplici lavori che erano necessari alla conduzione dei
feudi.
La posizione giuridica dei confratelli lavoratori dipendeva poi dagli usi
della rispettiva provincia. In quella della Normandia, ad esempio, gli
uomini erano liberi mentre in Linguadoca, dove la servitù della gleba
giocava ancora un ruolo importante, non lo erano. I lavoratori salariati
(contadini, manovali, servi) erano stipendiati dall’Ordine per la durata del
loro impiego e non erano tenuti a fare alcun voto, come servi della gleba.
Se si dovevano affrontare compiti più impegnativi come, ad esempio, la
costruzione di un nuovo edificio o mettere al riparo il raccolto, il feudo
impiegava prevalentemente i contadini dei dintorni, a corvée obbligatoria,
in aggiunta ai propri confratelli lavoratori, poiché questi, in base ai loro
doveri feudali, ogni anno erano obbligati a lavorare per il feudo un certo
numero di giorni.
I Templari ebbero perfino schiavi! In Terrasanta i prigionieri Saraceni
svolsero una parte importante del lavoro. Questo fatto, nell’anno 1237,
portò addirittura a una spiacevole disputa tra il papa e il Gran Maestro.
L’Ordine infatti si rifiutò di battezzare gli schiavi che lo chiedevano per il
semplice motivo che i Cristiani non avrebbero potuto essere tenuti in
schiavitù e quindi i Templari avrebbero dovuto lasciare liberi i Musulmani
 

 
battezzati.
Questa condotta è certo moralmente dubbia, non è accettabile infatti che
dei monaci vietino, per avidità, l’adesione al cristianesimo a infedeli
convertiti; tuttavia l’Ordine la ebbe vinta contro il papa.
Per coloro che desideravano unirsi spontaneamente all’Ordine, senza
però entrarvi effettivamente, vi erano due possibilità abbastanza curiose:
essi potevano donare se stessi all’Ordine (per lo più con una somma di
denaro), in ogni caso non ne divenivano automaticamente membri, ma si
assicuravano soltanto il diritto di fare il voto non appena lo avessero
voluto.
La seconda possibilità prevedeva l’ingresso nell’Ordine in qualità di
Confratelli. I Confratelli – in contraddizione con il loro nome non
desideravano affatto entrare nell’Ordine a tutti gli effetti, erano piuttosto
membri di un “circolò di amici” che appoggiavano i Templari e che
potevano godere, di riflesso, di un po’ del loro splendore.
 
 
 
Le prossime pagine sono dedicate ad individuare le caratteristiche di chi
e a quali condizioni potesse entrare nell’Ordine, quale membro effettivo.
Del dilemma fondamentale si è già parlato: da una parte era necessario che
rispondessero alla straordinaria richiesta di alta moralità della
confraternita, d’altro canto non si poteva essere troppo difficili nella scelta
dei nuovi ingressi, poiché qualsiasi uomo disponibile era necessario.
I Templari superarono questa difficoltà, rendendo relativamente facile
l’ingresso temporaneo, pretendendo però una condotta irreprensibile
durante un periodo di prova.
Dopo l’accettazione definitiva provvedeva la rigida disciplina
dell’Ordine a far sì che nessuno facesse di testa propria.
Per gravi trasgressioni al regolamento, un cavaliere avrebbe anche
potuto infatti essere espulso dall’Ordine.
Su come avvenisse l’accettazione nella comunità è riportato in numerosi
documenti dell’Ordine, dalla prima versione del regolamento dei Templari,
fino ad un testo che è del xiv secolo, quindi di pochi anni prima del
processo contro i Templari. Proprio in questo processo, un interrogativo
centrale sarebbe stato appunto su come si svolgesse il rituale di
accettazione nell’Ordine.
Come già chiarito, il regolamento si rivolgeva a tutti quei cavalieri di
qualsiasi estrazione che si fossero pentiti della loro vita peccaminosa e
 

volessero diventare i prescelti da Dio.
Di fatto l’Ordine, almeno nei primi tempi, reclutò volentieri cavalieri
scomunicati che però, prima della loro adesione, dovevano aver ricevuto
l’assoluzione da parte di un vescovo.
Circa all’inizio del xiii secolo, i Templari, però, inasprirono i criteri di
accettazione e un aspirante non avrebbe dovuto essere solamente un
cavaliere, ma anche il figlio legittimo di un cavaliere.
In Terrasanta venivano presi in considerazione soprattutto uomini che,
dopo il completamento del loro impegno di crociati, sentivano ancora la
necessità di servire Dio e dedicare tutta la loro vita alla difesa del Santo
Sepolcro e l’aspirante doveva innanzitutto dimostrare di essere
consapevole di ciò che l’aspettava.
«Prima che egli entri durevolmente nella compagnia degli altri Fratelli,
devono essergli lette ad alta voce le regole. Se egli vuole obbedire
diligentemente e al Maestro e ai confratelli è gradito dargli il benvenuto,
allora egli manifesta il suo desiderio ai confratelli riuniti in Consiglio».
Il regolamento proibiva espressamente di accogliere bambini, anche se
offerti dagli stessi genitori come “doni” o se avessero bussato
personalmente alla porta della casa dei Templari.
Solo uomini sopra i diciotto anni potevano entrare nell’Ordine, anche se
in numerose regioni della Francia i giovani di quattordici anni erano già
considerati maggiorenni. All’inizio ogni nuova recluta era, dopo la sua
adesione, solo un fratello in prova. La durata del noviziato dipendeva,
secondo la versione latina del regolamento, esclusivamente da «quanto
onesta fosse stata la sua vita prima del suo ingresso».
Nel regolamento francese, più dettagliato, non compare, però, questa
frase, probabilmente per non allontanare, in questo primo periodo,
cavalieri dal passato non proprio lodevole.
In merito alla domanda di adesione di una recluta stava sempre al
Consiglio decidere, con un’eccezione: nel caso in cui il Maestro
incontrasse un moribondo, il cui ultimo desiderio consistesse nell’essere
accettato nell’Ordine, egli avrebbe potuto soddisfarlo.
Se però questo nuovo fratello, contro ogni aspettativa, fosse guarito,
sarebbe stato tenuto a rinnovare il suo voto davanti al Consiglio.
La cerimonia di accettazione stessa era stabilita in modo più preciso da
numerose aggiunte al regolamento dei Templari.
Solo raramente i singoli Templari, in quanto persone, hanno lasciato una
traccia nella storia, e gli atti del processo contro l’Ordine nel xiv secolo ci
forniscono chiarimenti sull’esperienza personale di alcuni cavalieri al loro
 

ingresso nell’Ordine.
Gerardo di Caux testimoniò, in occasione del suo interrogatorio
nell’anno 1311, di come si fosse svolto il procedimento di accettazione a
cui si era dovuto sottoporre nel 1298.
Dopo la Messa mattutina nella sede dell’Ordine, il Maestro provinciale
lo condusse, insieme ad altri due candidati, in una piccola stanza, accanto
alla cappella. Qui due Fratelli dell’Ordine si avvicinarono e gli chiesero:
«Desiderate entrare nella comunità dell’Ordine dei Templari e volete
prender parte alla sua opera laica e spirituale?». Gerardo rispose
affermativamente e uno dei Fratelli proseguì: «Voi aspirate alla
grandiosità. Del nostro Ordine vedete solo lo splendore esterno, voi vedete
quanto bene mangiamo e beviamo, voi vedete i nostri begli abiti e credete
che vi aspetti una vita confortevole insieme a noi. Questo perché non
conoscete le regole severe che valgono per l’Ordine. È un grande passo
quello che progettate: voi, che siete stati i padroni di voi stessi, diventate i
servitori di un altro, poiché solo raramente potrete fare ciò che desiderate.
Desiderate dimorare in Occidente e vi si manda in Terrasanta, volete
andare ad Akkon e vi si spedisce a Tripoli (… ). Se volete dormire, noi
ordiniamo di vegliare, e qualche volta se volete rimanere svegli, vi
mandiamo nel vostro letto, perché possiate riposare». Tutto ciò avrebbero
dovuto supportare i Fratelli «per il loro onore, la salvezza e il benessere
dell’anima». I candidati confermarono di esser pronti a sopportare tutto ciò.
Il fratello, poi, controllò se avessero adempiuto alle condizioni formali
per l’accettazione, perché solo se il candidato non era fidanzato, sposato,
indebitato, scomunicato o membro di un altro ordine, poteva entrare a far
parte dei Templari.
Da quel momento in avanti ogni recluta avrebbe dovuto dimostrare
capacità fisica e giurare di essere d’accordo con la Chiesa cattolica e di non
appartenere ad alcuna religione eretica.
In seguito gli aspiranti ebbero a disposizione un breve periodo di
riflessione, al termine del quale furono condotti davanti al Maestro, si
inginocchiarono davanti a lui e pronunciarono la formula: «Signore, siamo
venuti davanti a Voi e ai Fratelli, che sono con Voi, per chiedere la nostra
ammissione nella comunità dell’Ordine».
Quindi il Maestro invitò i tre a confermare ancora una volta le risposte
appena date e a prestare giuramento su un “certo libro”: «Voi dovete
giurare a Dio e alla Vergine Maria che ubbidirete sempre al Maestro del
Tempio, che rispetterete la castità e gli usi e costumi dell’Ordine, che
sarete nullatenenti e avrete solo ciò che vi darà il vostro superiore, che
 

 
farete tutto il possibile per preservare ciò che è stato conquistato nel regno
di Gerusalemme, che non vi troverete mai dove si uccide illegalmente un
cristiano, lo si rapini e lo si depredi dell’eredità. Se vi vengono affidati beni
del Tempio, giurate di vegliare attentamente su di essi. Promettete inoltre
che mai e in nessuna circostanza abbandonerete l’Ordine senza la
benedizione dei vostri superiori».
Con il completamento del giuramento l’accettazione nell’Ordine era
conclusa e il Maestro annunciò: «Noi accettiamo voi, i vostri padri, le
vostre madri, due o tre amici di cui desiderate la partecipazione all’opera
spirituale dell’Ordine, fino alla fine dei vostri giorni». In seguito il Maestro
fece rialzare i tre nuovi Fratelli e li baciò sulla bocca. Anche il cappellano
e i testimoni presenti diedero loro questo bacio, che simboleggiava
l’accettazione nella comunità.
Poi il Maestro prese da parte i tre, enunciò loro le più importanti regole
quotidiane e li informò su quali mancanze avrebbero avuto come
conseguenza l’espulsione dall’Ordine.
Infine congedò i tre cavalieri con le seguenti parole: «Andate, Dio vi
renderà migliori». Fino alla singolare formulazione con il giuramento su
un “certo libro”, questa cerimonia non dà l’impressione di essere in alcun
modo misteriosa e si pone l’interrogativo sul perché siano potute nascere
tante speculazioni sul rituale di accettazione nell’Ordine. (Ulteriori notizie
nella parte 4a  ii).
Dal punto di vista odierno il bacio del Maestro sulla bocca delle nuove
reclute appare un po’ sorprendente, tuttavia è preso, come parecchi altri
elementi della cerimonia di accettazione, dal rituale del giuramento
feudale, nel quale rappresenta un importante simbolo di pace.
Nella dichiarazione di Gerardo di Caux appare sorprendente qualcosa di
ben diverso: come già menzionato, il regolamento stabilisce espressamente
che il Gran Maestro non avrebbe potuto nominare nuovi Fratelli senza il
Consiglio. Gerardo però fece il suo giuramento solo davanti al Maestro e
ad alcuni testimoni e non davanti al Consiglio riunito, in chiara
trasgressione alle regole.
 
 
 
Come per il cerimoniale di accettazione, è oggi possibile ricostruire bene
lo scorrere della vita quotidiana nelle case dei Templari, poiché
disponiamo del regolamento completo dell’Ordine, desunto da quattro libri.
Per prima c’è la versione latina del regolamento dei Templari, poi la
 

stesura francese, ulteriormente elaborata in modo significativo, che fu di
nuovo completata nel corso del tempo (all’incirca dal 1160 al 1170), con
parecchi articoli aggiuntivi, denominati Retrais.
Il Livre d’Egards, infine, rappresentava una sorta di commento ai testi
delle leggi, in cui furono radunati casi del passato e le relative sentenze dei
Maestri.
Da questi quattro libri veniamo quindi a sapere quali fossero le regole, a
quali di queste i Fratelli contravvenissero più spesso e in che modo
dovessero essere punite tali trasgressioni. Nell’insieme essi delineano un
quadro variopinto e molto preciso della vita quotidiana dei Fratelli.
Tutte le citazioni dei prossimi capitoli provengono da uno di questi
quattro testi, a meno che non ci siano diverse indicazioni.
La vita quotidiana dei Templari era suddivisa secondo le ore canoniche,
cominciava con la messa del mattino (Matutin) e terminava la sera, dopo il
Vespro, con il “Non” e il “Complet”, altre funzioni religiose.
Anche tra una funzione religiosa e l’altra della giornata, ogni giorno
scorreva su binari ben precisi. Così i cavalieri, dopo il Matutin  dovevano
recarsi subito alle scuderie e distribuire con giustizia le disposizioni ai
servitori, cioè «non con uno sgarbato tono di comando, ma cortesemente».
Poi potevano nuovamente coricarsi e, dopo un Padrenostro, continuare a
dormire. Quando venivano suonate le campane, alla prima ora canonica, i
confratelli si alzavano, si vestivano in fretta e si dirigevano alla cappella
per la seconda messa della giornata.
Quale sorprendente importanza avessero preghiere e messe nel
quotidiano dei confratelli dell’Ordine lo chiarisce già la prima frase del
regolamento latino dei Templari: «…fate attenzione di ascoltare il Matutin
e tutte le altre Messe, sempre come prescrivono le regole canoniche e
secondo la consuetudine dei Maestri nella Città Santa di Gerusalemme».
Questo precetto non serve solo a rivolgere a Dio i pensieri dei cavalieri,
ma ha anche un motivo pratico: «Alla fine della Messa nessuno deve aver
paura di andare in battaglia, poiché egli è pronto per ricevere la corona del
martire».
Il regolamento ripete in modo martellante che la religione deve avere
l’assoluta priorità nella vita dei Templari: «Il confratello orienta tutto il suo
zelo a servire Dio». A questa vita timorata di Dio appartengono
naturalmente messe e preghiere, che tutti i Templari devono perseguire
poiché «se noi amiamo Dio, dobbiamo ascoltare con grande gioia le parole
sante e comprendere».
In considerazione delle particolari condizioni nelle quali i cavalieri-
 

monaci vivevano in Oriente, il regolamento concede alcune eccezioni. Per
un motivo importante, un confratello avrebbe potuto anche non ascoltare la
messa per intero «cosa che certamente potrà capitare spesso», ma avrebbe
dovuto recitare tredici Padrenostro per il Matutin, sette per una delle altre
funzioni e nove per il Vespro.
Se possibile, i Fratelli avrebbero dovuto recitare le preghiere sostitutive
tutti insieme, per ben due motivi, che però non vengono citati;
probabilmente perché l’avvenimento mantenesse un tono in qualche modo
comunitario, anche quando i cavalieri non si trovavano in una casa dei
Templari o in un diverso convento. Inoltre il vincolo del gruppo impediva
che i singoli cavalieri si angustiassero per le preghiere che dovevano
recitare.
Il regolamento esortava i Fratelli a onorare Dio con tutto il loro
comportamento, a curare la cappella e a comportarsi in modo dignitoso
quando vi si trovavano all’interno.
Ugualmente non avrebbero dovuto presentarsi alle funzioni religiose
vestiti in modo sciatto o affrettato, bensì avvolti nel loro mantello fermato
al collo con un fermaglio.
Soprattutto per la funzione del mattino non era semplice rispettare
questa regola per l’abbigliamento, poiché in estate la campana chiamava
per il Matutin alle due del mattino, in piena notte, e d’inverno alle quattro.
Sotto il mantello ben allacciato, del resto, il cavaliere poteva tenere la
sua veste da notte, indossare solo calze e scarpe, cosa che, visto il freddo
che vi era a quei tempi, non rappresentava certo un sacrificio.
Ad ognuna delle ore canoniche egli doveva recitare da tredici a diciotto
Padrenostro, di cui una parte dedicata alla Vergine Maria, e inoltre
dovevano essere recitati in piedi, mentre le preghiere dedicate al Santo del
giorno potevano essere recitate da seduti.
In ogni caso ogni fratello iniziava e finiva la giornata con preghiere alla
Vergine, «poiché ella è stata l’inizio della nostra religione e in essa deve
scorrere la vita di noi tutti, così vuole Dio».
Nonostante preghiere e servizi religiosi fossero una parte fondamentale
della vita quotidiana dei confratelli, il regolamento metteva in guardia
espressamente dall’esagerare nello zelo religioso, poiché un eccesso di
privazioni avrebbe potuto indebolire le forze per il combattimento.
Viene poi stabilito minuziosamente quando i Fratelli dovevano stare in
piedi durante la Messa e cioè ai salmi di apertura, al Gloria e al Te Deum.
 
 3 pasti
 

 
Di grande importanza pratica è sicuramente l’esortazione ad una
maggiore ascesi nell’alimentazione. Il regolamento consigliava ai cavalieri
di rimanere a tavola quanto ritenevano ragionevole al fine di mantenere
intatta la forza per combattere. Nella pratica, il pericolo di un’eccessiva
spiritualità non sembrava essere particolarmente grande: infatti tra i
francesi la festa delle libagioni dei Fratelli era divenuto un modo di dire:
“bere come un Templare” significava superare di molto i limiti.
Certamente questo quadro negativo è in relazione con le storie
raccapriccianti che erano state diffuse sull’Ordine in Francia, anche se un
particolare nel regolamento sottolinea quanto importante fosse il vino per i
cavalieri-monaci: i Fratelli mangiavano da una stessa ciotola, in due, ma
ognuno aveva il proprio boccale che conteneva una quantità ben precisa:
con il vino cessa quindi la condivisione.
Il mangiare insieme da una scodella stava a simboleggiare l’unione,
l’umiltà dei poveri soldati di Cristo, ma ben presto, in realtà, ogni
Templare avrebbe avuto a disposizione un proprio piatto, semplicemente
perché era molto più comodo.
Secondo il regolamento, le stoviglie di un cavaliere erano composte da
una ciotola di corno, un cucchiaio (la forchetta non era ancora stata
inventata) e due boccali, di cui uno per l’uso quotidiano e l’altro, decorato,
per le occasioni solenni.
Tutti i pasti, dopo una preghiera di ringraziamento e un Padre-nostro,
dovevano essere consumati insieme; tuttavia questo dimostra che l’Ordine
era un tipico figlio del suo tempo: il regolamento prevedeva che le tre
classi dell’Ordine (cavalieri, Fratelli serventi e normali lavoratori)
dovessero sempre sedere a tavola insieme, ma i Templari usano mangiare
divisi almeno in due turni e, in sedi più grandi, in tre.
Non appena suonava la campana, tutti i Fratelli appartenenti a quel turno
si recavano nella sala da pranzo.
A meno che non stessero facendo un lavoro che non poteva essere
rinviato, come cuocere il pane o forgiare il ferro.
Un pasto dei cavalieri avveniva all’incirca così: il refettorio era pieno di
lunghe panche e tavoli, in fondo alla parte anteriore del locale troneggiava
il comandante della sede, nel suo posto d’onore, spesso sopraelevato.
I confratelli più anziani si sedevano con le spalle al muro e i più giovani
di fronte a loro.
Dopo che il cappellano aveva impartito una benedizione, i Fratelli
recitavano un Padrenostro e potevano quindi sedersi a tavola.
 

 
Durante il pasto regnava il silenzio assoluto: solo un confratello leggeva
i testi delle Sacre Scritture. Tra le lunghe file di cavalieri vestiti di bianco
passavano i servitori che portavano cibi o bevande, carni e verdure poste in
grandi ciotole.
Da bere c’era solamente acqua e, soltanto dopo l’assenso del
comandante, vino più o meno allungato.
Tre volte alla settimana c’era carne (alla domenica anche due porzioni)
ma solo per i cavalieri.
Finché il comandante non aveva ufficialmente terminato il pasto e si
alzava dal suo posto, nessuno degli altri Fratelli aveva il permesso di
alzarsi.
Erano tollerate eccezioni in soli due casi: in primo luogo, se accadeva
qualcosa che necessitava una reazione immediata, come, ad esempio, un
attacco nemico, mentre il secondo motivo di giustificazione per alzarsi
anzitempo era l’improvvisa fuoriuscita di sangue da naso.
Sembra abbastanza sorprendente che uomini duri come i Templari
fossero apparentemente afflitti tanto spesso dal sangue da naso, tanto che il
regolamento prevedeva espressamente questo caso e noi oggi, però, non
siamo in grado di risalire alla causa di questo singolare disagio: se il clima
inusuale, un’alimentazione scorretta o qualche cosa di diverso.
Il pasto principale della giornata era consumato dai cavalieri a
mezzogiorno, la cena era meno importante, infatti quanto e se mangiare la
sera era legato solo al giudizio del Maestro.
Il regolamento condannava ghiottonerie e cucina raffinata che non era
certamente mai offerta ai Templari.
Del tutto in sintonia con gli ideali cistercensi, i Fratelli dell’Ordine non
dovevano considerare i propri pasti come godimento, ma come necessità di
mantenimento del corpo e della forza per combattere, almeno in teoria.
In pratica i Templari si nutrivano in modo abbastanza robusto, per lo più
vi erano due, se non addirittura tre portate diverse, a scelta, e la quantità di
cibo portato in tavola doveva essere piuttosto abbondante e non solo
perché ne rimanesse a sufficienza per i mendicanti che ricevevano gli
avanzi di ogni pasto.
Alla fine dei pasti i cavalieri ringraziavano e in chiusura del pranzo
notturno recitavano il Complet, poi nel convento regnava il silenzio.
 
 
 
 
 

 
 
Il vestiario era strettamente militare, per garantire che i Templari fossero
tutti vestiti allo stesso modo e dimostrassero unità sia dentro che fuori,
beninteso sempre nell’ambito dei rispettivi ranghi.
I cavalieri portavano lunghi mantelli bianchi, gli scudieri marroni o neri,
mentre comune a tutti i Fratelli era la tonaca bianca sotto il mantello.
Il colore bianco dell’abito stava a simboleggiare la castità, il solido
coraggio e la salute fisica dei Templari. Innanzitutto l’abbigliamento non
doveva ostentare, secondo il regolamento, alcun lusso o superbia.
Le pellicce erano infatti permesse, ma solo pellicce di pecora: i Fratelli
potevano quindi proteggersi dal freddo ma non far sfoggio di pelli
pregiate.
Ci si può stupire del fatto che un cavaliere possa aver adoperato una
pelliccia in Terrasanta, ma non si deve dimenticare che il regolamento dei
Templari valeva naturalmente anche per le sedi situate in Occidente.
Per l’abbigliamento il regolamento permetteva soltanto l’indispensabile:
ogni fratello poteva possedere solo due camicie, due pantaloni e due paia
di scarpe, inoltre due mantelli, una leggera tonaca per l’estate e una
imbottita per l’inverno.
Ovunque ritroviamo in primo piano l’adeguatezza e l’omogeneità
dell’abbigliamento. Ogni Templare doveva essere riconosciuto come tale
di primo acchito e rappresentare degnamente l’Ordine, ma ogni lusso, ogni
ornamento alla moda, come scarpe a punta, drappi o nastri lavorati, erano
severamente proibiti.
Naturalmente la stessa cosa vale anche per le armature militari.
L’abbigliamento per la battaglia è descritto minuziosamente: quando i
cavalieri dell’Ordine dei Templari andavano in battaglia portavano l’abito
d’ordinanza, una camicia in maglia di ferro e una cintura di cuoio.
Il regolamento elenca anche il resto dell’equipaggiamento dei cavalieri,
pezzo per pezzo, dalle armi, alla corazza, alla gualdrappa, dall’amaca, al
paiolo con il quale il cavaliere può prepararsi i pasti in viaggio.
Il regolamento descrive perfino l’aspetto del letto: consisteva in un sacco
di paglia, un drappo di lino, una coperta e un copriletto sul cui colore il
fratello aveva la scelta tra nero, bianco o a righe. Come per il mangiare e la
preghiera, anche per il dormire i Fratelli non dovevano eccedere in
rinunce: l’articolo 20 del regolamento garantiva il diritto a un lenzuolo
morbido, ma non appena si alzava dal suo giaciglio era finita con le
comodità.
 
 

 
 
Persino la normale vita quotidiana al convento era permeata di severità
militare.
Nessuno poteva «lavarsi, curarsi, prendere medicine, andare in città o
uscire a cavallo» senza permesso: rimaneva quindi vietato tutto ciò che
non era espressamente permesso.
Non tutti gli uomini adulti si adattavano facilmente a un regime così
severo.
Gli autori del regolamento avevano naturalmente previsto che i Fratelli
avrebbero potuto qualche volta lamentarsi della severa disciplina, per
questo sottolineano in più punti quanto sia importante un severo controllo
della volontà: «Gesù nulla ama di più dell’obbedienza incondizionata, e i
membri dell’Ordine devono dimostrargliela, poiché hanno rinunciato con il
loro ingresso, definitivamente, alla propria volontà».
 
 
 
L’Ordine manteneva la disciplina in due modi. Nelle sedi il Consiglio
(cioè tutti i Fratelli riuniti) puniva eventuali infrazioni, mentre durante i
viaggi nelle campagne militari i Templari per adempiere ai loro compiti,
non potevano essere controllati dalla comunità.
Ciononostante dovevano sforzarsi di vivere secondo il regolamento nel
miglior modo possibile, «dando così un esempio di buone azioni e
saggezza».
Aver fiducia è bene, controllare è meglio: il regolamento prescrive che i
cavalieri «in funzione del reciproco rafforzamento» viaggiassero sempre
almeno in due.
Nelle case dell’Ordine si riuniva ogni settimana il Consiglio e in questa
riunione si incontravano i Fratelli che prendevano decisioni importanti per
la Comunità. In tale sede i Fratelli potevano contribuire a decidere le
azioni della confraternita. Poiché il Consiglio stesso rappresentava un
organo di forte rappresentatività democratica, aveva un ruolo importante
nella vita dei Templari, tanto che gli è dedicata una parte consistente degli
articoli aggiuntivi.
Per sottolineare la dignità della riunione, che normalmente si teneva nel
salone della casa dell’Ordine o addirittura nella cappella, i Templari vi
partecipavano tutti con il mantello.
Dopo un Padrenostro recitato insieme, il Templare di rango più elevato
apriva la seduta con un discorso esortativo, quindi dovevano farsi avanti i
 

 
cavalieri che, durante la settimana, si erano macchiati di qualche colpa,
inginocchiarsi e ammettere in pubblico la propria mancanza.
I membri del Consiglio discutevano poi, in assenza del colpevole che
durante la discussione doveva lasciare la sala, quale fosse la punizione più
adatta. Non appena i Fratelli avevano raggiunto un accordo, il conduttore
della seduta riportava nella stanza il fratello colpevole e gli comunicava la
pena.
L’interessato non veniva a sapere, però, chi aveva proposto la punizione
e per un valido motivo: troppo facilmente si sarebbe potuto giungere a liti
o addirittura a faide di lunga durata tra alcuni Templari. Infatti non si può
mai dimenticare che non si trattava di pacifici monaci, bensì di cavalieri-
monaci orgogliosi e amanti della lotta.
Per questo motivo i Templari presero con straordinaria serietà la
segretezza all’interno del Consiglio. Anche il Livre d’Egards riporta solo
sentenze delle riunioni di Consiglio contro Fratelli che nel frattempo erano
morti. Nonostante questa discrezione ricordi molto il segreto della
confessione, non si deve credere in alcun modo che i Templari avessero
abbandonato ufficialmente, secondo il regolamento, la confessione stessa.
Tutte le colpe trattate in consiglio si riferivano, teoricamente, solo a
violazioni del regolamento dei Templari e non ai Dieci Comandamenti.
Il Consiglio prendeva provvedimenti quindi solo per colpe contro la
comunità e non contro Dio.
Le punizioni che il Consiglio poteva infliggere spaziano da un blando
rimprovero all’espulsione dell’Ordine, tuttavia, prima di giungere
all’estremo, nelle sedi in Occidente si pensava soltanto a esiliare in
Terrasanta un fratello e stabilire che vi restasse stabilmente, per lo più con
un atto di immediata sottomissione. In questo modo si potevano
trasformare le peggiori pulsioni in ansia e timore, facendo intravedere un
possibile futuro trasferimento in una pigra e pacifica Provincia.
 
 
 
Il cavaliere sul suo cavallo era l’arma ad alta tecnologia del Medioevo, e
funzionava perfettamente se l’uomo si dedicava regolarmente al suo
difficile mestiere e l’equipaggiamento si trovava sempre in condizioni
perfette.
Come si è detto in precedenza, la prima incombenza del cavaliere al
mattino era quella di controllare i propri cavalli.
In battaglia la sua vita dipendeva dalla loro forza e dalla loro rapidità. La
 

medesima cosa valeva per il resto del materiale: lo stato dell’armatura,
delle armi e della sella era decisivo per la vittoria o per la sconfitta. Sono
noti casi in cui cavalieri che si erano resi colpevoli di una mancanza, erano
stati condannati a non curare per qualche giorno la loro armatura: una
brutta punizione.
Tuttavia il cavaliere non doveva soltanto mantenere in buono stato il
proprio materiale, ma innanzitutto esercitarsi, esercitarsi e ancora
esercitarsi!
L’attacco con la lancia in resta, tecnica che trovò larghissima diffusione
in Europa tra il 1080 e il 1110, se il cavaliere padroneggiava il suo attrezzo
con destrezza poteva raggiungere una devastante forza d’urto. «Un Franco
a cavallo può aprire un buco nelle mura di Babilonia», si stupiva un
testimone oculare della Prima Crociata (Keen, p. 42).
Uomo, cavallo e lancia, dovevano formare un’unità compatta nell’assalto
al nemico: allora l’avversario veniva scalzato facilmente dalla sella e, nella
sua pesante armatura, un cavaliere a terra non poteva in pratica più
muoversi e diventava facile preda per i soldati a piedi, che
accompagnavano ogni assalto a cavallo.
L’impiego di lance lunghe e pesanti richiedeva però grande forza fisica e
costante esercizio.
I tornei offrivano ai cavalieri un’importante possibilità per mettere alla
prova, in condizioni realistiche, le loro capacità in combattimento, e non
c’è dubbio che i tornei siano divenuti tanto popolari proprio al tempo in cui
la tecnica della lancia in resta si stava diffondendo ovunque. Anche la
caccia godeva, presso la nobiltà, di grande popolarità, poiché vi si poteva
migliorare e dimostrare la propria abilità e anche migliorarla ancora.
Purtroppo, tuttavia, il regolamento dei Templari proibiva entrambi questi
divertimenti, per cui i cavalieri potevano solo esercitarsi “a freddo”. In
Terrasanta si tenevano allenati al combattimento viaggiando da una sede
all’altra dell’Ordine per gran parte del tempo, poiché durante queste ronde
potevano incontrare briganti o leoni ed esercitare su di loro la propria
abilità. Si può quindi affermare che, quasi come effetto collaterale, i
Templari garantivano la sicurezza delle strade.
Un attacco di cavalieri ben condotto poteva decidere una battaglia e
praticamente annientare l’avversario.
Purtroppo il legittimo orgoglio per una tale forza di sfondamento si
trasformò spesso in fastidiosa presunzione, anche tra i Templari che, nella
loro superbia, non volevano solo svolgere i loro compiti efficacemente ma
anche con stile.
 

 
Ancora una volta dunque il regolamento prescrive di compiere le attività
cavalleresche au plus beau, cioè nel modo più elegante possibile.
Anche in combattimento, tuttavia, valeva il precetto di obbedienza al
regolamento e per nessun motivo era lecito abbandonare il posto assegnato
dal comandante nello schieramento di battaglia.
La stessa cosa valeva per la cavalleria leggera e, innanzitutto, per i fanti
che proteggevano dalle frecce la cavalleria e, a volte per ore, rimanevano
nello stesso luogo e aspettavano il momento adatto all’attacco.
La disciplina era tutto: i Fratelli eseguivano anche i movimenti di truppa
in rigide colonne, per essere sempre protetti da un eventuale assalto.
Il maggior merito dell’Ordine dei Templari in campo militare sta forse
nel fatto di aver contenuto a tal punto la boria dei cavalieri che essi sul
campo di battaglia agivano come una cosa unica con gli arcieri e i fanti. Al
contrario quasi tutti gli altri eserciti cristiani (esclusi i cavalieri di San
Giovanni) non utilizzavano il potenziale completo dell’attacco di cavalleria
e questo spiega per prima cosa perché i Templari e i cavalieri di San
Giovanni poterono fornire un contributo tanto importante alla difesa della
Palestina nonostante che, dal punto di vista numerico, non avessero gran
peso.
 
 
Nell’insieme il regolamento dei Templari, i Retrais  e gli Egards,
presentano il progetto di una comunità assolutamente tipica della società
feudale.
Ovunque è possibile riconoscere una severa gerarchia tra i diversi livelli
e, tuttavia, nessuno esercita un potere completo.
In cima alla gerarchia dell’Ordine vi era, naturalmente, il Maestro che
oggi tutti chiamano Gran Maestro, nonostante questa espressione non
venga usata in alcun documento ufficiale e solo più tardi, nel xiv secolo,
compare spesso questa definizione.
Poiché però il titolo di Gran Maestro si è ampiamente diffuso, useremo
qui entrambe le definizioni. Il titolo di Maestro era del resto una creazione
del fondatore dell’Ordine, anche se più tardi assunsero questo titolo sia gli
altri ordini cavallereschi che gli Ordini dei frati questuanti.
Il Maestro era eletto a vita e non poteva essere deposto. Una volta al
vertice, il Maestro guidava l’Ordine nella buona e nella cattiva sorte.
Per questo il regolamento lo esorta a trattare questo potere con cautela,
invitandolo esplicitamente a esercitarlo «con amore e giustizia, per
 

stimolare e sostenere i Fratelli anziché punirli. Il Gran Maestro deve tenere
le redini tanto tirate quanto necessario, perché non si verifichi alcuna
negligenza».
Il regolamento si esprime in modo contraddittorio su quanto potere
possedesse realmente il Maestro.
Da una parte sembra che non fosse limitato nel suo potere dal
regolamento, infatti la versione francese del regolamento, in contrasto con
la stesura originale in latino, prevede esplicitamente che «tutti gli ordini
qui messi per iscritto possono essere interpretati liberamente dal Maestro»
e i Fratelli devono «obbedienza assoluta e immediata».
Secondo il punto di vista odierno la versione francese dello statuto
sembra quindi conferire un potere illimitato e dittatoriale al Maestro,
tuttavia nella pratica il Maestro non aveva certamente un’autorità tanto
assoluta, non fosse altro perché il concetto di assolutismo non fece la sua
comparsa che nel xvi secolo.
L’Ordine era un tipico figlio della società feudale e già il rituale di
accettazione lo dimostra poiché adotta elementi presenti nella formula del
giuramento al feudatario, anche se quest’ultimo, però, impegnava entrambe
le parti, poiché il vassallo giurava obbedienza al suo signore, ma in cambio
il signore gli permetteva di associarsi a lui nelle decisioni importanti.
La stessa cosa accadeva presso i Templari e il Retrais  stabilisce in un
cospicuo e ben definito numero di casi il diritto di decisione congiunta dei
Fratelli.
Il Maestro poteva quindi decidere del tutto autonomamente per le
semplici faccende della vita quotidiana, ma per le questioni importanti era
tenuto a chiedere il consenso di un consiglio di Prud-hommes  (uomini
saggi) che poteva partecipare a decisioni che riguardavano l’intera
confraternita, cioè l’assemblea generale del Consiglio.
Questa partecipazione era prevista nel caso in cui, ad esempio, il
Maestro decidesse di regalare o vendere terre, di assediare un castello, di
iniziare una guerra o di stipulare un armistizio. Poteva inoltre nominare i
rappresentanti delle provincie più importanti solo d’intesa con il Consiglio,
mentre poteva conferire di propria iniziativa le cariche nei territori
secondari.
Se il Maestro voleva prestare denaro, poteva farlo solo con il consenso
dei Prud hommes e solamente fino alla somma di 1000 bizantini, mentre
per importi più elevati era invece necessaria l’approvazione di un maggior
numero di Fratelli.
In ogni caso non è chiaro se i partecipanti alla riunione del Consiglio
 

potessero soltanto consigliare o anche prendere decisioni. Il regolamento si
pronuncia in proposito solo vagamente: «è procedimento appropriato
riunire in questi casi, tutti i Fratelli in consiglio e, in tale sede, il Maestro
deve fare la proposta che gli pare migliore e più sensata».
Altrettanto poco chiaro rimane chi debba nominare i Prud hommes che
consigliano il Maestro; in fin dei conti non ci sarebbe stata molta
democrazia, se lo stesso Maestro avesse potuto stabilire le persone che
avrebbero dovuto dargli «un saggio e utile consiglio».
Nell’insieme, quindi, il regolamento dei Templari resta contraddittorio
per quanto concerne la reale posizione del Maestro, da una parte perché gli
assegna pieni poteri, dall’altra prescrive la decisione congiunta dei Fratelli
per questioni importanti.
Vi è una frase nel Retrais  che esprime molto bene proprio questa
ambiguità: «Tutti i Fratelli del Tempio devono obbedienza al Maestro,
nello stesso modo in cui il Maestro deve obbedienza ai membri
dell’Ordine». Questo paradosso deriva probabilmente dall’incontro di due
principi inconciliabili, quelli cioè della rigorosa gerarchia dei militari e
degli elementi democratici all’interno del sistema feudale.
Nella pratica, la reale suddivisione dei poteri nell’Ordine dipendeva
molto dalla personalità del Maestro stesso che, in sostanza, poteva
modellare la propria posizione e assegnarsi tante competenze quante
desiderava averne.
In un settore importante, però, i Retrais non lasciano al Maestro alcuna
libertà e cioè sull’utilizzo del denaro. Certamente tutte le offerte
provenienti dall’Occidente gli venivano presentate ma proseguivano subito
per il Reggente del regno di Gerusalemme che nello stesso tempo aveva la
funzione di Maestro tesoriere dell’Ordine.
Il Maestro non riceveva alcuna chiave del tesoro, poteva ordinare
pagamenti ma, se il tesoriere si opponeva, del tesoro non restava neppure
una moneta. Una nota a piè di pagina è interessante: «il Maestro può avere
all’interno delle camere del tesoro dell’Ordine una propria cassetta di
sicurezza».
Per quale motivo in realtà? Come tutti gli altri Fratelli, secondo lo
statuto, il Maestro non avrebbe potuto avere beni personali. Da questo
particolare possiamo concludere che, perlomeno i Maestri, non prendevano
sul serio proprio al cento per cento il giuramento di povertà, anche se non
è possibile, allo stato attuale della ricerca, sapere con certezza se anche
altri cavalieri, al loro ingresso nell’Ordine, avessero avuto la possibilità di
mettere da parte una piccola riserva di denaro.
 

Con il contenuto della sua cassetta di sicurezza il Maestro poteva
naturalmente fare ciò che voleva ma della ricchezza dell’Ordine egli poteva
usufruire solo con il consenso dei suoi consiglieri. In ogni caso gli era
consentito fare direttamente piccole spese e distribuire regali, che però non
dovevano superare il valore di un cavallo: l’unità di valore dei cavalieri.
Il Maestro aveva sempre a disposizione quattro cavalli, inoltre il suo
seguito era composto da due cavalieri, un cappellano, due fanti e un paggio
a cavallo che aveva il compito di portare la sua spada e la sua lancia.
Al suo servizio vi erano anche due servitori, un fabbro, uno «scrivano
saraceno», quindi un segretario, che doveva conoscere l’arabo e un cuoco.
Come detto, una scorta composta dai due cavalieri lo accompagnava
ovunque. In viaggio essi avevano, contemporaneamente, anche la funzione
di Prud hommes, in quanto consigliavano e controllavano il Maestro.
Per rendere meno gravoso il proprio compito, il Maestro nominava, con
il consenso del Consiglio, i dignitari dell’Ordine, che adempivano a
incombenze ben delimitate, in modo autonomo, ma che in ultima analisi,
rendevano sempre conto al Maestro che li poteva correggere.
Sarebbe poi opportuna una ulteriore osservazione sui Consigli, infatti
nell’Ordine non vi era un solo Consiglio, ma ve ne erano, letteralmente,
un’intera gerarchia.
Al livello più basso, del feudo locale, il Consiglio si riuniva
settimanalmente e sistemava le faccende inerenti la sede dell’Ordine.
Il Consiglio provinciale, invece, si riuniva una sola volta all’anno per
decidere le cose più importanti che i feudi di tutta la regione avrebbero
dovuto affrontare.
Infine vi era la possibilità di un Consiglio generale dell’Ordine per cui
venivano convocati tutti i dignitari dell’Ordine in Oriente e in Occidente,
per esempio in occasione della nomina di un nuovo Maestro.
È vero che il regolamento prevede un simile Consiglio generale per la
nomina di un nuovo Maestro, ma in pratica a decidere erano soltanto i
Templari in Terrasanta, in primo luogo perché ci sarebbe voluto troppo
tempo affinché tutti i dignitari giungessero in Palestina dall’Europa e, in
questo caso, sarebbero rimasti tutti i possedimenti in Occidente privi di
guida: un’assurdità!
Quindi i Templari della Terrasanta nominavano da soli il nuovo Maestro
che a sua volta nominava poi il suo sostituto, il Siniscalco, che assumeva
le mansioni amministrative in caso di una sua assenza e a consigliarlo
erano naturalmente gli stessi Prud hommes – che altrimenti lavorano per il
Maestro – ed era sottoposto alle stesse limitazioni nell’ambito delle sue
 

competenze decisionali.
Nel quotidiano, il Maresciallo però aveva una mansione ben più
importante del Siniscalco e nella gerarchia interna si collocava anche
prima di lui. Al Maresciallo erano affidati tutti i compiti militari «da lui
dipendono tutte le armi e le armature della sede». Il Maresciallo era
responsabile sia delle armi a disposizione sia dell’acquisto di quelle
supplementari e il culmine della sua importanza lo raggiungeva
naturalmente nei periodi di guerra, poiché sul campo di battaglia egli
aveva il comando di «tutti i Fratelli serventi e dei soldati».
Se il Maestro moriva, il Maresciallo ne assumeva i compiti e
organizzava la cerimonia di sepoltura. Immediatamente informava i
dignitari dell’Ordine, perché si recassero in Oriente per nominare al più
presto un supervisore che si occupasse degli atti amministrativi correnti del
Maestro e che nominasse un “consigliere elettore”. Questi due avrebbero
scelto altri dodici elettori secondo una precisa proporzione: dovevano
essere otto cavalieri e quattro cavalieri serventi provenienti «da diverse
nazioni e paesi, per preservare la pace della casa».
Questi dodici sceglievano un fratello cappellano «che deve fare in modo,
in vece di Gesù Cristo, che i membri della commissione agiscano in pace,
amore, comprensione».
Questi tredici elettori insieme, avrebbero scelto quindi il nuovo Maestro.
Nella loro scelta erano completamente liberi, lo garantiva la già citata
Bolla di Innocenzo ii dell’anno 1139, che dichiarava illegale ogni tentativo
di influenza proveniente dall’esterno.
In generale i Maestri di fresca nomina disponevano di grande esperienza
in Oriente. In fondo si mettevano in viaggio, normalmente, solo i dignitari
della Palestina per la scelta del Gran Maestro e certamente sceglievano di
preferenza uno di loro.
Il capo del regno di Gerusalemme amministrava, come già ricordato
poco sopra, i tesori dell’Ordine ed era il solo responsabile dell’utilizzo del
denaro. Egli riceveva tutte le donazioni in arrivo e le rendite dei feudi,
come del resto tutti i bottini di guerra fino alle armi e ai cavalli confiscati,
sul cui utilizzo poteva decidere autonomamente. Sotto la sua responsabilità
vi è anche il legame vitale dei Templari con le loro proprietà oltremare
(quindi in Occidente) da mantenere nel migliore dei modi.
E se tutto ciò non bastasse, dipendeva da lui anche la disposizione delle
truppe in battaglia: egli, infatti, impartiva gli ordini per la marcia dei
soldati e decideva quali Fratelli e in quale fortezza dovessero essere
dislocati per raggiungere il migliore risultato. La sua importanza dal punto
 

di vista militare era enorme tanto più che era anche il superiore del
Drapìers, colui che organizzava il rifornimento di vestiario e materiale per
le truppe.
Non bisogna confondere il capo del regno di Gerusalemme con il capo
della città di Gerusalemme, che era responsabile della protezione dei
pellegrini e che però, nella gerarchia interna, ricopriva una posizione
considerevolmente più bassa, il che fa ben intuire quale peso relativamente
limitato avesse il compimento di questo incarico per i Templari.
Per ciò che concerne gli altri livelli nella gerarchia dei Templari, regna
spesso una gran confusione e il lettore non dovrebbe lasciarsi confondere
per l’uso delle denominazioni: talvolta infatti veniva dato l’appellativo di
Maestro anche al capo di un semplice feudo.
Naturalmente avveniva la medesima cosa anche per chi stava a capo di
una provincia dell’Ordine e infine per il capo dell’Ordine, tutti venivano
spesso indicati come Maestro, sia che fossero a capo di un feudo o
incaricati ministeriali o procuratori.
Tutte queste denominazioni compaiono sempre nei documenti e,
nonostante non abbiano proprio lo stesso significato, vengono usate nel
regolamento come sinonimi.
Un “precettore”, ad esempio, può essere il Maestro di un Protettorato,
ma anche il Maestro di un’intera provincia dell’Ordine. Per stabilire
l’importanza di un Maestro è quindi bene chiedersi, sempre, su quale
territorio governasse: il Maestro di una sede dell’Ordine godeva di poteri
che si avvicinavano molto a quelli dell’abate di un convento di Benedettini,
dirigeva la sede autonomamente, ma era sottoposto al suo superiore, il
Maestro del Protettorato che a sua volta riceveva gli ordini da chi guidava
la provincia dell’Ordine.
La Francia, in quanto Provincia dell’ordine, era composta da cinque
Protettorati: la Normandia, l’Ile de France, La Picardia, il Lothringen-
Champagne  e la Borgogna.
Il Maestro di Francia impartiva ordini, dunque, ai Maestri di questi
cinque territori ma li riceveva a sua volta dal rappresentante del Gran
Maestro per l’Occidente o dal Gran Maestro dell’Ordine.
Inizialmente i possedimenti dell’Ordine erano divisi in sei Provincie
(Tripoli e Antiochia, Francia e Inghilterra, Puglia e Ungheria, Poitou,
Aragona, Portogallo) ma più tardi, quando le donazioni giunsero più
numerose, i Gran Maestri si trovarono costretti a fare una nuova
suddivisione dei possedimenti.
Nei limiti del possibile, cercarono di formare provincie che avessero in
 

 
comune la lingua, per facilitarne l’amministrazione.
Le persone colte del Medioevo potevano capirsi con la lingua latina,
superando in questo modo ogni barriera linguistica, ma questa possibilità
non era offerta agli uomini di potere dell’Ordine dei Templari, poiché non
disponevano della cultura necessaria. Tuttavia nonostante tutte le barriere
linguistiche e le distanze, l’Ordine riuscì a creare un’amministrazione
efficiente in tutto il territorio, dal Portogallo alla Palestina: un vero
capolavoro organizzativo.
 
 

 
 
 
 
 
 
Le tre “sezioni” dei Templari, divise sia dal punto di vista geografico sia
per le funzioni, erano: le unità combattenti nella Penisola Iberica, i feudi
nel resto dell’Occidente e infine le truppe in Palestina. Nelle pagine
seguenti verranno descritte brevemente le attività dei Templari in Europa.
Tutto il successivo capitolo sarà dedicato agli avvenimenti in Terrasanta,
che furono una sorta di sottoprodotto della “Reconquista”, tanto che fino
all’anno di inizio della Seconda Crociata, il 1147, la maggior parte delle
attività dei Templari non si svolgeva in Oriente, ma in Spagna e
Portogallo.
Questo primo fronte venne poi considerato di secondo piano, perché la
gran parte del denaro, dei cavalieri, delle armi, che i feudi in Europa
raccoglievano, prendevano la strada della Palestina.
Le province iberiche rimasero abbandonate a se stesse, e si dovettero
autofinanziare completamente, giungendo perfino a reclutare
autonomamente i soldati. Infatti i cavalieri Templari impegnati nella
 

“Reconquista” provenivano per lo più dai territori spagnoli e portoghesi.
Queste provincie dell’Ordine si differenziano perciò, già per questo
motivo, da tutte le altre, in quanto l’Ordine dei Templari, nel suo insieme,
pensava in modo sovranazionale e a una cristianità collettiva, mentre la
parte iberica aveva una caratterizzazione molto nazionalista e i suoi i
soldati, indigeni, lottavano per il proprio paese, finanziati con mezzi
propri.
I Templari del Portogallo, sentendosi abbandonati dall’Ordine, gli
voltarono le spalle e – nell’anno 1169 – il re del Portogallo promise ai
Templari un terzo dei territori che avessero conquistato a sud di Tejo, a
condizione che l’Ordine si impegnasse a tenere definitivamente tutte le
proprie – presenti nel Portogallo – impegnate sul posto. Il Gran Maestro
della provincia accettò ringraziando per l’offerta e fu così che il Tempio
del Portogallo uscì dall’Ordine e divenne del tutto autonomo.
Il fatto che la maggior parte dei cavalieri Templari impegnati nella
“Reconquista” fossero stati reclutati localmente ebbe chiare ripercussioni
sulla loro condotta, essi infatti si comportarono in maniera meno
ideologica e assai più pragmatica rispetto ai loro confratelli in Terrasanta.
Nella Penisola Iberica convivevano da secoli e, piuttosto pacificamente,
le più diverse religioni. Per quanto riguarda i conflitti armati si trattava di
autodeterminazione non legata all’ideologia, perciò le parti in conflitto
erano meno accanite.
Per i Templari i Musulmani locali non erano nemici da distruggere,
quindi li combattevano solo perché governavano un paese che i Cristiani
avrebbero voluto possedere ben volentieri.
In ogni caso le battaglie venivano condotte con grande impegno da
entrambe le parti belligeranti, tanto che l’insieme dei territori conquistati
venivano spesso totalmente devastati e dovevano essere poi colonizzati.
I Templari, come nuovi signori feudali, tentarono di attirare i contadini,
che avrebbero dovuto rendere di nuovo produttivi questi territori, e quando
non trovavano Cristiani disponibili, arrivavano a dare in affitto la terra
(che avevano appena sottratto ai Musulmani!) proprio ai contadini
saraceni. Se lo avessero saputo i Fratelli di Gerusalemme!
Nell’insieme l’impegno dei Templari in occidente era quindi di natura del
tutto diversa da quello tenuto in Oriente.
In particolare, in Spagna e in Portogallo, i Templari non avevano infatti
alcuna possibilità di assumere, nello stato e nella lotta contro l’Islam, una
posizione molto importante a causa anche delle loro scarse risorse.
Essi si limitavano ad appoggiare gli sforzi, del resto coronati da notevole
 

successo, del signore locale e anche questo, a quanto pare, con sempre
minore interesse.
Una Bolla papale dell’anno 1250 chiedeva – certo su richiesta dei
principi spagnoli – che sia i cavalieri Templari sia i cavalieri di San
Giovanni non trascurassero completamente la lotta contro i mori in quelle
regioni.
In particolare, tra il re di Aragona e i Poveri Fratelli (altra
denominazione corrente dei Templari) c’era notevole fermento da quando,
nel 1292, essi si erano rifiutati con fermezza di appoggiarlo
nell’aggressione alla cristiana Navarra.
In modo autoritario il re di Aragona intimò ai Poveri Fratelli di seguire i
vessilli comuni – nella lotta per la “Reconquista” – altrimenti per loro
«sarebbe andata come è giusto che vada per coloro che, privi di umanità, si
erano rifiutati di combattere per il proprio paese» (Demurger, p. 207).
Il re aragonese intendeva chiarire che non avrebbe mai tollerato uno
stato nello stato e non era il solo in Europa, poiché a partire dal xiii secolo
si andò rafforzando sempre più l’idea dello stato nazionale e il potere si
spostò dai numerosi piccoli principati per accentrarsi nelle mani del
monarca di un paese che, in base alla propria forza, lo pretendeva.
In realtà proprio per questa lotta per il potere, i Templari, più tardi,
andarono in rovina in tutta Europa, tranne che in Portogallo dove, nel
1169, rinunciarono alla loro indipendenza e si sottomisero volontariamente
al re.
Per ironia della sorte noi oggi non ci ricordiamo dei loro successi nella
Penisola Iberica, ma solo del tentativo dei cavalieri Templari, alla fine
fallito, di difendere Gerusalemme.
Pensando a un Templare oggi immaginiamo un cavaliere tutto vestito di
bianco che galoppa in Terrasanta e dimentichiamo facilmente che i
cavalieri dei Templari non rappresentavano che una parte infinitesimale
del popolo dei Templari, nel suo insieme. Nessuno rammenta i fanti, i
servi e gli impiegati dell’Ordine che svolgevano un lavoro enorme.
Prima di tutto il ruolo delle sedi dell’Ordine in Occidente è spesso tenuto
in scarsa considerazione mentre la gran parte dei membri dell’Ordine in
Europa, sgobbava e cercava di raccogliere nei feudi l’enorme quantità di
oro necessaria al mantenimento delle truppe in Palestina.
I feudi erano le “mucche da latte” dell’Ordine ed erano sfruttati come
una colonia per soddisfare la continua fame di armi, cavalli e viveri dei
cavalieri in Terrasanta. Ciò che contava per un feudo era l’ammontare del
profitto, in questo modo, peraltro, l’Ordine riteneva che potesse definirsi
 

feudo anche una semplice fattoria, purché rendesse in eccedenza.
Sul numero di queste attività dell’Ordine gli storici discutono
accanitamente ancor oggi. In tutta Europa erano certamente alcune 
migliaia, ma allo stato attuale delle ricerche non si può dire nulla di più
preciso.
I Fratelli amministravano questi feudi con metodi che si possono
definire efficaci, anche se non particolarmente innovativi. Chi era a capo di
una sede poteva decidere autonomamente quali frutti coltivare o che tipo di
bestiame tenere e in questo modo egli era in grado di reagire in modo
molto flessibile ai mutamenti di condizione dell’ambiente e produrre
proprio ciò che era meglio, secondo il clima, la natura del terreno e i
prezzi, per portare il maggior profitto possibile al feudo. Tale entrata
andava poi all’amministrazione provinciale.
Un’idea veramente intelligente dell’Ordine era quella di far produrre
direttamente dalle loro fattorie-feudo ciò che era necessario ai Fratelli in
Palestina. Si evitava così di disperdere forze per organizzare la produzione
delle singole aziende agricole. In questo modo i feudi erano in grado di
impegnarsi a fornire prodotti più adatti alle loro caratteristiche.
Non ultimo, l’Ordine risparmiava con il suo sistema i costi di trasporto.
Poniamo che un feudo nel nord-est della Francia producesse grano, che era
estremamente necessario in Palestina. Il raccolto veniva messo al coperto,
ma poi non veniva trasportato, con grandi spese, attraverso mezza Francia
fino a un porto, bensì venduto subito a un mercato locale.
Il Maestro inviava quanto ricavato all’amministrazione provinciale, dove
era possibile verificare e quantificare al meglio il fabbisogno della
Terrasanta. Il grano veniva quindi comprato nella Francia del Nord, del
Sud o addirittura in Palestina a seconda dei prezzi locali. I feudi fortificati
erano solo quelli dei territori della Penisola Iberica, dove si combatteva,
altrimenti non avevano bisogno di mura e bastioni per la loro protezione.
In fin dei conti servivano per scopi civili: fattorie, centro locale della vita
dell’Ordine, luogo di riposo per i cavalieri provati dall’esperienza in
Terrasanta e base di reclutamento per i nuovi membri. Inoltre davano
ospitalità ai viaggiatori: molti feudi infatti si trovavano in prossimità delle
strade dei pellegrini e si impegnavano ad assolvere al meglio il compito
primitivo dell’Ordine, la protezione dei pellegrini stessi.
Tuttavia le sedi dell’Ordine non offrivano solo protezione ai pellegrini,
ma anche al loro oro e, come tutti i conventi, i feudi godevano 
dell’inviolabilità dei luoghi sacri, anche se i Templari difendevano le
sedi più importanti, per precauzione, con spesse mura e un reparto di
 

cavalieri.
Quanto era conservato nei forzieri ben protetti dell’Ordine a Parigi,
Londra, La Rochelle o Tornar (Portogallo), stava tanto al sicuro, quanto
nel castello di Abramo. La fama di assoluta integrità in fatto di soldi dei
Poveri Fratelli, si diffuse rapidamente e ben presto uomini semplici e
perfino monarchi, chiesero di conservare loro le cose di valore.
I Templari accondiscesero a questa richiesta nonostante all’inizio non
fruttasse loro nulla, anzi essi sostenevano le spese amministrative ma non
sapevano che fare con il denaro depositato presso di loro. Fu soltanto
involontariamente e per caso che i cavalieri-monaci entrarono nell’attività
bancaria, ma riconobbero però presto le possibilità di guadagno che si
offrivano loro e, per quanto concerne la mentalità imprenditoriale, nessuno
fu più rapido dei Fratelli ad acquisirla!
Realmente l’Ordine si organizzò al meglio per condurre operazioni
finanziarie in grande stile. Mise a punto un sistema che comprendeva una
gigantesca rete di filiali, da Edimburgo a Gerusalemme e aveva la fama di
assoluta integrità. Ogni risparmiatore sapeva, con il cento per cento di
sicurezza, che avrebbe ricevuto il proprio denaro indietro qualora lo avesse
richiesto.
I Templari coltivavano tale fama di irreprensibilità con un fervore simile
a quello delle banche odierne e davvero nel corso di tutta la storia
dell’Ordine non vi fu mai alcuna lamentela o accusa di aver imbrogliato
anche uno solo dei loro investitori.
Non manca una certa ironia, poiché nel corso del processo che condusse
allo scioglimento dell’Ordine, si levarono i rimproveri più assurdi contro i
Templari, che furono accusati di adorare il diavolo e di eresia ma nessuno
osò sostenere che essi fossero mai stati disonesti in fatto di denaro.
Anche i regnanti d’Europa diedero fiducia ai Fratelli e già a metà del xii
secolo il tesoro statale francese stava nel Tempio di Parigi, e anche la
corona inglese aveva affidato, nel xiii secolo, la metà del suo oro al
Tempio londinese.
I Poveri Fratelli ne traevano guadagno poiché non conservavano soltanto
il denaro ma lo impiegavano e talvolta lo prestavano a interesse. Con le
loro lettere di credito rivoluzionarono il trasferimento 
internazionale di denaro, poiché ognuno poteva acquisire nella sede
dell’Ordine prescelta una lettera di credito e incassarla poi in un’altra
filiale, anche lontanissima.
Per i viaggiatori ciò presentava l’inestimabile vantaggio di non essere
costretti a trascinare con sé il loro denaro, con il pericolo costante di essere
 

derubati.
Poiché il flusso dei pagamenti spesso si bilanciava (un viaggiatore paga
in A e preleva in B, un altro versa in B e preleva in A), l’Ordine doveva
trasportare solo i soldi al netto delle differenze tra i depositi nelle varie
sedi.
Queste modeste quantità d’oro non avevano alcuna rilevante importanza
rispetto ai continui flussi di beni tra le sedi dei cavalieri Templari.
Talvolta tuttavia l’Ordine faceva viaggiare realmente tesori di grande
valore, come durante la Seconda Crociata ad esempio, quando una nave
dei Templari trasportò in Terrasanta una gran quantità di “cassette di
sicurezza”, nelle quali nobili crociati di Francia avevano depositato le loro
cose più preziose, quindi denaro liquido, gioielli e reliquie di grande
valore, che desideravano fossero trasportate con sicurezza in Palestina.
Ora si pone forse l’interrogativo del perché i Templari abbiano effettuato
queste operazioni bancarie: non li distraeva forse dalla loro meta
originaria? Al contrario guadagnarono in questo modo molto denaro
proprio per finanziare la lotta contro i Saraceni.
Questo tipo di operazioni bancarie cadevano in realtà sotto il divieto di
usura. Secondo la Chiesa, infatti, per affari di denaro non dovevano essere
richiesti né tasse né interessi, ma la Chiesa stessa, però, per prima non
osservò questo divieto.
Tra il xii e il xiv secolo l’Ordine camuffava spesso tasse e interessi con
operazioni di cambio tra una moneta e l’altra.
Tuttavia la contraddizione tra il loro anelito morale e il loro reale modo
di agire non sembra aver disturbato per nulla i Poveri Fratelli, che non si
tiravano certamente indietro di fronte a metodi chiaramente privi di
scrupoli e che erano stati disapprovati o addirittura proibiti dalla Chiesa.
Naturalmente impiegavano subito il guadagno ottenuto nel
finanziamento della Guerra Santa ed erano accaniti sostenitori
dell’opinione che lo scopo “santifica i mezzi”. I loro accusatori vedevano la
cosa in modo ben diverso e li tacciarono violentemente di cupidigià,
rimprovero che perseguitò l’Ordine per tutto il tempo della sua esistenza e
a buon diritto. Non sembra errato sospettare che i Poveri Fratelli
esercitassero perlomeno una “leggera pressione” sulle parti in un gran
numero di scambi, acquisti, donazioni ed eredità, naturalmente sempre con
la giustificazione che tutto ciò avveniva esclusivamente per onorare meglio
Dio.
Quale che fosse il metodo, legittimo o dubbio, con cui si era realizzata la
ricchezza dell’Ordine, già all’inizio del xii secolo l’elenco dei beni in
 

 
 
Europa era impressionante.
Le sedi si concentrarono prima di tutto lungo le vie dei pellegrini e nelle
città portuali, ma non si estese però una rete di sedi dei Templari
regolarmente distribuita in Europa, per il semplice motivo che l’Ordine
godeva di benevolenza del tutto differente a seconda delle regioni.
In Inghilterra e nella Francia del nord i Templari trovarono molti amici,
il che condusse a numerose donazioni, mentre nella Francia del sud, anche
se la popolazione dimostrava grande fervore religioso e il territorio
avrebbe quindi dovuto essere in fin dei conti una tipica zona clientelare per
i Templari, non ebbero un particolare successo, poiché l’Ordine di San
Giovanni faceva loro una dura concorrenza.
I Poveri Fratelli nel cuore della popolazione venivano solo al secondo
posto, anche così, comunque, ottennero sufficienti doni per loro. La
situazione si presentava più difficile in Italia, dove la popolazione era
legata in modo più forte all’Ordine di San Giovanni e dove l’entusiasmo
per l’idea di crociata era generalmente inferiore rispetto ad altri paesi.
All’inizio le donazioni giunsero con il contagocce e solo nell’autunno del
1134 l’Ordine potè fondare le sue prime sedi in Italia: a Ivrea e a Milano.
Ma, dopo la fondazione del convento di Piacenza, nell’anno 1160, il
movimento divenne – nel volgere di pochi anni – più forte e presto sorsero
parecchie sedi dei Templari nella pianura padana, lungo la costa e sulle
principali strade, dai passi alpini a Genova e Venezia.
Assai meno bene andavano gli affari nel regno tedesco, dove i cavalieri
Templari non potevano mettere letteralmente piede, poiché già nel periodo
prima della fondazione dell’Ordine dei cavalieri Teutonici, nel 1199, essi
non ricevettero che pochi doni che, presto,
si esaurirono del tutto. Per i Poveri Fratelli, l’Ungheria invece ebbe
un’importanza abbastanza significativa poiché si trovava sulla strada per
Gerusalemme e vi mantennero alcune sedi per dare protezione ai pellegrini
che avevano scelto questo faticoso percorso per raggiungere la Terrasanta.
 
 
 
 
 
Prima di tutto non va sopravvalutata l’importanza dei Templari in
Palestina nei primi anni, poiché la loro forza era troppo limitata. Fino alla
metà del xii secolo i pochi cavalieri Templari si dispersero nella massa di
 

 
pellegrini e crociati che accorrevano in Terrasanta.
Le cronache storiche, che presentavano già il secondo viaggio di Ugo di
Payens a Gerusalemme, nell’anno 1129, come una marcia trionfale
attraverso la Francia sono davvero esagerate, poiché di certo nel suo
ritorno a Gerusalemme Ugo non portò con sé «smisurate ricchezze» o
addirittura «300 cavalieri» (Lincoln/Baigent/Leigh, p. 58).
 
 
 
La prima azione militare dimostrabile a cui i Poveri Fratelli presero
parte, fu l’assedio di Damasco nell’anno 1129. Ugo di Payens, appena
rientrato dal suo viaggio in Europa, comandò uno squadrone che però, per
la maggior parte, non era certo composto da Templari ma da normali
soldati.
L’Ordine aveva a disposizione un numero troppo scarso di uomini per
costruire propri reparti di truppe. Tuttavia sotto la conduzione di Ugo di
Payens quella “plebaglia”, pur messa insieme in qualche modo, mostrò
quell’impegno incondizionato che in seguito avrebbe contrassegnato
l’insieme delle azioni militari dei Templari.
I Cristiani pagarono comunque un grande prezzo per la loro risolutezza:
caddero in un’imboscata ed ebbero gravi perdite. Il 5 dicembre scoppiò una
feroce battaglia con i difensori della città al termine della quale i cavalieri
Templari, per la maggior parte, erano morti, ma non tutti, come sostiene
qualche storico.
L’Ordine ricevette in regalo, negli anni tra il 1131 e il 1138, la sua prima
vera fortezza, il castello di Baghras. Ma questo regalo dimostra come i
Templari, all’inizio, venissero abbondantemente manipolati dai principi per
i loro interessi.
La fortezza si trovava infatti ai confini con l’Armenia, che apparteneva
all’area di influenza di Bisanzio e perciò alleato dei Cristiani nella lotta
contro i Musulmani.
Adescati con questo dono, i Templari proteggevano ora, all’improvviso, i
confini da un vicino cristiano anziché concentrare le proprie forze
nell’impegno contro i Musulmani.
Nei principati del nord, Antiochia e Tripoli, i principi Cristiani, nella
metà del xii secolo, regalavano i loro castelli ai Templari. Perché? Una
benevola interpretazione degli avvenimenti suonerebbe all’incirca così: i
principi riconoscevano che soltanto i Poveri Fratelli mettevano in campo la
 

forza necessaria e la risolutezza per mantenere queste fortezze.
Meno lusinghiera è la spiegazione che i precedenti possessori dei castelli
videro nelle donazioni una strada semplice per liberarsi dal dovere faticoso
e costoso di difendere i confini.
Nell’anno 1138, come informa Guglielmo di Tiro, i Poveri Fratelli
andarono contro i briganti turchi che operavano da Askalon e in certi
periodi rendevano le strade per Gerusalemme – da Jaffa e da Hebron – di
fatto impraticabili. Quando i Saraceni si impossessarono della città di
Tekua, sul mar Morto, e cacciarono la popolazione cristiana, la misura era
colma. Così il Gran Maestro Roberto di Craon, successore di Ugo di
Payens, morto nel 1136, guidò i suoi cavalieri contro la città e la
riconquistò.
Però la fortuna non durò a lungo. Roberto di Craon decise di inseguire i
Turchi in fuga, ma questi si riorganizzarono rapidamente e andarono al
contrattacco. Con un violento assalto ripresero Tekua e fecero un vero e
proprio bagno di sangue tra la popolazione.
Se si dà credito a Guglielmo di Tiro (cosa che non si dovrebbe fare
poiché come sempre egli esagera per mettere i Templari in cattiva luce in
quanto, nella sua posizione di vescovo, era invidioso dei loro privilegi), i
Turchi sparpagliarono le salme dei Cristiani su tutto il percorso da Hebron
a Tekua.
Ancora una volta i Templari avevano immolato molti cavalieri in
un’azione condotta ancora una volta male, tuttavia non per temerarietà ma
per un errore tattico. Fino all’inizio della Seconda Crociata (1147), i
Templari si dedicarono prevalentemente alla protezione dei pellegrini.
Poiché in ogni caso non esistono che poche cronache, non è chiarito in
modo definitivo quale fosse il loro modo d’agire, probabilmente nel loro
tentativo di rendere le strade più sicure, lottavano non solo contro i
briganti ma anche contro gli animali feroci.
La caccia, pessimo divertimento cavalleresco, era severamente proibita
dal regolamento dei Templari, con una sola eccezione: l’articolo 56 che
permetteva espressamente la caccia ai leoni, poiché i felini
rappresentavano, in Siria e in Palestina, un pericolo tanto grave quanto i
briganti sulle strade.
Certamente i Fratelli provavano un brivido quando combattevano contro
gli animali feroci, che si nascondevano nei cespugli e nelle caverne e
attaccavano in branco e che per viaggiatori armati e con la corazza
potevano essere terribilmente pericolosi, come dimostra la morte di un
cavaliere franco, sbranato da un leone lungo il percorso da Apamea ad
 

 
Antiochia.
Dalle scarse testimonianze contemporanee si può concludere che
inizialmente l’azione dell’Ordine non fu esaltante, ciononostante i Templari
portarono a compimento il loro incarico in modo del tutto soddisfacente.
 
 
 
 
 
 
 

Lo testimonia un documento dell’anno 1132: «Noi pensiamo che tutti i
credenti meritino il conforto e l’aiuto che i Templari fanno giungere agli
indigeni, ai pellegrini, ai poveri e a tutti gli altri che desiderano visitare la
tomba del Signore» (Pernoud p. 49).
Che cosa portarono avanti i Templari, oltre alle azioni descritte, nel
periodo fino al 1147? Certo ospitarono i pellegrini, garantirono loro la
protezione nelle sedi dell’Ordine, sia in Occidente che in tutto l’Oriente. A
Gerusalemme l’Ordine prese presto questo compito in modo
particolarmente serio, tanto che un alto dignitario del feudo della città di
Gerusalemme, era personalmente responsabile per una buona sistemazione
dei pellegrini.
Da lui dipendeva un drappello di dieci cavalieri con i loro scudieri,
nell’insieme circa 100 uomini armati, che erano sempre pronti a correre in
soccorso dei Cristiani o a scortarli.
Ma l’Ordine trascorse questi primi anni prevalentemente a metter radici a
Gerusalemme (e, in generale, in Terrasanta). I cavalieri a-dattarono la loro
residenza, che si trovava inizialmente nella moschea di El-Aqsa, alle
proprie necessità: divisero in celle la primitiva sala di preghiera, inoltre
costruirono parecchi nuovi edifici, nei quali sistemarono il refettorio, i
granai e le cantine.
Sotto la moschea si trovavano enormi ambienti, le cosiddette scuderie di
Salomone, tanto imponenti che l’Ordine poteva alloggiarvi tutta la sua
cavalleria. Con stupore un pellegrino riferisce che, alla metà del xii secolo,
le scuderie comprendevano duemila cavalli!
Le fiabesche misure di questo ambiente, proprio sotto al tempio di
Salomone, condussero come è naturale alle speculazioni di alcuni autori,
convinti che l’Ordine fosse circondato da un grande mistero. Secondo
Lincoln/Baigent/Leigh, subito dopo il loro ingresso, i Templari si
dedicarono a lavori di scavo sotto alle scuderie ben sapendo che cosa
cercare e dove avrebbero dovuto cercare.
Non è forse strano che, all’atto della sua fondazione, l’Ordine si
insediasse nella residenza del re e che questi si dovesse cercare un nuovo
alloggio?
Ricordiamoci inoltre che questi tre autori sostengono che il conte Ugo
avesse portato con sé in Occidente dal suo viaggio a Gerusalemme,
nell’anno 1114, un testo segreto. I Poveri Fratelli avevano forse rinvenuto
questo libro sotto il tempio di Salomone?
 
 
 

 
 
 
Questi scavi sotto la moschea appaiono in effetti inspiegabili, in ogni
caso non esiste la minima traccia e tantomeno prove storicamente valide,
che tutto ciò sia realmente avvenuto.
Finché non si rintracceranno prove concrete non si potranno considerare
queste leggende altro che una graziosa e ben costruita ipotesi che poco ha a
che fare con la verità.
 
 

 
 
 
Le prime vere imprese belliche dei Templari caddero in un periodo di
relativa pace tra Cristiani e Saraceni, turbati solo da reciproci assalti a
scopo di rapina. Ricordiamo che nel 1099 i Crociati conquistarono
Gerusalemme e negli anni successivi conquistarono altri territori
importanti. Dopo aver preso Tiro nel 1124, tutte le città sulla costa della
Terrasanta si trovarono in mano cristiana fino ad Askalon, la città di
guarnigione più a sud dello stato dei crociati. Anche all’interno del paese i
Cristiani erano strategicamente in vantaggio, poiché controllavano
l’accesso al deserto e le importanti città musulmane di Aleppo, Hama e
Damasco erano tenute in scacco dalle loro postazioni più esterne.
Quando i Templari entrarono negli avvenimenti bellici, il regno dei
crociati aveva appena raggiunto la massima estensione territoriale della sua
storia, lunga duecento anni, ma la situazione militare in Terrasanta non era
certamente ideale, come potrebbe apparire.
I Cristiani avevano potuto consolidare una simile posizione per una serie
di circostanze propizie che avevano favorito la Prima Crociata e gli anni ad
essa successivi.
Il motivo principale del successo era rappresentato dal fatto che la
cristianità, unita dal fervore religioso, si era trovata di fronte a un nemico
politicamente diviso.
In campo musulmano i popoli del nord combattevano contro quelli del
sud, anziché aiutarsi vicendevolmente e anche gli emirati confinanti di
Mossul, Aleppo, Schaizar, Homs e Damasco avevano pensato più al
benessere dei propri piccoli territori che non alla solidarietà con i propri
Fratelli nella fede. Al contrario, in alcune occasioni si erano legati ben
volentieri ai Cristiani, contro un altro emirato nemico. In questo modo i
crociati poterono ottenere le loro conquiste con truppe visibilmente deboli.
Infatti, dopo la Prima Crociata, nella Gerusalemme appena occupata erano
rimasti 300 cavalieri e 2000 fanti!
Il vantaggio dei Cristiani stava, quindi, nella loro unità, contrapposta alla
litigiosità dei Musulmani. Questa concezione funzionò in modo crescente
durante i primi cinquant’anni del regno di Gerusalemme, dove Baldovino i
e Baldovino ii regnarono con grande autorità e tennero sotto controllo gli
interessi privati dei principi cristiani in modo che anche le contee
relativamente autonome di fatto coagissero.
Tuttavia nell’anno 1142 si verificò un tragedia inaspettata, poiché nel
lasso di pochi mesi morirono i due più importanti capi dell’Oriente
 

cristiano: l’Imperatore di Bisanzio e il re di Gerusalemme.
Due personaggi che in vita non si potevano soffrire, poiché entrambi
volevano avere un potere illimitato sulla Palestina, ma nonostante questa
rivalità non avevano in ogni caso lasciato scoppiare conflitti, in quanto
avevano riconosciuto che i cristiani avrebbero potuto restare in Terrasanta
solo con una forte unità.
Vi è però una nota a piè di pagina forse particolarmente importante:
entrambi i governanti morirono in seguito a un incidente di caccia. Quanta
saggezza nel regolamento dei Templari che proibiva la caccia a tutti i
confratelli!
In breve tempo i cristiani rimasero privi di capi e Imad Din Zengi, il
governatore di Mossul e Aleppo, approfittò del vuoto di potere. Zengi
aveva dapprima riunito nelle proprie mani la Siria del nord e già nel 1139
aspirava a unirvi il sud.
Il suo attacco alla musulmana Damasco era però fallito per l’abile
politica del re Fulvio di Gerusalemme che, non soltanto aveva intuito di
dover riunire i principi cristiani, ma anche di sfruttare le rivalità tra gli
emiri con un’intelligente politica di alleanze strategiche. In men che non si
dica era corso in aiuto di ciò che rimaneva degli alleati di Damasco e
Zengi era stato costretto a ritirarsi. In cambio Damasco aveva aiutato i
cristiani nel 1140 a cacciare le truppe di Zengi da Banyas (lungo il
percorso da Tiro a Damasco). Tuttavia dopo la morte del re Fulvio e
dell’imperatore di Bisanzio, i principi cristiani cominciarono a litigare, il
che si sarebbe dimostrato fatale di fronte alla minaccia di Zengi. Durante
una marcia di ritorno da una campagna militare, Zengi si trovò per puro
caso a passare con il suo esercito dalla fortezza di Edessa e tentò
semplicemente un colpo di fortuna.
Dei quattro stati emersi dalla Crociata, soltanto la contea di Edessa, con
la sua capitale omonima, si stendeva molto all’interno del paese fino
all’alto Eufrate. La governava il conte Joscelin ii che purtroppo non si
intendeva con il suo vicino Raimondo, principe di Antiochia. Il principe
Raimondo tardò ad andare in aiuto del suo vicino Joscelin sotto assedio; si
dice che attendesse truppe ausiliarie da Gerusalemme, probabilmente,
invece, non si mosse solo perché mal sopportava Joscelin. Il prìncipe
Raimondo si rassegnò ad accettare che una parte del regno dei Franchi, pur
strategicamente importante, cadesse sotto i Musulmani. Lasciato solo,
Joscelin non potè resistere a lungo e alla vigilia di Natale del 1144, Zengi
prese la fortezza, dopo un assedio di sole quattro settimane, e potè poi
conquistare la maggior parte della contea senza fatica. Per i Cristiani
 

questo rappresentò la prima grave perdita territoriale dalla fondazione
degli stati delle crociate, e tutti gli storici vedono nella caduta della contea
di Edessa il punto di svolta nella lotta armata per la Terrasanta. Anche se
lentamente, gli stati Musulmani, prima divisi, si riunirono per fare la
guerra ai Cristiani, ai quali nel periodo successivo vennero a mancare
sempre di più l’iniziativa politica e quella militare.
I Templari del resto approfittarono in modo straordinario della crisi che
si era innescata a partire dalla caduta di Edessa, poiché molti nobili
proprietari terrieri delle contee dei Franchi negli stati crociati temevano un
attacco congiunto di tutti i Musulmani e, colti dal panico, vendettero i loro
possedimenti. In mancanza di altri interessati, la maggior parte di questi
possedimenti andarono all’Ordine dei Templari, per un prezzo decisamente
basso.
Ma anche in Occidente i Poveri Fratelli trassero vantaggio dalla caduta
di Edessa, perché improvvisamente si presentarono innumerevoli aspiranti
reclute, inoltre giunsero all’Ordine molte donazioni anche se non se ne
conosce la vera misura.
Ad ovest la notizia della caduta di Edessa fu accolta con grande
preoccupazione, l’Occidente aveva ritenuto, erroneamente, decisamente
stabile la situazione in Palestina.
Soltanto la notizia del successo di Zengi risvegliò l’Europa dal suo sogno
poiché dimostrava quanto fosse realmente in pericolo l’eredità di Cristo e
in generale veniva visto, a ragione, in questa azione di Zengi solo l’inizio
di un attacco definitivo dei Musulmani ai luoghi santi.
II papa Eugenio in perciò, nel dicembre dell’anno 1145, emanò parecchie
Bolle che avevano per argomento la Crociata. In una di queste egli invitava
personalmente il re di Francia Luigi vii a mettersi in cammino verso la
Palestina, ma alla corte di re Luigi e in tutta la nobiltà francese
l’entusiasmo per questo invito rimase in ogni modo limitato.
Solo Bernardo di Clairvaux riuscì a produrre un rapido cambiamento di
opinione. Nel giorno dedicato alla corte, il brillante oratore tenne in
Vezelay la sua predica più famosa che trascinò tutta la nobiltà francese a
prendere la croce con entusiasmo: in questo memorabile giorno di Pasqua
dell’anno 1146 era nata l’idea della Seconda Crociata.
Nel periodo seguente Bernardo effettuò un giro di prediche attraverso la
Francia e più tardi anche nel regno tedesco, dove suscitò, di volta in volta,
un’euforia quasi incredibile per la Crociata sia nei potenti che nella gente
semplice. Nella tonante predica nel duomo di Speyer egli richiamò il
recalcitrante re tedesco Corrado iii ad adempiere finalmente ai suoi doveri
 

di re cristiano e, nonostante alcune difficoltà di politica interna, Corrado
prese la croce, rendendo la Seconda Crociata non più un’operazione
prevalentemente francese come la Prima, ma un pellegrinaggio armato di
tutto l’Occidente cristiano.
La stessa Penisola Iberica fu coinvolta nell’azione, poiché, in seguito alle
persistenti pressioni di Spagnoli e Portoghesi, il papa spiegò che la
“Reconquista” era da considerarsi allo stesso modo di una Crociata, per cui
la guerra contro i Musulmani in Spagna veniva equiparata alla guerra in
Terrasanta.
La Chiesa aveva promesso a tutti i partecipanti alla Prima Crociata una
completa indulgenza, quindi la remissione di tutti i peccati commessi fino
a quel momento.
Ora ampliò l’offerta, stabilendo che chi non fosse partito personalmente
per la Crociata, avrebbe potuto finanziare il viaggio di un’altra persona,
quindi equipaggiare un Crociato o fare doni a una comunità che si fosse
impegnata nella lotta contro gli Infedeli.
I Templari naturalmente erano (come i cavalieri dell’Ordine di San
Giovanni) proprio il modello di una simile comunità e raccolsero in breve
tempo un patrimonio enorme in offerte, così gli affari divennero
eccezionalmente fiorenti.
Bernardo di Clairvaux sottolineava in tutti i suoi appelli alla crociata,
quanto fosse conveniente la proposta: «Prendi il simbolo della Croce e per
tutto ciò che confessi con il cuore contrito, otterrai l’assoluzione
immediata». In questa strana offerta vi era remissione «la merce è a buon
mercato», non si doveva più andare a Gerusalemme in pellegrinaggio o,
addirittura, combattere contro i Musulmani.
Così i Templari, in Francia, si preparavano a inviare un grosso
contingente in Terrasanta. Il 27 aprile dell’anno 1147, sotto la presidenza
del Maestro di Francia Eberardo di Barres, 130 cavalieri si riunirono,
molto probabilmente, per pianificare la loro partenza per Gerusalemme.
Per quella riunione era giunto nientemeno che il papa Eugenio iii e in
quest’occasione egli concesse a tutti gli appartenenti all’Ordine il privilegio
di portare sempre la croce rossa sulla loro uniforme come simbolo del fatto
che i Fratelli si trovavano impegnati in una crociata permanente contro gli
infedeli. Prendere la croce era nel Medioevo un atto che portava con sé
conseguenze giuridiche immediate.
Chi “prendeva la croce” si impegnava con questo a partecipare a un
pellegrinaggio in Terrasanta, in cambio la Chiesa teneva la sua mano
protettiva su di lui e i suoi beni. Tuttavia il significato dell’atto si mutò nel
 

 
tempo e, nell’anno 1147, “prendere la croce” significava “andare alla
guerra”, guerra che poteva svolgersi nel vicino Oriente o altrove, infatti il
papa Eugenio in aveva dichiarato crociata anche la ” reconquista”, la lotta
contro i Musulmani della Penisola Iberica.
I Templari, proprio per la rapidità d’azione che possedevano e per la loro
presenza permanente su tutte le frontiere con i paesi islamici,
rappresentavano come nessun altro l’idea della crociata continua, tanto che
lo storico Alain Demurger li definisce proprio «i fiduciari dell’idea di
crociata».
Proprio perché i cavalieri Templari non tornarono subito in Occidente,
non appena furono arrivati salvi a Gerusalemme, il papa Eugenio iii
concesse loro il diritto di portare sempre la croce, la cosiddetta “croce a
zampa” dei Templari che ha quattro bracci della stessa lunghezza, più
larghi all’esterno che all’interno e il centro della croce è compatto.
In conformità al costume del tempo, per cui tutti i crociati si facevano
cucire una croce di stoffa sulla spalla sinistra, anche i Templari portarono
la croce a zampa rossa, che era riservata esclusivamente al loro Ordine, in
questa posizione, mentre più tardi i Templari dimostrarono con orgoglio la
loro appartenenza portando grandi croci rosse su netti, schiene e scudi.
 
 
 
La Seconda Crociata si risolse in un disastro totale e fin dall’inizio fu
giudicata un naufragio, anche perché sia il contingente francese, sia quello
tedesco, presero la strada lunga e pericolosa che passava da
Costantinopoli, come in occasione della Prima Crociata. Ma allora, nel
1096, Goffredo di Buglione non ebbe alcuna altra alternativa, poiché tutti i
porti in Oriente erano controllati dai Musulmani.
A quel tempo i Cristiani avevano subito perdite spaventose nella marcia
di avvicinamento e dei 330.000 partecipanti ne giunsero solo 40.000 in
Terrasanta, neppure l’ottava parte!
Ora però tutta la costa da Antiochia a Jaffa era in mano cristiana e non vi
era quindi nulla, in linea di massima, contro la traversata da Venezia,
Genova o Marsiglia per la Terrasanta se non un’autentica massa di gente da
trasportare.
Circa 240.000 uomini si erano messi in cammino – quasi tutti non
combattenti – uomini molto semplici che, in preda a entusiasmo religioso,
avevano preso la croce. Il contingente principale scelse il viaggio via terra,
 

semplicemente perché sarebbe stato troppo costoso e dispendioso (in fatto
di energie) organizzare navi per un quarto di milione di pellegrini.
Tra le montagne dell’Asia minore si giunse a una crisi drammatica in cui
poterono distinguersi militarmente i Templari che prendevano parte al
trasferimento.
In condizioni presumibilmente avverse, il contingente francese si
trascinava avanti senza grandi scorte di viveri, senza comandanti fidati,
circondato da una popolazione nemica e incalzato dai turchi. La gigantesca
marcia era male organizzata, i numerosi civili si comportavano in modo
indisciplinato, proprio come i cavalieri; il condottiero dell’avanguardia,
Goffredo di Rancogne, ripiegò troppo in fretta nelle gole di Chones
(nell’odierna Turchia) e per i Turchi fu facile dividerlo dall’armata che
avrebbe dovuto proteggere. Fitte nuvole di frecce si abbatterono sul grosso
del seguito, scarsamente difeso ed esplose il panico.
Solo i Templari mantennero il sangue freddo e cominciarono a
organizzare la difesa. Un testimone oculare riferisce: «Il Maestro dei
Templari Eberardo di Barres, uomo rispettabile per il suo carattere,
timorato di Dio e grande esempio per tutti i cavalieri, tenne testa ai Turchi
con l’aiuto dei suoi Fratelli che con saggezza e coraggio vegliarono sulla
difesa di ciò che apparteneva loro e protesse anche con tutta la sua forza e
vigorosamente, ciò che apparteneva agli altri» (Eudes di Deuil citato da
Demurger, p. 99).
Impressionato da questa energia, il re trasferì il comando supremo di
tutta l’armata ai cavalieri Templari.
Un Templare belga di nome Gilberto divise gli uomini armati in gruppi
da 50, che venivano sempre guidati da un Povero Fratello e sistemò
ognuno di questi gruppi in un luogo ben preciso, da cui potevano ritirarsi
solo se avessero ricevuto un ordine esplicito.
I civili, che altrimenti gradivano poco la disciplina, come del resto gli
altri cavalieri (che, nella loro presunzione, facevano solo ciò che loro
aggradava) si sottomisero per necessità agli ordini degli unici
professionisti, i Templari. In seguito i Fratelli tennero unita la moltitudine
disordinata dei pellegrini, fecero proteggere i Franchi dagli scudi
triangolari dei fanti, così ciò che rimaneva della spedizione 
arrivò sano e salvo attraverso le montagne, dopo Antalya. Un gruppo
numericamente insignificante di Templari salvò dunque, con il proprio
comportamento prudente, la maggior parte dell’esercito dei crociati
francesi e riuscirono in questo perché comandavano con autorità doppia,
erano infatti tra i pochi soldati di professione nella massa e agivano con
 

sangue freddo, con ponderazione, sapendo ciò che facevano.
Tra l’altro i Fratelli erano molto rispettati per la loro profonda fede e i
Cristiani, fortemente minacciati dai Musulmani, interpretarono la loro
situazione d’emergenza come una punizione di Dio per i loro peccati.
Le capacità militari, ma anche la santità della loro missione, conferirono
perciò ai Templari un’enorme autorità presso gli altri partecipanti alla
Crociata. Ubbidire ai Fratelli rappresentava agli occhi degli uomini la via
diretta per la salvezza dell’anima: «per la remissione dei loro peccati essi
ponevano il loro destino nelle mani dei Poveri cavalieri di Cristo» scrive il
cronista Eudes di Deuil (citato da Demurger, p. 100).
Per ben due volte egli fa cenno alla «fratellanza in cui tutti si uniscono ai
Fratelli Templari», come se sotto il comando dei Templari tutta l’armata
dei crociati fosse diventata, per un breve periodo di tempo, una parte
dell’Ordine.
Eberardo di Barres era l’eroe del momento e i Fratelli non scordarono i
suoi meriti e nell’anno 1149, quindi solo due anni dopo, scelsero lui come
successore del Maestro Roberto di Craon, appena defunto.
L’episodio tra le montagne dell’Asia minore dimostra in modo eloquente
che influenza decisiva potesse avere sulla forza di penetrazione di un’intera
armata un numero infinitamente ridotto di uomini. Dopo l’arrivo ad
Antalya, i cavalieri Templari scomparvero nuovamente nella massa e il re
francese Luigi vii riprese il comando, il che si sarebbe dimostrato un fatale
errore.
Anche i Crociati tedeschi avrebbero avuto bisogno con urgenza di una
severa guida militare, poiché sotto la conduzione del re Corrado iii, già nel
giugno del 1147, durante la marcia di avvicinamento, erano stati annientati
nella battaglia presso Dorylàon (nell’odierna Turchia).
Nonostante tutti i disastri, parte di entrambe le armate di crociati
raggiunsero infine, via mare, la Terrasanta. Gli ultimi tedeschi rimasti
giunsero solo in nove da Costantinopoli a Gerusalemme, mentre il re
francese si imbarcò con una parte delle sue truppe da Antalya per
Antiochia e vi giunse nella primavera del 1148.
Da Antiochia era stato programmato inizialmente un attacco ad Aleppo,
che si trovava in mano del più pericoloso nemico della Francia, Nuredin.
Infatti Zengi, il conquistatore di Edessa, era morto due anni prima,
rendendo le cose più facili per i Cristiani. La soddisfazione non era però
durata durata a lungo, poiché Nuredin, uno dei suoi figli, aveva seguito le
sue orme ed era divenuto la figura chiave nella lotta sviluppatasi per la
Palestina.
 

Nel luglio del 1148, il re di Francia Luigi vii commise un fatale errore
tattico quando improvvisamente decise di levare le tende da Antiochia per
andare a Gerusalemme a pregare sul Santo Sepolcro. Evidentemente in lui
il pellegrino aveva preso il sopravvento sul combattente, ed era
assolutamente dell’idea che si dovesse occupare Damasco, anziché
combattere per un principato di seconda categoria, come Edessa.
A Gerusalemme si imbatté nel re tedesco Corrado, che nel frattempo era
a sua volta arrivato e i due eserciti, i Templari, i cavalieri di San Giovanni
e i cavalieri del regno di Gerusalemme, si mossero insieme per occupare
Damasco. A loro si unì anche l’unico alleato musulmano dello stato dei
Franchi!
Nuredin esultò e con entusiasmo si precipitò in aiuto dei rivali
minacciati di Damasco. Ma non si arrivò mai ad azioni militari serie
poiché la massa dei Cristiani, messa insieme in qualche modo, era così
divisa al suo interno che l’assedio dovette essere interrotto.
È possibile che la scaltra tattica di Nuredin l’abbia portato a innescare
per primo la lite tra i Cristiani con una campagna mirata. Egli non aveva
utilizzato però in modo palese alcuna forte spinta esterna, in modo che
tutte le parti cristiane finissero per sovrapporsi e la Crociata, prima ancora
di cominciare, finisse realmente.
Tedeschi, Francesi, Templari e cavalieri di San Giovanni fecero a gara
con reciproche accuse di responsabilità, perché alla fine occorreva un
capro espiatorio. Nessuna delle parti fu risparmiata dai rimproveri e i
Templari non fecero eccezione. In particolare, nel regno tedesco, molti
commentatori cercarono di dare la colpa del disastro agli ordini religiosi
cavallereschi e rimproverarono loro persino di essersi fatti comprare dai
Musulmani.
Il cronista Giovanni da Wùrzburg riteneva responsabili, per l’insuccesso
davanti a Gerusalemme, soltanto i Templari e li accusava di aver
patteggiato con i Musulmani e di aver sabotato di proposito l’azione contro
Damasco. Naturalmente il cronista, con simili accuse, trovava orecchie
disposte ad ascoltare: l’Ordine dei Templari infatti era e rimase estraneo ai
Tedeschi. Essi lo guardavano con sospetto come unità elitaria francese o,
ancor peggio, come un’organizzazione che perseguiva i propri interessi di
potere in Europa e in Palestina.
Così i Templari divennero nel regno tedesco i “babau” della Seconda
Crociata e Corrado iii si vide addirittura costretto a intervenire
pubblicamente per la riabilitazione dei Poveri Fratelli, che in realtà non
avevano nulla da rimproverarsi per il fallimento della Crociata, poiché i
 

responsabili erano stati altri.
Anche Luigi vii condivideva questa opinione e in una lettera al suo
cancelliere gli ordinava di pagare subito i debiti del regno con i Templari,
poiché i Fratelli lo avevano appoggiato in Terrasanta in modo tanto
energico che senza di loro non avrebbero potuto rimanere neppure un
giorno in quei paesi.
Ma come si era potuti arrivare alla decisione sbagliata di aggredire
Damasco, in assoluto l’unico alleato musulmano? Corrado iii, Luigi vii e
Baldovino iii, il re sedicenne dello stato crociato, il patriarca di
Gerusalemme e i due grandi Ordini cavallereschi presero le decisioni
insieme.
I Templari erano d’accordo sull’attacco? Presumibilmente avevano
grosse riserve, che esternarono però con discrezione e la ragione si chiarirà
più avanti. Infine decisero comunque di partecipare all’azione con impegno
incondizionato pur ritenendola insensata. Chi era dunque colpevole
dell’assurda risoluzione? Si stenta a crederlo, ma forse fu lo stesso re dello
stato crociato, Baldovino iii, il giovane monarca che voleva assolutamente
ottenere una grande vittoria militare per uscire finalmente dalla tutela della
madre Melisenda.
I Templari si trovarono dunque in imbarazzo nel prendere la decisione di
votare contro l’attacco, poiché significava prendere posizione contro
Baldovino e questo volevano evitarlo: infatti, fino al 1153, quando il
contrasto tra il giovane re e sua madre non fu infine risolto, i
rappresentanti dell’Ordine cercarono di tenere una posizione defilata, senza
parteggiare per una delle due parti.
La condotta di Baldovino, pur essendo un “indigeno”, mostrava lo stesso
atteggiamento veemente, che si manifestava solo nei crociati 
appena arrivati, la maggioranza dei capi dei Cristiani residenti in
Terrasanta pensava in dimensioni di politica pratica (o realpolitik)  e
cercavano di assicurarsi la sopravvivenza per un lungo periodo, mentre
l’Occidente, a distanza di sicurezza, chiedeva coerenza ideologica e vietava
qualsiasi contatto amichevole con i Musulmani.
Coloro che erano appena arrivati non avevano in fin dei conti affrontato
il viaggio dall’Europa solo per tenere le mani in grembo e stipulare pigri
armistizi, intendevano combattere con gli infedeli e anche subito, perciò
accusavano tutti gli altri, che erano di opinione diversa, di codardia e di
tradimento.
Queste accuse vennero fatte persino all’interno dell’Ordine e i Templari
che erano appena arrivati con il contingente principale dell’armata dei
 

Crociati, premevano per andare in battaglia, proprio come tutti gli altri
partecipanti.
Sarebbe stato compito dei Templari, più esperti dell’Oriente, di
indirizzare questa energia rabbiosa e cieca, verso un obiettivo utile come la
riconquista di Edessa. Aggredire Damasco era invece una decisione
insensata dei re Luigi e Baldovino e l’unico rimprovero che si può muovere
al comportamento sia dei Templari, sia dei cavalieri di San Giovanni in
questa circostanza, sta nel non averli dissuasi più energicamente da questo
piano.
Non si può attribuire questa decisione sbagliata agli Europei che erano
appena arrivati, in quanto non erano stati informati meglio. Tuttavia, da un
diverso punto di vista, l’Occidente aveva una buona parte di colpa nel
fallimento della Crociata. Infatti non mandò in Terrasanta ciò che
occorreva, cioè un esercito di forti combattenti e contadini che volessero
colonizzare stabilmente il paese, ma solo ciò che era al momento
disponibile in Occidente, cioè una massa incontrollabile di pellegrini senza
capacità militari.
Proprio Bernardo di Clairvaux, il più importante portavoce dell’Ordine,
finì in quest’occasione sotto tiro. Con piena ragione egli fu accusato di aver
mobilitato con le sue prediche esclusivamente masse di semplici pellegrini
che, fin dall’inizio, erano stati solo d’impaccio alla Crociata.
Nella sua illimitata fiducia in Dio, egli aveva semplicemente esortato
chiunque ad andare in Terrasanta, senza differenza, non importava se
fossero adatti o no alla lotta.
A torto egli si appellava, dopo il fallimento dell’azione, alla «decisione
imperscrutabile di Dio» e al fatto che in fin dei conti il papa 
stesso avesse esortato, in prima persona, alla Crociata. Sicuramente la
situazione di crisi non danneggiò i Templari, anche se la Crociata era
fallita e il suo più influente protettore (Bernardo di Clairvaux) aveva subito
una grave perdita di immagine in Europa; al contrario, la reputazione dei
Templari in Occidente (escluso il regno tedesco) crebbe enormemente,
perché l’Ordine aveva dimostrato nel corso di tutta la campagna coraggio e
disciplina, al contrario di tutte le altre parti dell’esercito crociato.
In ogni caso la gioia dei Poveri Fratelli, come si può ben comprendere,
fu turbata, e inoltre la situazione militare appariva oscura e la lite tra il re
di Gerusalemme e sua madre costringeva i Cristiani a dividersi e a
schierarsi con una delle due parti in lotta.
Prima di tutto il Gran Maestro Eberardo di Barres era disperato per il
fatto che una lite familiare tanto ridicola potesse mettere a repentaglio
 

 
seriamente lo stato crociato e l’eroe delle montagne dell’Asia minore, era
frustrato, anche perché già nel 1152 era stato rimosso dalla sua carica di
Gran Maestro conferitagli solo tre anni prima.
Egli chiuse la sua vita nell’isolamento del convento di Clairvaux e quale
suo successore i Templari elessero Bernardo di Trémelay che però potè
gioire solo brevemente del suo nuovo titolo, poiché già l’anno successivo,
1153, il destino gli fu fatale nell’assalto di Askalon.
 
 
 
Askalon, il punto di difesa più a nord del regno egiziano, rappresentava
una minaccia costante per Gerusalemme a causa della sua posizione,
strategicamente favorevole, sul mare, proprio al confine dello stato franco.
Dopo il fallimento della Seconda Crociata, Baldovino dedicò le sue
energie alla conquista di questa città molto fortificata. Per riuscirvi egli
doveva, per prima cosa, tagliare fuori completamente l’avamposto
difensivo. A nord e a est di Askalon vi erano già tre fortezze, comunque,
che avevano il compito di difendere la Palestina cristiana e una nave al
comando di Gerardo di Sidone navigava lungo la costa per sbarrare il
passaggio dal mare alla città.
Ai Templari il re assegnò un ruolo chiave, affidando alla loro
responsabilità la fortezza di Gaza, appena ripristinata, a sud della città e
direttamente lungo le strade principali che collegavano Askalon 
all’Egitto. All’alba del 16 agosto 1153 i Cristiani suonarono le trombe
per l’attacco ad Askalon e i Templari, secondo la loro massima «primi
all’attacco, ultimi nella ritirata», erano là davanti a tutti. I Franchi
avanzavano con una possente torre da assedio contro le mura della città.
I difensori però riuscirono a incendiarla, ma all’improvviso cambiò il
vento e respinse le fiamme sulla città.
Si aprì una breccia e quaranta cavalieri Templari si precipitarono
all’interno, guidati dal loro Gran Maestro Bernardo di Trémelay, ma quei
pochi uomini non furono in grado di tenere la posizione e quindi il
tentativo di tenere libera la breccia, per i guerrieri che seguivano, fallì.
Non vi furono altri sfondamenti e tutti i quaranta cavalieri furono uccisi
e appesi alle mura della città, in segno di scherno per gli assedianti. Inoltre,
per la seconda volta in un anno, i Templari persero il loro Maestro.
In ogni caso la città cadde sei giorni più tardi. Lascia stupiti che i
Templari non abbiano raccolto per questa azione eroica alcuna lode, ma
solo le più aspre critiche.
 

Il cronista Guglielmo di Tiro infatti presenta le cose come se altri
Templari avessero chiuso la breccia, di proposito, dietro ai loro Fratelli,
per poter saccheggiare indisturbati la città. Arroganza e cupidigia
sarebbero quindi state le ragioni per cui i quaranta si precipitarono, soli,
nella fortezza.
Secondo Guglielmo, i Templari avrebbero impedito quel giorno la
vittoria, già a portata di mano, a causa del loro egoismo. In pratica tutti gli
storici ripresero, in seguito questa versione dei fatti, nonostante non sia
assolutamente degna di fede.
Come avrebbero potuto pochi uomini compiere saccheggi in una
fortezza, tra selvaggi combattimenti e circondati dai Saraceni? Quanto
bottino, inoltre, avrebbero potuto portar fuori i quaranta uomini,
appesantiti dalle loro armature? Perché poi i Templari avrebbero dovuto
rischiare, così sconsideratamente, la loro vita se, in ogni caso, non
avrebbero potuto tenere i tesori per sé, ma consegnarli all’Ordine?
Benché non sia degna di fede, questa versione dell’episodio viene
sempre ripetuta, per dimostrare la cupidigia dell’Ordine: si tratta di un
esempio inopportuno per un’accusa di per sé totalmente ingiustificata.
Nei feudi dell’Occidente i Poveri Fratelli pensavano innanzitutto
all’accrescimento del patrimonio dell’Ordine.
Come abbiamo già detto, esercitavano una “dolce pressione” quando si
trattava di donazioni, eredità o di ottenere rendite a favore dell’Ordine. Per
lo più facevano valere i loro diritti con l’aiuto dei tribunali, ma di tanto in
tanto non si facevano scrupolo di usare la forza bruta.
Un esempio estremo viene dalla Scozia. Guglielmo di Halkeston affidò
la proprietà di Halkeston all’Ordine fino alla sua morte, poi avrebbe dovuto
tornare a sua moglie. Ma dopo la morte di Guglielmo, il Maestro
provinciale del Tempio, l’inglese Brian di Jay, anziché restituire la tenuta
tolse alla vedova anche la casa.
Quando suo figlio fece pressione con troppa veemenza per la
restituzione, Brian di Jay lo fece uccidere.
Questo caso rappresenta certo un’eccezione, tuttavia si può in linea di
massima sostenere che i Fratelli non erano certo delicati quando si trattava
della tutela e dell’accrescimento del loro patrimonio che, in fondo, serviva
per uno scopo santo, quale il finanziamento della lotta contro i Musulmani.
Ormai i Poveri Fratelli avevano accumulato una tale ricchezza che
potevano far fronte a tutte le loro spese belliche. Non solo rappresentavano
l’unico esercito stabile (insieme all’Ordine di San Giovanni) nel regno
franco, ma si finanziavano del tutto autonomamente ed erano
 

completamente indipendenti da principi e re laici, cosa che non piaceva
naturalmente a questi ultimi.
I Fratelli organizzarono direttamente anche il rifornimento di reclute,
poiché avevano un costante bisogno di nuove truppe, in quanto negli anni
successivi alla Seconda Crociata contarono le peggiori perdite della loro
storia.
Disprezzando la morte si gettavano in ogni combattimento e molti
caddero o furono fatti prigionieri, il che non era certo meglio, perché
l’Ordine non pagava alcun riscatto per i suoi cavalieri e questa regola
valeva senza eccezioni.
Un Maestro prigioniero spiegava «io posso solo dare la mia cintura e il
mio pugnale come riscatto», egli avrebbe quindi solo potuto promettere
che non avrebbe mai più combattuto ma non far eseguire un pagamento.
Un Gran Maestro infatti, che fu liberato sulla parola, offrì all’Ordine le
sue dimissioni e tornò al grado di Grande Ispettore non 
combattente, ma generalmente però ai nemici non bastava una simile
promessa e il Gran Maestro rimaneva prigioniero.
Fu così che Odo di Saint Amand preferì morire di fame in una prigione
di Damasco, anziché farsi riscattare dai Fratelli. Questa voce si sparse
presto fra i Saraceni che non vollero più prendere prigionieri e, a partire
dal 1157, all’incirca, pugnalavano i Templari feriti direttamente sul campo
di battaglia.
Ai membri dell’Ordine di San Giovanni, non andava certo meglio.
Saladino fece giustiziare dopo una battaglia 230 Templari e un numero
imprecisato di cavalieri di San Giovanni con queste parole: «Voglio
ripulire la terra da queste due infami confraternite, (…) che non
abbandonano mai la loro inimicizia e non sono di alcuna utilità come
schiavi».
Di fronte a queste perdite enormi, l’Ordine poteva mantenere le sue forze
al massimo di 500 cavalieri e 5000 scudieri, solo perché una massa
costante di nuove reclute migrava dai paesi europei a Gerusalemme.
Buona parte dei Templari in Terrasanta era dunque composto da uomini
arrivati relativamente da poco: si può discutere sul fatto se fossero la
maggioranza o la minoranza.
Alcuni storici ritengono i nuovi arrivi un decisivo rafforzamento, poiché
non erano ancora stati indeboliti dal clima e dalle inconsuete condizioni di
vita del vicino Oriente, ma al contrario, anche i Fratelli già acclimatati
potrebbero essere divenuti combattenti più efficaci, semplicemente perché
erano già abituati al caldo e alle malattie.
 

 
Quel che è certo è che i nuovi arrivati influenzarono il clima all’interno
delle sedi dei Templari.
Con la loro ambizione, spesso fanatica, di andare in battaglia contro gli
infedeli, trascinarono con sé gli altri Fratelli, che non volevano lasciarsi
accusare di codardia o perfino di tradimento. «Nessun compromesso», la
loro massima suonava così, e quindi i Templari non adattarono mai il loro
modo di costruire e di vivere alle esigenze orientali, proprio al contrario
dei  Poulains,  i coloni cristiani che copiarono molto presto il modo di
costruire delle popolazioni indigene, adatto al clima. Quando i Poulains
assunsero anche numerosi altri usi mussulmani, i Templari ne ebbero
abbastanza e li insultarono come persone senza patria, come «uomini che
hanno ereditato la terra, ma non i costumi dei loro padri».
 
 
 
In seguito alla Crociata finita male, l’Occidente si allontanò, deluso, da
Gerusalemme e i circa 150.000 Cristiani in Terrasanta rimasero di nuovo
totalmente abbandonati a se stessi.
Le due sole truppe sempre pronte a combattere in Palestina rimasero
quelle dei Templari e dell’Ordine di San Giovanni, e questi Ordini erano
anche i soli che mantenessero un saldo e duraturo legame con l’Europa, da
dove ricevevano rifornimenti d’oro e di uomini. Entrambe le confraternite
rappresentavano quindi la spina dorsale militare nello stato dei crociati e i
dignitari del paese, per primo re Baldovino iii, concordavano tutte le più
importanti azioni belliche con loro.
Anche dagli scritti storici si può chiaramente dedurre la crescente
influenza degli Ordini cavallereschi religiosi, circa a partire dalla caduta di
Askalon (1153), perché vengono sempre più spesso citati nelle cronache.
Con la conquista di Askalon, i Cristiani avevano ottenuto una vittoria
importante, i confini a sud del regno erano diventati più sicuri, la lotta
intestina tra Baldovino e sua madre si era risolta a favore del re. A est,
però, la situazione era preoccupante poiché nel 1154 Nuredin aveva
conquistato Damasco e quindi minacciava tutti i confini del regno da quel
lato. Ora che Baldovino governava sovrano, potè dimostrare il suo talento
diplomatico, davvero grande, e fino alla sua morte, nell’anno 1163, egli
mantenne il fragile equilibrio di forze tra la cristiana Bisanzio, la Siria e
Damasco governate da Nuredin e lo stato crociato, così che, in quel
periodo, il regno potè godere di relativa tranquillità.
 

A Baldovino, che non aveva figli, successe sul trono suo fratello
Amalrico che si diede subito da fare per distruggere il fragile equilibrio di
forze costruito dal suo predecessore. Con il suo consiglio di corte decise di
attaccare il ricco Egitto, che era lacerato da una lotta di politica interna per
la carica di Gran Visir e si poteva a stento difendere.
Per poter valutare appieno la stupidità di questa decisione, occorre
riflettere sulla situazione strategica dello stato crociato. Inizialmente si
aveva a che fare con il regno di Nuredin a nord, con quello amico di
Damasco a est e con il debole Egitto a sud. Durante la 
Seconda Crociata i Cristiani avevano attaccato Damasco, che aveva
chiamato subito in aiuto Nuredin e, nel 1154, era stata conquistata da
quest’ultimo. Ora, a nord e a est vi era un potente nemico del regno franco,
solo i confini a sud erano relativamente sicuri. Il consiglio di corte, anziché
difendere il paese con tutte le sue forze da Nuredin, decise di aprire un
altro fronte.
Nel 1163, dunque, i Cristiani si diressero in Egitto, con l’intenzione di
sfruttare le condizioni del paese, paragonabili a quelle di una guerra civile,
e possibilmente fare un ricco bottino. L’inevitabile accadde e Schawar, uno
dei pretendenti alla carica di Gran Visir in Egitto, inviò subito una
richiesta d’aiuto a Nuredin, che non si fece pregare e inviò il suo generale
Schizkuh con alcune truppe scelte e aiutò Schawar a ottenere la carica di
Gran Visir.
Non appena però ebbe occupato la carica, Schawar si sentì minacciato
dalle truppe siriane di Schizkuh e chiamò i Franchi in aiuto che, pur non
volendo lasciarsi invischiare nei giochetti di potere del Visir, non volevano
però, d’altro canto, lasciare l’Egitto in mano siriana.
Nel 1164 e 1167 i Cristiani si videro quindi costretti a intervenire a
fianco di Schawar nella lotta per la supremazia in Egitto.
Poiché però né i Siriani né i Franchi riuscivano ad avere la meglio, le
parti si accordarono per un ritiro bilaterale. In questo modo i Cristiani
approfittarono della loro avventura egiziana e il nuovo Gran Visir pagò un
tributo annuale di 100.000 dinari, mentre al Cairo rimase una guarnigione
di Franchi per provvedere alla riscossione di questa somma. Il paese era di
fatto diventato una specie di protettorato franco.
Il merito di tutto ciò va anche attribuito ai Templari, che avevano preso
parte, naturalmente, a tutte e tre le spedizioni sul Nilo e avevano perso 600
cavalieri e 12.000 scudieri (J. Riley-Smith, citato da Demurger, p. 113).
Di certo il cronista esagera su questo punto, tuttavia i numeri indicano
che l’Ordine aveva subito enormi perdite.
 

Anziché però accontentarsi di nuovi equilibri conquistati a sud, alcuni
membri del consiglio reale a Gerusalemme premevano per una soluzione
definitiva in Egitto, in particolare il Siniscalco del regno, Milo di Plancy, e
il Gran Maestro dell’Ordine di San Giovanni, Gilberto di Assalit,
sostenevano che il Gran Visir non rispettava il pagamento dei tributi e che
stringeva patti con i Siriani. Il loro intento 
era di prendere questo pretesto per marciare sull’Egitto. Il Gran Maestro
dei Templari, Bertrando di Blanquefort, mise in guardia decisamente da
una simile operazione, in quanto non riusciva a vedere alcun complotto e il
Gran Visir adempiva completamente ai suoi doveri nei confronti dei
Franchi. Aggredire gli Egiziani con la falsa accusa di infedeltà avrebbe
perciò significato, secondo lui, rompere i patti.
Prima di tutto, Bertrand di Blanquefort metteva in guardia sul fatto che i
Siriani sarebbero intervenuti subito di nuovo, non appena i Cristiani si
fossero messi in marcia verso l’Egitto.
Persino Guglielmo di Tiro, che di solito criticava sempre l’Ordine, loda
il Gran Maestro per la sua saggezza: «Il Maestro e gli altri Fratelli non
vogliono immischiarsi in questa faccenda (… ).Vedono che il re non ha
buoni motivi da addurre per fare la guerra contro gli Egiziani e contro gli
accordi che erano stati convalidati con il suo giuramento».
Soltanto una volta Guglielmo accusò di cupidigia non i Templari ma
l’Ordine di San Giovanni, in realtà, al contrario dei Poveri Fratelli, gli
Ospedalieri (Ordine di San Giovanni), i loro eterni rivali, si impegnarono
in prima linea sempre per una sola parte. Il re Amalrico i, infatti, li aveva
fatti sperare in una seducente ricompensa e un patto, concluso nell’ottobre
del 1168, prometteva all’Ordine di San Giovanni, per la sua partecipazione,
beni e le entrate di undici città sparse per tutto l’Egitto.
In gran fretta l’armata si diresse a sud, perché Amalrico i, per
imperscrutabili motivi, si era deciso tanto in fretta per la spedizione che
non aveva pensato di attendere l’incontro con la flotta bizantina,
assolutamente necessaria per effettuare un blocco navale.
Il risultato della campagna fu un fallimento su tutta la linea, i Siriani
attaccarono per difendere i propri interessi sul Nilo, Schirkuh conquistò il
Cairo e i Cristiani furono cacciati dall’Egitto. Due mesi dopo, nel marzo
del 1169, Schirkuh morì, ma questo fatto non fu però un motivo per
prendere fiato, anzi, si verificò proprio il contrario.
A lui infatti successe suo nipote Saladino, che sarebbe diventato il
nemico più spavaldo con cui i Franchi avessero mai avuto a che fare. Dopo
la morte di Nuredin, nel 1174, Saladino riunì sotto il suo comando l’intero
 

mondo islamico. Lo stato crociato era ora circondato da un unico regno
musulmano, militarmente molto forte.
Ma tutto non era ancora perduto e, mentre i cavalieri dell’Ordine di San
Giovanni andavano verso la loro avventura egiziana, i Templari tentavano
di rendere più sicura la loro posizione al nord. Negli stati di Tripoli e di
Antiochia possedevano estese proprietà in cui regnavano sovrani senza che
avessero reale diritto di parola e per il re Almarich questa potenza dei
Templari era una spada nel fianco, poiché vedeva minacciata la propria
sovranità su tutto il paese.
Per due volte costrinse i Poveri Fratelli a un conflitto aperto, per
dimostrare loro chi fosse il vero re in Palestina e, nell’anno 1165, fece
impiccare dodici Templari accusandoli di aver lasciato ai Siriani una
fortezza vicino a Tiro, senza opporre molta resistenza. Nel 1173, poi, il re
prese d’assalto la sede dei Templari a Sidone per arrestare personalmente il
cavaliere Walter di Mesnil, accusato di aver aggredito una delegazione di
Assassini con cui Amalrich aveva appena concluso un accordo.
Gli Assassini erano una potente e violenta setta che si era diffusa in Iran,
Siria e Palestina.
Il loro nome deriva dall’arabo e significa “mangiatori di hascisc”, il loro
“segno di riconoscimento” era l’omicidio politico: bastava un loro
avvertimento per far tremare i signori, sia Cristiani, sia Musulmani.
Entrambe le azioni del re cozzavano in modo evidente contro le leggi
esistenti, ma ciò gli era del tutto indifferente, poiché voleva dare un
esempio e dimostrare ai Templari, in modo inequivocabile, che non
dovevano render conto solo al papa, ma “cortesemente”, anche al re di
Gerusalemme.
Probabilmente i Fratelli dell’Ordine spesso meritavano davvero una
lezione di umiltà, infatti avevano sempre più fama di essere arroganti. I
cronisti li definivano quasi monotonamente “superbi” e “arroganti” e per
l’ultimo Gran Maestro, al tempo di Amalrich, Odo di Saint Amand (1171-
1180), usarono ingiurie come “smargiasso e fanfarone” (Demurger, p.
118).
D’altronde, se l’aggressione agli inviati degli Assassini sia stato lo
scivolone di un comandante troppo zelante o un’azione pianificata dalla
direzione dell’Ordine, non è possibile chiarirlo neppure oggi. In ogni caso
il re doveva avere il sospetto che, irridendo il potere del re, «cuocevano le
loro zuppette di politica estera» e, uccidendo i membri della delegazione,
impedivano il patto di Gerusalemme con gli Assassini.
 
 

 
 
 
I Templari raggiunsero il periodo di maggior ascendente sotto il loro
Gran Maestro Gerardo di Ridefort (1185-1191) che, con un intrigo
condotto con astuzia, aiutò il suo candidato preferito a salire sul trono di
Gerusalemme: Guido di Lusignan, il cui predecessore, Baldovino v, era
morto all’improvviso nel 1186.
Il nuovo re sapeva bene chi ringraziare per la sua posizione e fece tutto il
possibile per ricambiare. Il cronista Ernoul riferisce che «il re non osava
contraddirlo perché lo amava e lo temeva, poiché gli era stato maestro».
In questo modo Gerardo di Ridefort aveva la possibilità di pilotare la
politica del regno quasi a suo piacimento. Purtroppo usò questa forza solo
per causare danni al regno.
Gerardo di Ridefort era giunto in Terrasanta come crociato nel 1170,
provenendo dalle Fiandre. Dopo un periodo trascorso al servizio di un
principe, divenne Maresciallo del regno di Gerusalemme. Più tardi si
ammalò gravemente e curò i suoi mali in una sede dell’Ordine, al quale
aderì dopo la sua guarigione. La sua fu una carriera rapida, già nel 1183
era Siniscalco e nel 1185 il Consiglio lo scelse come Gran Maestro. Deve
probabilmente aver avuto una condotta arrogante, come il già citato Odo di
Saint Amand, perché i cronisti lo descrivono come un avventuriero e uno
smargiasso, la cui spavalderia rasentava la pazzia. Lo storico Demurger
avanza con cautela il sospetto che la malattia per cui Gerardo si era curato
presso i Templari avesse qualcosa a che fare con la sifilide, da cui a quel
tempo non si poteva guarire e il cui ultimo stadio porta alla pazzia
(Demurger, p. 129).
Questa ipotesi contrasta però con il fatto che Gerardo di Ridefort, già
all’inizio del suo periodo in Terrasanta, aveva dimostrato questo folle
coraggio e non solo nei suoi ultimi anni di vita.
All’inizio del 1187, in Terrasanta regnava di nuovo la pace e Cristiani e
Siriani si attenevano alla tregua stipulata due anni prima. Fu allora che
Rinaldo di Chàtillon, il signore cristiano della Transgiordania, attaccò a
sorpresa una numerosa carovana di Musulmani. Saladino, che nel
frattempo aveva riunito nelle sue mani Siria ed Egitto, pretese
soddisfazione. Rinaldo rifiutò e Saladino, per vendicare questa ingiustizia,
chiamò alla Guerra Santa contro i 
Cristiani tutto il mondo musulmano. Il suo appello ebbe grande
risonanza, gli stati musulmani riunirono il più grande esercito della loro
storia e assediarono la città di Tiberiade.
 

Gerusalemme reagì inorridita, fu subito chiamato alle armi l’intero
esercito, tolto a città e fortezze ogni combattente non necessario. Una forza
da combattimento molto impotente si radunò così, per la parte cristiana,
vicino alle sorgenti di Saffurya, circa a una giornata di marcia da
Tiberiade. Il principe Raimondo di Tripoli consigliò in modo pressante di
fermarsi prima di tutto in una zona ricca di acqua e scelse questa tattica per
due buoni motivi: in primo luogo perché la cavalleria, sotto il sole cocente
di luglio, aveva soprattutto bisogno di un rifornimento assolutamente certo
di acqua, inoltre sperava che il mucchio variopinto messo insieme dai
Musulmani avrebbe presto mostrato segni di rottura.
Il consiglio apparve saggio e i principi cristiani decisero di seguirlo. Ma
durante la notte, Gerardo di Ridefort, che odiava in modo viscerale
Raimondo per motivi personali, persuase re Guido, inesperto di faccende
militari, a gettare al vento il consiglio di Raimondo e a dirigersi subito su
Tiberiade. Quindi, il 3 luglio, re Guido impartì alla sua stupita armata, il
comando di attacco.
Ben presto il grosso delle forze si trovò sotto tiro: gli arcieri a cavallo di
Saladino fecero piovere sui Cristiani nuvole di frecce ed evitarono con
astuzia la battaglia aperta, per cui ai Cristiani non rimase altro da fare che
ritirarsi, faticosamente e lentamente nella calura rovente, per raggiungere
la sorgente di Kafr Hattin a metà strada per Tiberiade.
Il giorno successivo la tortura si ripetè e quando il morale aveva
raggiunto il punto più basso e un gran numero di uomini e animali erano
morti di sete, allora le truppe di Saladino attaccarono. Ma di nuovo
evitarono il confronto diretto e incendiarono invece i cespugli che
circondavano l’esercito cristiano, per cui i fanti cristiani fuggirono disperati
sui “corni di Hattin”, una catena montuosa sulla quale stava la tenda del
loro re Guido. La cavalleria rimase senza protezione e fu massacrata. Dei
30.000 Cristiani circa la metà cadde, gli altri furono fatti prigionieri da
Saladino, tra gli altri anche il re e Gerardo di Ridefort.
Tutti i 230 Templari che erano capitati in suo potere furono subito
giustiziati, ma risparmiò Gerardo di Ridefort perché il Gran Maestro gli
sarebbe stato molto utile, in seguito, ancora due volte.
Tanto utile che le malelingue sostengono che Gerardo, durante la
prigionia, si fosse convertito alla religione islamica.
Dopo il trionfo dei “corni di Hattin”, Saladino potè conquistare senza
fatica l’indifeso regno di Gerusalemme e costrinse più volte Gerardo di
Ridefort a convincere gli ostinati difensori di fortezze e città ad arrendersi
senza combattere.
 

A dire il vero, Gerardo faceva pressione con le sue esortazioni e quindi
le guarnigioni delle fortezze dei Templari non potevano opporsi alle
disposizioni del loro Gran Maestro. Tre fortezze in tutto sgombrarono il
campo senza combattere, fra cui quella strategicamente importante di
Gaza, a sud del regno.
Che cos’era avvenuto del categorico rifiuto dei Templari di pagare un
riscatto anche per il loro Maestro prigioniero?
Per riottenere la propria libertà, Gerardo immolò ai Saraceni i beni più
importanti dell’Ordine, i suoi castelli!
Sembra quasi che Gerardo, dall’ardimento esagerato sempre in mostra,
fosse diventato un codardo, disposto a pagare qualunque prezzo per la
propria vita. Probabilmente si era messo in testa di essere più importante,
per lo stato franco, di tre ridicole fortezze. Sbagliato in pieno!
Dopo essersi impossessato della maggior parte del regno franco,
Saladino liberò, nel dicembre 1187, il Gran Maestro e il re Guido e questa
si rivelò una mossa particolarmente astuta. La cristianità ricevette indietro i
suoi due capi, che si erano dimostrati incapaci e si divise subito in due
frazioni, di cui una riteneva responsabile della sconfitta Guido e l’altra
Gerardo.
A questo punto si pone l’interrogativo di come avesse potuto il consiglio
generale dei Templari scegliere un candidato tanto platealmente inadatto
come quel Maestro.
Come tutte le più grandi organizzazioni, anche l’Ordine dei Templari
non si presentava come un blocco unico, ma nel tardo xii secolo (con
grande approssimazione) si divise in due diversi gruppi, i realisti e gli
idealisti. I realisti, per lo più Fratelli che vivevano da molto tempo in
Oriente erano informati sulle forze limitate dell’Ordine ed erano pronti a
compromessi con i Musulmani, quando potevano essere utili alla causa dei
Cristiani.
Gli idealisti, appena arrivati dall’Occidente, ritenevano questi
compromessi un tradimento e volevano attaccare i Musulmani, non appena
se ne presentasse l’occasione.
Odo di Saint Amand, fiero e ardimentoso, era per questi ultimi il
maestro ideale, guidava i suoi uomini in ogni combattimento, non
tralasciava alcuna battaglia e infiammava a tal punto le sue truppe che nel
tempo più breve l’Ordine si dissanguò completamente.
Alla sua morte nel 1185 i pochi Fratelli superstiti scelsero un realista,
Arnoldo di Torroje, sotto la cui conduzione vennero ancora una volta
portate nuove forze dall’Occidente e quando morì, il nuovo Consiglio era
 

quindi formato da giovani teste calde, appena giunte in Terrasanta, che
diedero, con grande entusiasmo, il loro voto a un uomo spavaldo come
Gerardo di Ridefort.
Con la nomina di Gerardo il destino fece il suo corso. La severa
disciplina dei Templari impediva loro di discutere qualsiasi comando del
Maestro, per quanto assurdo. Chiaramente, la persona che ricopriva la
carica di Gran Maestro influenzava in modo assolutamente decisivo la
politica dell’Ordine, occorre infatti rammentare che il regolamento dei
Templari non si esprimeva in modo del tutto chiaro sulle competenze del
Maestro.
Un Maestro sufficientemente arrogante, avrebbe potuto ignorare la
decisione del Consiglio, inoltre i suoi saggi e i dignitari più importanti si
comportavano in modo da non contrastarla apertamente, ma in pratica
avevano potere illimitato.
Si conosce l’affermazione di un capo della setta degli Assassini, secondo
la quale non valeva assolutamente la pena di far assassinare un Gran
Maestro dei Templari, perché i Fratelli ne avrebbero semplicemente scelto
uno nuovo che avrebbe portato avanti, invariata la politica, del suo
predecessore. Questa sua valutazione era però totalmente sbagliata, perché
in realtà vi erano certamente alcune costanti nella politica di tutti i Gran
Maestri, quali disciplina, incondizionata disponibilità all’impegno, fedeltà
al patto.
Nell’insieme, però, saltavano agli occhi maggiormente le differenze tra
loro. Innanzitutto nella seconda metà del xii secolo l’Ordine, sotto diversi
Gran Maestri, cambiò costantemente la strategia tra lotta a ogni costo e
momenti di pura sopravvivenza e non ebbe mai una politica continuativa e
prevedibile.
A causa della severa gerarchia e dell’obbedienza incondizionata, il
Consiglio altro non era se non il braccio allungato del Gran Maestro, nel
bene e nel male, così l’Ordine poteva, con un capo capace, raggiungere
successi incredibili, e, con uno scadente, rasentare l’annientamento o se
possibile qualcosa di peggio.
Dopo la disfatta del 1187, l’Ordine dei Templari, per la prima volta,
toccò completamente il fondo.
Nessuna meraviglia visto che la maggior parte dei cavalieri era morta,
Gerusalemme persa e i pochi sopravvissuti si erano trincerati in un paio di
fortezze che ancora possedevano.
Null’altro che un paio di fortezze rimaneva all’Ordine, poiché, durante la
marcia trionfale di Saladino, per la prima volta i Templari avevano
 

 
abbandonato fortezze senza combattere e addirittura pagato un riscatto per
comperare la possibilità di ritirarsi senza essere fatti prigionieri. «Prima
non si era udito nulla di simile», sottolinea uno sbalordito cronista
musulmano (Ibn Shaddad – citato da Sippel, p. 120).
 
 
 
Il regno di Gerusalemme non meritava più il suo nome, poiché
nell’ottobre del 1187 era caduta in mano ai Musulmani, dopo un assedio di
due settimane, e del resto in modo definitivo, se si esclude un intermezzo
di quindici anni, dal 1229 al 1244. Del regno dei Franchi rimasero solo le
città di Antiochia, Tripoli e Tiro, oltre al ridicolo numero di quattro
fortezze, mentre il centro della resistenza dei Franchi divenne inizialmente
la fortificata, quasi imprendibile Tiro, finché non si potè riconquistare
Akkon. Gerardo di Ridefort “l’anima nera dell’Ordine dei Templari”
(Demurger, p. 119) aveva perso la vita in un attacco suicida davanti ad
Akkon, nell’ottobre del 1190, e infine Akkon cadde nel luglio 1191 e
divenne la nuova capitale del regno dei Franchi. Anche i Poveri Fratelli di
Cristo trasferirono lì la loro sede centrale e tentarono di iniziare da capo. In
primo luogo, quando finalmente elessero di nuovo un Gran Maestro, la
carica era rimasta vacante per più di un anno.Tuttavia i Templari e i
Cristiani in genere in Terrasanta ebbero fortuna nella sfortuna, innanzitutto
perché Saladino commise un errore strategico, decidendo di dare il colpo
di grazia definitivo al regno dei Franchi.
In secondo luogo la notizia della caduta di Gerusalemme suscitò in
Occidente un entusiasmo enorme per le crociate. Le donazioni giunsero
copiose ai Templari e, nei feudi, si presentarono moltitudini di nuove
reclute così che la lotta potè proseguire.
L’Occidente aveva imparato la lezione e la Terza Crociata in Terrasanta
(1189-1192) non fu più un pellegrinaggio armato, ma una 
campagna militare vera e propria. L’imperatore Federico Barbarossa
prese la croce nel 1188, a Worms, davanti alla Dieta e nel maggio del 1189
un contingente forte di circa 50.000 uomini si mise in cammino, via terra!
Pare che i comandanti tedeschi non avessero di nuovo imparato molto.
Accadde ciò che doveva accadere, perché appena 10.000 combattenti
raggiunsero la loro meta, l’imperatore Barbarossa ebbe un incidente
nell’Anatolia dell’est e il resto dell’armata si disperse da ogni parte.
Francesi e Inglesi, invece, viaggiarono verso est per nave e non solo
 

giunsero salvi in Palestina, ma portarono con sé sulle loro navi persino un
consistente equipaggiamento per gli assedi. Riposati e, con la loro pesante
attrezzatura, si precipitarono su Akkon e la città cadde in breve tempo.
Saladino era sbalordito, perché solo poco prima i Cristiani erano
completamente a terra. Dunque, dopo questo sorprendente successo,
Gerusalemme era all’improvviso alla portata dei Crociati. Proprio questo fu
però uno dei momenti più deprimenti nella storia dei Templari perché
dovettero sconsigliare i re europei dall’attaccare la città. In questa richiesta
vi fu unità tra i Templari, cavalieri di San Giovanni e i baroni della
Terrasanta.
Quand’anche Gerusalemme fosse stata riconquistata, i Cristiani non
avrebbero potuto mantenerla con le loro forze e non appena l’esercito dei
crociati fosse tornato in Europa, la città sarebbe stata nuovamente persa.
Su questa opinione concordarono i comandanti dell’accampamento
cristiano, eccezionalmente – per una volta – tutti concordi. Fino a oggi
alcuni storici hanno criticato la condotta prudente dei Templari e parlano
di tradimento e di patti segreti con i Musulmani, ma si può, in verità,
imputare molte colpe ai Poveri Fratelli, di certo non un eccessivo
avvicinamento all’Islam. Anzi con la loro prudenza dimostrarono
intelligenza e, come gli altri partecipanti alla Terza Crociata si limitarono,
alla fine, al fattibile. Solo per questa scelta l’impresa fu un successo per la
parte cristiana. Alla fine della crociata i Cristiani occupavano una striscia
di costa continua da Akkon fin dopo Jaffa, il rimanente del vecchio regno
lungo novanta miglia e largo dieci. Gerusalemme rimaneva nelle mani dei
Musulmani ma, almeno, Saladino garantiva a tutti i pellegrini libertà di
passaggio per la Città Santa.
Nell’anno 1192, Guido di Lusignan abdicò ed Enrico di Champagne
divenne il nuovo sovrano del regno dei crociati.
Considerata la devastazione e la mancanza di prospettive, egli non 
mostrò alcun interesse per governare il suo piccolo devastato paese,
mollò completamente le redini e in tal modo i due grandi Ordini spirituali,
Templari e cavalieri di San Giovanni, erano le uniche forze in grado di
esercitare il potere nel vicino Oriente e che, soprattutto, lo volessero fare. I
Poveri Fratelli si erano in qualche modo rigenerati, materialmente e
personalmente, all’ombra della Terza Crociata e tornarono a occuparsi
molto di politica. Anche per loro, tuttavia, non fu possibile ottenere molto,
perché i Cristiani avevano da lungo tempo perso l’iniziativa in Terrasanta e
la sconfitta definitiva appariva ormai prevedibile. Poi, però, nel 1193 morì
inaspettatamente Saladino e l’impero che aveva creato andò in rovina. Tra i
 

Musulmani scoppiarono conflitti interni e i Cristiani furono lasciati in
pace. Inoltre all’inizio del xiii secolo, la Terrasanta fu sconvolta da
terremoti e carestie e vi regnava una situazione di stallo, dato che entrambe
le parti erano esauste e non desideravano continuare la lotta: per questo
arrivò la pace. I Poveri Fratelli, sul finire della Terza Crociata, furono
quasi sul punto di ottenere perfino un proprio regno. Il re inglese Riccardo
Cuor di Leone, nella sua traversata verso Akkon, si imbatté nel sovrano di
Cipro, conquistò l’isola con rapidità e determinazione e, poiché non sapeva
che farsene, la vendette ai Templari per la somma di 100.000 dinari d’oro.
L’Ordine mise sul tavolo l’acconto richiesto di 40.000 dinari e inviò
sull’isola una guarnigione di 100 uomini, ma ben presto questo presidio si
dimostrò troppo debole per tenere stabilmente sotto controllo le
popolazioni greche ribelli. Robert di Sable, Gran Maestro, si trovò di
fronte a un grave dilemma poiché le forze dei Templari non erano
sufficienti per combattere in Terrasanta e contemporaneamente governare
Cipro. A malincuore egli si ricordò della sua missione originale e quindi
cedette l’isola allo sfortunato Guido di Lusignan che nel 1192 si dimise da
re del regno crociato e in cambio ricevette Cipro. Per la seconda volta,
dopo la perduta eredità del regno di Aragona, i Templari si lasciavano
sfuggire la possibilità di fondare un proprio stato. Sarebbe stata la loro
ultima chance. Gli altri grandi Ordini cavallereschi religiosi avevano avuto
un destino più fortunato: sia i Teutonici (in Prussia e in Livonia), sia i
cavalieri di San Giovanni (a Rodi) si assicurarono un proprio stato, in ogni
caso soltanto nel xiii secolo.
È d’obbligo ora porsi l’interrogativo se i Templari con Cipro avessero
perso una chance storica. In ogni caso il comportamento del 
Gran Maestro, in merito al dilemma sul destino di Cipro, dimostra che
l’Ordine non era certo smisuratamente superbo, avido e ricco come gli
rimproveravano molti cronisti dell’epoca.
Altrimenti Roberto di Sablé avrebbe pagato a denti stretti il prezzo
dell’acquisto, trascurata la crociata ad Akkon, costruito e reso sicura una
nuova sede centrale dell’Ordine a Cipro. I Poveri Fratelli dimostravano
dunque, con la rinuncia a Cipro, che per loro la missione in Palestina era
più importante di tutto il resto.
In Terrasanta utilizzarono la quiete dopo la Terza Crociata e la morte di
Saladino, per costruire nuovi castelli e per rafforzare quelli vecchi. Infine
avevano compreso che il tempo delle battaglie campali a viso aperto era
finito e che la loro unica opportunità consisteva nel chiudersi a riccio,
nell’attendere e nel concludere patti astuti con i Musulmani.
 

Nel frattempo i Templari governavano sovrani nelle loro proprietà,
trattavano direttamente con i vari principi Musulmani e concludevano con
loro trattati di pace separati.
Della parola dei Templari ci si poteva fidare e i Musulmani lo sapevano
bene. Già Saladino, che in vita aveva egli stesso mantenuto
scrupolosamente ogni parola data, aveva apprezzato l’assoluta affidabilità
con cui i Templari si erano sempre comportati. Dopotutto, non mantenere
la parola data valeva a quei tempi quasi come un peccatuccio e sia i
Musulmani sia i principi Cristiani dimenticavano presto gli accordi se
faceva loro comodo (ci si ricordi dell’attacco cristiano all’Egitto nell’anno
1168, con il quale fu rotta l’alleanza con gli egiziani).
In considerazione della loro posizione debole i Templari, dunque, non
attaccavano più i Musulmani sempre e ovunque, ma concludevano trattati
di pace, appena possibile. Guglielmo di Tiro, morto nel 1186, avrebbe
certamente lodato la cresciuta disponibilità al compromesso dei cavalieri,
ma il papa di allora, Innocenzo iii, la giudicava severamente. Innocenzo iii,
che sedette sul trono di San Pietro dal 1198 al 1216, gettò i Templari in
uno stato di grande confusione, poiché da un lato mantenne loro importanti
privilegi e appoggiò i «suoi amati Fratelli della Milizia del Tempio» per
quanto poteva, accese inoltre nel cristianesimo un entusiasmo per le
crociate che andò oltre tutto quanto era accaduto fino ad allora.
D’altro canto non impegnò queste energie nella riconquista di
Gerusalemme, ma interpretava ogni battaglia contro gli Infedeli come una
Guerra Santa. La “Reconquista” della Penisola Iberica fu dichiarata una
crociata di Dio, come la guerra contro i Catari cristiani in Francia che il
papa accusò di eresia.
Le forze della cristianità vennero quindi divise: erano appena partiti, nel
1202, 30.000 uomini per la Quarta Crociata.
La destinazione questa volta era l’Egitto, che si intendeva raggiungere
via mare. I Veneziani misero a disposizione dell’esercito le navi e pretesero
come pagamento che i cavalieri, durante il viaggio verso sud,
riconquistassero la città di Zara, sulla costa dalmata, che Venezia aveva
abbandonato.
La cosa fece chiaramente piacere ai crociati che decisero, allora, di
assediare la città cristiana del regno di Bisanzio, con una scusa pretestuosa.
Ebbero successo e sottomisero l’intero regno bizantino e si spartirono
fraternamente l’immenso bottino. Con questa azione militare dichiararono
terminata la Crociata! Questa decisione, forse, fu superata poco dopo: in
Francia e nel regno tedesco intere schiere di ragazzi seguivano
 

l’esortazione di Innocenzo iii a diventare crociati. I giovinetti francesi
giunsero a Marsiglia nell’anno 1212, in attesa che il mare si aprisse davanti
a loro. Questo non accadde. Invece alcuni capitani li attirarono sulle loro
navi, li portarono nell’Africa del Nord, dove li vendettero come schiavi.
Questa nota storica in calce sta a dimostrare quale enorme danno abbia
provocato la chiamata indifferenziata alla crociata del papa: anziché
dirigersi su Gerusalemme i cristiani si uccidevano a vicenda, facevano la
guerra a eretici francesi e infiammavano la gioventù in modo del tutto
assurdo. L’idea di crociata era stata colpita duramente, tuttavia gli europei
ne trassero vantaggio. Ora infatti erano coscienti della loro debolezza e
fecero progetti più modesti, con campagne militari dall’obiettivo ben
individuato e che inoltre non venissero più ostacolate dai pellegrini che
viaggiavano con loro.
Iniziò così nel 1216 la crociata di Douriette, in qualche modo
“professionale”. Il piano era quello di annientare la potenza dei Musulmani
nel loro paese fondamentale, l’Egitto.
Un esercito si imbarcò dall’Europa, contemporaneamente i Cristiani
spogliarono i loro confini a nord del loro regno e mandarono anche le loro
truppe in Egitto. Dopo anni di prudente attesa, anche i Templari ritennero
fosse giunto il momento di prendere nuovamente l’iniziativa.
Dopo i successi iniziali, la campagna ristagnò. Il nuovo papa,
Onorio iii, era in collera e inviò un cardinale come suo legato, Pelagio di
Albano, per rimettere in riga l’esercito cristiano.
Il legato assunse il comando supremo di tutta l’impresa. Per la prima
volta la Chiesa guidava una crociata a danno di tutti. Il legato non aveva la
minima cognizione di faccende militari e non ascoltava il parere degli
Ordini cavallereschi.
Tuttavia Damiette cadde finalmente dopo un assedio durato un anno e
mezzo. Oltre a ciò il Sultano propose, in pratica, di restituire ai cristiani
tutti i territori che avevano perso dopo la battaglia di Hattin (1187) se solo
si fossero ritirati dall’Egitto.
Sia l’Ordine sia il legato pontificio interpretarono questa offerta come un
segno di debolezza. Il legato respinse tutte le offerte di pace e condusse
l’esercito verso il Nilo.
Ma, nel settembre del 1221, i Cristiani furono battuti in modo
schiacciante. I Templari riconobbero amareggiati, che tutte le perdite, che
tutto il loro impegno, che «agisce da incitamento per i Cristiani superstiti»
(Giacomo di Vitry, citato da Sippel, p. 152), erano inutili di fronte
all’incompetenza militare del legato pontificio. Il troubadour  normanno
 

Guglielmo le Clerc spinge la critica fino a questo punto: «il religioso
dovrebbe recitare la Bibbia e lasciar andare il cavaliere in battaglia».
Come unico ricordo della crociata, rimase ai Templari la cosiddetta
fortezza dei Pellegrini, perché i pellegrini avevano iniziato a fortificare
questo posto. I lavori di costruzione di questo castello erano iniziati
nell’anno 1217 e non erano ancora terminati quando fu attaccata per la
prima volta, nel 1220.
Ciononostante la fortezza dei Pellegrini resistette e una volta ultimata
praticamente non era più espugnabile con i mezzi dell’epoca.
Da tre lati era protetta dal mare e il quarto da possenti mura difese da
torri. Nel xiii secolo questo castello, praticamente inespugnabile, era il
simbolo dell’atteggiamento mentale dei Templari: stavano sulla difensiva,
ma volevano vendere la pelle a carissimo prezzo.
La possente fortezza dei Templari di Safed, nei pressi di Akkon,
rappresentava un ulteriore segno palese della mentalità da bunker  dei
Poveri Fratelli nel xiii secolo.
La roccaforte, costruita dal 1240 al 1243, aveva forma ovale con doppia
cinta fortificata ed era – difesa da circa 2000 uomini – altrettanto
inespugnabile.
Malgrado ciò i Templari persero entrambe le fortezze: Safed cadde 
a causa di un tradimento (già nel 1266), la roccaforte dei Pellegrini fu
consegnata, senza difesa, dopo la caduta di Akkon.
La costruzione di queste massicce fortificazioni mostra chiaramente il
cambiamento di tattica a cui i Templari erano costretti nel xiii secolo:
l’iniziativa era ora nelle mani dei Musulmani ritornati di gran lunga più
forti; i Cristiani potevano solo proteggersi con grandi fortificazioni e
aspettare. Questa inattività non si addiceva per nulla ai cavalieri.
Cominciarono ad annoiarsi e si tenevano occupati, in modo sempre
crescente, provocando liti con altri Cristiani oppure ordendo intrighi.
Quando il re tedesco e l’imperatore Federico ii si prepararono per la
Quinta Crociata, l’inattività parve finita. Poiché però papa Gregorio ix
aveva litigato, per motivi di politica interna, con Federico ii, proibì ai
Poveri Fratelli di prendervi parte. I cavalieri dell’Ordine di San Giovanni, i
Templari e il patriarca di Gerusalemme obbedirono al loro capo supremo e
boicottarono la Crociata. Anche senza l’appoggio degli Ordini
cavallereschi cristiani, l’imperatore Federico ii riprese Gerusalemme, oltre
a parecchie località tra la Città Santa e la costa, come anche considerevoli
tratti di costa nel nord del regno e tutto, praticamente, senza spargimento
di sangue!
 

Dall’inizio Federico cominciò a trattare e nel 1229 stipulò un trattato di
pace dopo alcune insignificanti scaramucce. Dopo quarant’anni, il territorio
di Gerusalemme tornò ai Cristiani, fino al possedimento dei Templari che
comprendeva la moschea di El Aqsa e la cattedrale “delle rocce”. La
porzione di territorio su cui sorgeva la casa madre dei Templari rimaneva
dunque in mano musulmana: in ogni caso non si trattò della vendetta
dell’imperatore tedesco per l’inerzia dei Templari.
Questi due edifici erano, piuttosto, due importanti luoghi di culto
dell’Islam che i Musulmani non restituirono volontariamente. Le trattative
ebbero successo esclusivamente perché Federico dimostrò la massima
stima per i vertici della cultura islamica e rispettò la posizione della
controparte.
Questo atteggiamento rendeva Federico certamente un precursore del
suo tempo, tuttavia tutto l’Occidente cominciò, seppur lentamente, a
cambiare il proprio modo di pensare. A partire da Pietro Venerabile,
l’abate di Cluny che nel 1143 aveva fatto tradurre il Corano in latino, si
diffuse a poco a poco una conoscenza genuina dell’Islam. I poeti stessi
delinearono un quadro positivo dei Saraceni, per primo Wolfram di
Eschenbach nel suo Willeham, uscito nel 1220. Il “nobile pagano” che vi è
descritto, il capo dei Musulmani, fortemente improntato alla figura fuori
dell’ordinario di Saladino, viene moralmente paragonato ai crociati.
Tuttavia, secondo lo storico Hans Eberhard Mayer, non si potrebbe parlare
di un’autentica tolleranza nei confronti dei Musulmani nell’Occidente del
xiii secolo. In modo particolare i Templari ne erano molto lontani. È vero
che concludevano patti con i capi Musulmani, ma un’effettiva convivenza
delle due religioni appariva loro inimmaginabile; loro, i combattenti,
conoscevano soltanto il confronto e non la cooperazione: era questa la
tragica eredità del loro padre fondatore Bernardo di Clairvaux.
Da un mondo che stava cambiando, l’Ordine, nei suoi cento anni di
esistenza, non aveva imparato nulla. Si trovava sulla strada giusta per
diventare un fossile. In ogni caso non era ancora molto vitale. Alcuni
storici ritengono che l’inizio del xiii secolo sia stato l’apice della potenza
dei Templari: il professore francese Alain Demurger intitola il capitolo
corrispondente, nella sua storia dei Templari: «i veri padroni dell’Oriente
cristiano».
Di certo gli Ordini cavallereschi religiosi ebbero un ruolo importante
nell’Oriente cristiano, nonostante che dello stato delle crociate non fosse
rimasto molto.
I Templari, unitamente ai cavalieri di San Giovanni, rappresentavano,
 

dunque, la forza più rigorosa in un paese completamente dissanguato. Si
pensi che il re franco Enrico di Champagne non aveva provato una gran
voglia di governare questo regno così “male in arnese” significativo che
dopo la quinta Crociata (1129), i Templari della Palestina comparissero
appena nei racconti dei cronisti. In pratica non vi furono più battaglie
aperte tra Cristiani e Musulmani. I Fratelli stavano nelle loro fortezze che,
a partire dal 1166, andarono perdute, una dopo l’altra: Safed, Beaufort,
Baghras e Roche-Roissel, alla fine non rimasero che le città ben fortificate
e i castelli lungo la costa, tra cui la roccaforte dei Pellegrini e il castello di
Tortosa.
Al più tardi dopo il 1229 la popolarità dei Templari era finita sia in
Europa che in Palestina.
Le donazioni dell’Occidente giungevano a malapena e nonostante
entrassero nell’Ordine ancora numerose nuove reclute, non bastavano, alla
lunga, ad assicurare uomini sufficienti per le fortezze in 
Terrasanta: soltanto per Safed, l’Ordine avrebbe avuto bisogno all’incirca
di 2000 uomini di guarnigione. I Poveri Fratelli utilizzavano le forze
rimaste in modo poco simpatico e del tutto inopportuno: si azzuffavano in
continuazione con gli altri Ordini cavallereschi e si immischiavano persino
in conflitti familiari e dinastici. Erano apertamente stanchi dell’attesa nei
loro castelli e per la loro grande noia tramavano intrighi o si
intromettevano in inutili litigi.
Alcuni esempi:
–  Quando Boemondo iii, re di Antiochia, morì nell’anno 1201, vi erano
nel suo stato numerosi pretendenti in concorrenza per il potere. I Templari
si schierarono da una parte, i cavalieri di San Giovanni dall’altra e di nuovo
scorse il sangue. Per 15 anni l’importante territorio a nord del regno non
trovò pace e tutto ciò per una vera inezia: il successore legittimo di
Boemundo, Raimondo Ropen, rifiutava di restituire ai Templari la loro
fortezza di Baghras, che Saladino aveva conquistato nell’anno 1191, rasa al
suolo e abbandonata. La lite aveva dunque per oggetto una fortezza già
distrutta, che solo con una grande spesa si sarebbe potuta ricostruire. Solo
quando, nel 1216, ebbe inizio la battaglia di Damiette, le due parti cristiane
si ricordarono del loro vero compito e fecero pace.
–  Già da molto tempo vi era una grande rivalità tra le due più importanti
città marinare italiane, Venezia e Genova. Nell’anno 1250 scoppiò una
vera e propria contesa tra i rappresentanti delle due città, ognuna delle
quali occupava un quartiere di Akkon. I cavalieri di San Giovanni corsero
in aiuto dei Genovesi e dei Templari, quasi per riflesso incondizionato, si
 

schierarono dall’altra parte. Nella primavera del 1258 si giunse a una
battaglia aperta, che durò addirittura un anno, tra gli Ordini cavallereschi.
Motivo: i Genovesi nel 1250 intendevano comprare una casa che si
trovava pericolosamente vicina al quartiere veneziano.
–  Nel 1276 la cosa fu anche peggiore: il signore di Giblet, appena
entrato nell’Ordine, aveva ancora un conto da regolare con il fratello: partì
quindi con trenta confratelli e si impossessò dei beni del fratello. Questa
ingiustizia fece andare su tutte le furie il conte di Tripoli che si schierò
dalla parte del derubato e, per vendetta, fece abbattere la sede dei Templari
a Tripoli. Non avrebbe dovuto farlo:
per due volte i Templari affrontarono in combattimento il conte che, solo
in una terza battaglia, potè riportare ordine. In quest’occasione i cavalieri
di San Giovanni, tanto per cambiare, giocarono un ruolo degno di lode:
tentarono di comporre la lite.
Che ne era stato degli ideali dei cavalieri-monaci? Anziché difendere la
Terrasanta, passavano il tempo uccidendo altri Cristiani. In questa china di
reciproca inimicizia fiorirono dicerie e sospetti, il che fece comodo agli
avversari dei Cristiani; la fortezza dei Templari di Safed, l’avamposto più a
nord del regno, cadde, come già detto, per un tradimento così pure
l’orgoglio dei cavalieri di San Giovanni, la fortezza di Krak.
Il ruolo ambiguo giocato dai Templari nei diversi intrighi danneggiò
enormemente la loro reputazione tra la popolazione degli stati cristiani.
Ben presto il popolo non considerò più i Fratelli come splendidi
cavalieri del Signore ma come brutali briganti che cercavano l’alterco per
noia. Noia che ebbe più volte un’influenza devastante.
Una spia tra gli emiri egiziani informò, nel 1289, i Templari del progetto
di un attacco a Tripoli. Il Gran Maestro, Guglielmo di Beaujen, avvertì
immediatamente la città, ma nessuno gli credette. La stessa cosa accadde
di nuovo nel 1290, questa volta si trattava delle città di Akkon. Nell’anno
1291 infine Akkon cadde, e un’ultima volta trovò impiego la massima dei
Templari: «primi all’attacco ultimi nella ritirata». Il 18 maggio i
Musulmani ruppero le mura della città e per dieci giorni si combatté nelle
strade. Alla fine i Cristiani mantennero un solo edificio, il castello
cittadino dei Templari. Gli assalitori scavarono sotto le mura, finché il
castello non crollò rovinosamente sui difensori. Con questo grande
schianto morì lo stato dei crociati: dopo la caduta di Akkon, i Cristiani
abbandonarono il resto della Palestina, senza combattere.
I Templari abbandonarono il loro castello di Tortosa da una porta
laterale, che dava direttamente sul mare.
 

 
 
Il  14 agosto sgomberarono la loro ultima fortezza, la più imponente, la
roccaforte dei Pellegrini.
La Palestina cristiana non esisteva più.
I Mamelucchi fecero sì che la situazione non mutasse mai più:
distrussero l’intero complesso di infrastrutture della costa: un eventuale
ritorno era così divenuto impossibile per i Franchi.
 
 
 
Non più tardi del 1228, sessant’anni prima, dunque, della definitiva
perdita della Terrasanta, l’Ordine diede già i primi gravi segnali di
scioglimento. Furono provocati dai papi Innocenzo iii e Gregorio ix, che
avevano irrimediabilmente deteriorato il concetto di crociata. Dal
momento che l’esistenza dei Templari e del concetto di crociata erano
legati tra loro in modo indissolubile, questi due papi in particolare
smantellarono indirettamente i Templari.
Ciononostante i fratelli (all’inizio) rimasero fedelmente sottomessi al
 

 
papato, anche se la conquista della cristiana Bisanzio da parte dei Crociati
era stata approvata, la spedizione di annientamento contro gli altrettanto
cristiani Albigesi in Francia, condotta con indicibile crudeltà, era stata
dichiarata ugualmente crociata (Innocenzo iii) e la Quinta Crociata era
stata sabotata con tutte le forze (Gregorio ix).
Il fatto che l’Ordine non avesse potuto partecipare alla Quinta Crociata,
dovette colpire duramente i Fratelli anche se non potevano ammetterlo
ufficialmente. In fin dei conti l’Ordine si basava su due incrollabili
princìpi, cioè l’assoluta fedeltà al papa e il perseguire senza riserve il
concetto delle crociate.
Fino al 1228 i Templari potevano unire senza problemi questi ideali.
Quindi, quando il papa proibì loro la partecipazione alla Quinta Crociata,
dovettero decidere a quale di questi principi volevano rinunciare.
Fondamentalmente non avrebbero potuto rinunciare a nessuno dei due e
su questo punto si spezzarono internamente. Un crociato che stava a
guardare durante la crociata? Impensabile! Tuttavia non rimase nient’altro
da fare.
La situazione dell’Ordine dopo la perdita della Terrasanta sembrava
senza speranza: l’Europa aveva rinunciato alla lotta per Gerusalemme, di
conseguenza si esaurirono le donazioni ai Poveri Fratelli 
che avevano perso tutti i loro possedimenti in Palestina. Senza mezzi,
indeboliti e demoralizzati si rifugiarono a Cipro. Per salvare il salvabile
dovettero decidere tra tre possibilità: avrebbero potuto tentare di
riconquistare la Palestina, crearsi un proprio stato o stabilirsi
definitivamente in Occidente.
 
 
 
Per prima cosa decisero di proseguire la lotta contro i Musulmani, senza
lasciarsi turbare da tutte le catastrofi. Dopo la morte del Gran Maestro
Guglielmo di Beaujen durante la caduta di Akkon, nel 1291, il suo
successore, Teobaldo Gaudin, condusse gli ultimi Templari superstiti a
Cipro.
Dopo soli due anni l’ordine ricomparve. Giacomo di Molay fu eletto
nuovo Gran Maestro e, come sarebbe risultato poi, ultimo. Come primo
atto annunciò drastiche riforme: voleva estirpare tutto ciò che avrebbe
potuto in futuro danneggiare l’Ordine.
In quel momento l’Ordine avrebbe ancora potuto essere salvato: con un
Maestro che avesse capito di dover trasmettere ai Fratelli un nuovo
 

compito e una nuova visione. Per questo sarebbe stato necessario una
guida lungimirante e con nuove idee.
Giacomo di Molay non era un uomo di questo tipo. Tra i Gran Maestri
dei Templari non si mette in luce né in maniera negativa, né positiva.
Come capo presenta una personalità mediamente buona, con le tipiche
qualità che sarebbero state richieste cinquant’anni prima: coraggio,
disciplina e disponibilità all’impegno. Giacomo di Molay, uomo di scarsa
cultura, non era in grado di adattare l’Ordine alle circostanze mutate.
Dal nuovo quartier generale dei Templari a Cipro, Giacomo di Molay si
recò in Europa per mobilitare il mondo cristiano per una nuova crociata.
La risonanza fu tuttavia scarsa ovunque: il tempo delle grandi crociate era
definitivamente finito, l’Occidente aveva rinunciato alla Terrasanta. Di
fronte allo scarso appoggio dell’Occidente si arrivò fino al 1300 affinché i
Templari potessero riunire sufficienti forze per partecipare ad azioni
militari importanti.
Con i cavalieri di San Giovanni, alcuni crociati e un contingente
cipriota, i Templari attaccarono contemporaneamente parecchie località
dal mare: Alessandria, il delta del Nilo e la costa siriana nei pressi di
Tortosa. Dietro a tutto ciò non era riconoscibile alcun progetto strategico,
si trattava, fondamentalmente, solo di razzìe,  che inoltre fallirono senza
eccezione.
Ai Templari riuscì unicamente di conquistare la piccola isola di Ruad
posta di fronte a Tortosa. In seguito fortificarono la fortezza situata
sull’isola, con una spesa enorme, poiché Giacomo di Molay progettava di
far partire da lì i suoi attacchi alla costa.
In realtà Ruad si trovava in una posizione strategica straordinariamente
favorevole; una flotta dislocata qui avrebbe potuto controllare tutte le
partenze di navi in direzione della costa orientale del mar Mediterraneo.
Tuttavia Ruad non si adattava come base per una guarnigione poiché
non aveva alcuna provvista d’acqua propria e doveva quindi essere sempre
rifornita dall’esterno. Inoltre l’Ordine non disponeva di una flotta
sufficientemente forte per proteggere l’isola dagli attacchi.
Quando i Mamelucchi attaccarono Ruad nell’anno 1302, poterono
sbarcare in tutta tranquillità, scaricare sedici navi piene di guerrieri e dare
l’assalto alla città da terra.
Nonostante le possenti installazioni difensive, che nel frattempo i
Fratelli avevano eretto, la guarnigione non potè mantenere la cittadella:
centoventi cavalieri, cinquecento arcieri e quattrocento scudieri tentarono
solo brevemente di difendersi dalla supremazia dei Saraceni e si videro
 

 
presto costretti alla resa. La cosa interessante è che non furono giustiziati,
come sarebbe stato usuale in precedenza; i Musulmani non consideravano
più i Templari un grande pericolo e usarono loro clemenza. I Fratelli
rimasti «furono condotti in Egitto con infamia e disonore».
Così finiva senza gloria l’ultima impresa militare degna di nota dei
Templari. Da quel giorno i cavalieri-monaci si congedarono per sempre
dalla lotta armata. Ma le cose sarebbero andate ancora molto peggio.
Dopo la disfatta a Ruad i possedimenti più a est dell’Ordine erano
nuovamente quelli di Cipro, dove i Templari avevano trovato rifugio dopo
la perdita della Palestina.
Qui però i Fratelli si sentivano sempre meno a proprio agio. Non
gradivano di essere solo sopportati sull’isola, di cui erano stati i padroni
fino al 1192. Mentre i cavalieri Teutonici si costruivano un proprio stato in
Prussia e i cavalieri di San Giovanni conquistavano Rodi (1308), i
Templari tentavano la sorte a Cipro. Appoggiarono apertamente la rivolta
di Amalrico contro Enrico, re di Cipro. Probabilmente speravano di aiutare
Almarich a conquistare il trono e di ricevere in cambio una posizione forte
sull’isola, come quella di cui avevano goduto a Gerusalemme, dopo che il
Gran maestro Gerardo di Ridefort, con i suoi intrighi, aveva fatto diventare
re Guido di Lusignan. Ma gli sviluppi in Europa mandarono a monte
questi progetti.
 
 
 
Per molto tempo i fieri cavalieri residenti in Palestina avevano
considerato l’Occidente come una mucca da latte, importante per il loro
benessere, ma di secondo piano.
La situazione però era cambiata: dopo la perdita della Terrasanta,
l’Ordine aveva bisogno urgente di aiuto dai paesi al di là del mare.
Giacomo di Molay progettava addirittura l’eventualità di trasferire a Parigi
la casa madre, per raccogliere là, quasi in esilio, nuove forze e ottenere un
momento propizio per nuove iniziative nel vicino Oriente. Tuttavia, un
trasloco in Europa apparve senz’altro impossibile, poiché i rapporti tra
l’Ordine e le case reali di Spagna, Francia e Inghilterra erano troppo
contraddittori in quanto i monarchi europei temevano la ricchezza e
l’influenza dell’Ordine che non era tenuto a obbedire ad alcun comando
reale e rappresentava uno stato nello stato.
Nel primo Medioevo il re aveva avuto una posizione debole di primus
 

inter pares, una sottomissione formale, quindi, anche se, in realtà , aveva
esercitato un grande potere.
Ma all’inizio del xiv secolo questo rapporto di forza era cambiato,
innanzitutto in Spagna e in Francia, dove il monarca pretendeva ora di
rappresentare l’unica autorità nel proprio stato. Chi si fosse messo sulla sua
strada, fosse anche un principe, un papa o un Ordine cavalleresco, avrebbe
incontrato seri problemi.
Ora in Francia i re chiedevano, quindi, voce in capitolo per le nuove
assegnazioni di incarichi importanti nell’Ordine, in cambio l’Ordine stesso
ottenne una posizione di sicura fiducia a corte, dove aveva il compito di
tenere informati i governanti sulla situazione in Terrasanta.
In Inghilterra e in Francia, nel xiii secolo, alcuni Templari furono
incaricati dell’amministrazione delle finanze dello stato. I governanti
d’Europa, inoltre, inviavano spesso i Templari o i cavalieri di San
Giovanni come ambasciatori.
Anche se i rapporti dell’Ordine con la monarchia si svilupparono in
modo più armonico in Inghilterra, semplicemente perché nell’isola non
aveva mai avuto una posizione tanto importante da mettere in pericolo,
realmente, il potere reale.
L’onore più grande fu reso all’Ordine dalla casa reale inglese dopo la
Terza Crociata, quando il re Riccardo Cuor di Leone vestì l’abito bianco
dei Templari.
Si provi a immaginare Riccardo, la figura luminosa, che in moltissimi
filmati su Robin Hood appariva come il salvatore, il cui ritorno era atteso
da tutta l’Inghilterra, che si erge, avvolto nel suo mantello bianco con la
croce rossa sul petto, a prua di una nave dei Templari in partenza da Jaffa.
In verità Riccardo non era entrato nell’Ordine, ma sperava unicamente che
l’abbigliamento gli garantisse un sicuro viaggio di ritorno. I rapporti
dell’Ordine con la casa reale francese erano obiettivamente più difficili di
quelli con la corona inglese e un ritorno dell’Ordine in Francia dal suo
esilio da Cipro non sarebbe certo stato possibile.
Fino a oggi non è, però, stato chiarito se Giacomo di Molay avesse
davvero progettato il trasferimento in Europa.
Se sì, Parigi sarebbe stata l’opzione di gran lunga più probabile, perché
come detto in precedenza la maggior parte dei Fratelli proveniva dalla
Francia, qui l’Ordine possedeva la gran parte dei suoi beni e il distretto
parigino dei Templari – un settore autonomo della capitale – rappresentava
il centro sia politico sia economico della confraternita in Europa.
Il trasferimento a Parigi sarebbe stato però sconsigliato dal fatto che, da
 

lungo tempo, la casa reale francese osservava con sospetto la prosperità del
distretto dei Templari.
A partire dal regno di Luigi ix vi erano state tensioni continue tra il re e
l’Ordine. La disputa si era sviluppata, per lo più, sui diritti e sui privilegi
dell’Ordine dei Templari, tuttavia i rapporti non devono essere stati poi
tanto cattivi, se la corona depositava abitualmente il suo tesoro di stato
presso i Poveri Fratelli.
Ma quali furono i rapporti tra il re Filippo il Bello (periodo di regno:
1285-1314) e i Poveri Fratelli?
Nell’anno 1295 il monarca (per suo volere si sarebbe fatto, più tardi, il
processo ai Templari) ordinò di togliere l’oro della corona dal tesoro
dell’Ordine e di sistemarlo, da quel momento in poi, al Louvre.
Gli storici hanno cercato di analizzare a fondo questo atto, per cercare di
interpretarlo: se cioè il litigio fra i due contendenti fosse già scoppiato
apertamente nel xiii secolo essendo divenute insostenibili le tensioni. Ogni
tipo di speculazione appare, però, superflua, in quanto, otto anni più tardi,
re Filippo riconsegnò il suo oro alla custodia dei Templari.
Vi sono anche altri avvenimenti nella prima parte del xiv secolo, che
delineavano un quadro contraddittorio dei rapporti tra Templari e corona.
Un Templare, ad esempio, Guglielmo di Boubein, guidò la rivolta di
Brugge (1302) contro Filippo il Bello, mentre i Templari presero le parti
del monarca nella lite tra Bonifacio viii e re Filippo.
Ugo di Peiraud, ispettore generale (rappresentante del Gran Maestro in
Occidente), pare abbia anche detto che «avrebbe difeso la Francia persino
contro il papa». Questa presa di posizione contro Roma fu una svolta
drammatica nella politica dell’Ordine: per la prima volta nella loro storia i
Fratelli non difendevano, automaticamente e al cento per cento, la
posizione del soglio pontificio a cui dovevano tutti i loro privilegi.
L’Ordine, o quantomeno una parte, cominciò lentamente a ragionare in
termini di stato nazionale, anziché identificarsi in una confraternita
sovrannazionale di Cristiani.
In questo modo si compì tra i Templari la stessa evoluzione storica e
spirituale che a partire circa dal x secolo si era generalmente delineata in
Europa: il lento risveglio della coscienza nazionale. Un uomo nella Francia
del ix secolo si sentiva in primo luogo un cristiano, poi un bretone o un
cittadino dell’Auvergue, mentre intorno al 1300 si sarebbe definito un
francese che naturalmente crede anche in Dio.
Il sostegno al re contro il papa rappresentò quindi per i Templari il
secondo peccato originale ideologico. Il primo era consistito nel non aver
 

 
partecipato alla Crociata di Federico ii per ordine del papa.
Un tempo l’Ordine aveva posto l’obbedienza nei confronti del papa al di
sopra del concetto di crociata, ora invece violava anche questo sommo
principio e per la prima volta rifiutava di seguire il soglio pontificio.
Può sembrare singolare che il re Filippo non abbia dimostrato particolare
entusiasmo per questo voltafaccia; probabilmente egli temeva che l’Ordine,
(che comunque, dopo la caduta della Palestina, era stato derubato dello
scopo della sua esistenza) ora, dopo il distacco dal papato, avrebbero
potuto perdere ogni orientamento e diventare un imprevedibile fattore di
forza in Francia. Quali che fossero state le reali motivazioni dell’Ordine,
Filippo in ogni caso ripagò male il loro aiuto.
È vero che il re concesse, nell’anno 1303, a Ugo di Peiraud e a tutta la
confraternita un salvacondotto (o lettera di protezione) onnicomprensivo,
ma allo stesso tempo cominciava già a riflettere su come avrebbe potuto
sciogliere l’Ordine dei Poveri Fratelli di Cristo. La sua organizzazione
propagandistica si mise in movimento e Pierre Dubois, uno degli addetti
alle pubbliche relazioni di corte, ingiuriò i Templari e i cavalieri di San
Giovanni e li invitò a sottomettersi al comando del re.
Per i Templari si stavano preparando sciagure, poiché su
quest’interrogativo riflettevano non soltanto dignitari laici, ma anche i
circoli ecclesiastici di grado più elevato discutevano se fossero ancora
necessari tanti Ordini di cavalieri-monaci, visto che si era persa
Gerusalemme, forse persino per colpa loro.
 
 
 
L’idea di riunire sotto un unico tetto Templari e cavalieri di San
Giovanni ebbe origine nell’anno 1274, ancora quindi nel periodo
precedente alla perdita della Terrasanta.
I due Ordini avrebbero potuto impedire questo progetto dall’inizio,
tuttavia l’idea rimase in circolazione.
Nel 1292 tornò sul tavolo e questa volta la maggior parte dei consigli
provinciali, interpellati da papa Niccolò IV, si espresse per una riunione
degli Ordini, nonostante tutte le differenze tra Templari e cavalieri di San
Giovanni.
L’Ordine dei cavalieri di San Giovanni aveva ricevuto il suo
riconoscimento ufficiale già nel 1113 da papa Paschalis ii, era dunque più
datato della confraternita dei Templari. Inizialmente i cavalieri di San
Giovanni si dedicarono solo all’assistenza dei viaggiatori e alla cura dei
 

malati (per questo vengono chiamati anche Ospedalieri), però presto si
resero conto che in Terrasanta i pellegrini dovevano essere protetti anche
con le armi.
Nell’anno 1155 adeguarono il proprio regolamento alle particolari 
esigenze di un Ordine cavalleresco, senza però perdere di vista i loro
obiettivi caritatevoli.
I cavalieri di San Giovanni avevano dunque un’opinione di sé ancora più
alta rispetto ai Templari: volevano pregare, combattere e occuparsi dei
malati. Poveri e infermi arrivavano agli ospedali dell’Ordine non come
questuanti, ma come signori che i cavalieri di San Giovanni dovevano
servire: questo stabiliva espressamente il regolamento.
Superbia e arroganza che colpivano molti membri del Tempio, erano
lontane dai cavalieri di San Giovanni, che servivano Dio e i malati e anche
la gerarchia interna all’Ordine non era sottolineata dagli abiti, come per i
Templari. Tutti i cavalieri di San Giovanni portavano la stessa divisa,
indipendentemente dal rango: un mantello nero con una croce bianca,
intagliata di lato, che ancor oggi è visibile su numerose ambulanze.
Gli Ospedalieri (o cavalieri di San Giovanni) conducevano una vita
semplice, utile alla società e non si circondavano di un’aura di mistero che
avrebbe potuto portare alla creazione di leggende e in questo modo
rimasero al riparo da invidia, calunnia e gelosia che avrebbero portato i
Templari alla rovina.
I cavalieri di San Giovanni hanno potuto compiere il loro servizio ai
malati fino ai giorni nostri, mentre i Templari andarono incontro a un
tramonto precoce e spettacolare.
Nello stesso tempo vi erano punti in comune tra i due Ordini, ben più
grandi delle loro differenze.
Le loro organizzazioni e i loro compiti si assomigliavano molto,
entrambi volevano realizzare l’ideale cristiano di unire in una sola persona
cavaliere e monaco.
Tuttavia, nonostante questa affinità (oppure proprio per questo) le due
comunità erano rivali molto accanite, litigavano spesso e talvolta
combattevano perfino fra loro, anziché agire insieme contro i Musulmani.
Il cronista inglese Matteo Paris, un critico spietato dei cavalieri
Templari, sosteneva perfino che la Terrasanta fosse stata persa solo a causa
delle continue liti tra i due maggiori Ordini cavallereschi. Su questo però
egli esagera davvero, perché in linea di principio le due confraternite si
trovavano d’accordo, nonostante la competizione tra loro.
I regolamenti di entrambi gli Ordini vietavano per questo di accettare
 

cavalieri che erano stati appena congedati da altre comunità o che erano
fuggiti e i Templari che si fossero trovati separati dai compagni sui campi
di battaglia, avrebbero invece dovuto affidarsi al più vicino reparto degli
Ospedalieri.
I conflitti che scoppiavano continuamente fra le due comunità erano
originati dunque principalmente dalla loro affinità: i Templari e gli
Ospedalieri, per tutta la loro esistenza, aspirarono alla ricchezza e ad aver
influenza in Terrasanta e in questo si intralciarono vicendevolmente.
Per lo più litigavano in modo civile, talvolta tuttavia giunsero a vere e
proprie operazioni militari. Incidenti come la battaglia nelle strade di
Akkon (1258) tra Templari e cavalieri di San Giovanni suscitavano
autentico orrore e in Occidente aprivano serie discussioni se non fosse il
caso di fondere le due organizzazioni per porre fine all’eterna rivalità.
Nel 1294 la Chiesa convocò un Concilio a Lione per dibattere
espressamente questo problema. In questa occasione però, i due Ordini
furono d’accordo e non se ne parlò!
In fondo una fusione dei Templari con l’Ordine Teutonico sarebbe stata
più comprensibile, perché queste due comunità, per carattere, si
assomigliavano maggiormente; infatti l’Ordine Teutonico, riconosciuto
ufficialmente da papa Innocenzo iii nell’anno 1199, nei suoi primi anni
aveva preso palesemente come modello i Templari.
Il loro regolamento copiò, in merito alle faccende militari e disciplinari,
esattamente quello dei Templari.
I cavalieri Teutonici portavano perfino la stessa divisa, cioè un mantello
bianco su cui spiccava una croce nera (anziché quella rossa dei cavalieri
Templari).
Naturalmente i Poveri Fratelli si arrabbiarono per questa sfacciata
copiatura (come si sarebbero potuti attribuire, soprattutto, i meriti in una
battaglia con certezza, se gli Ordini si assomigliavano tanto da poter essere
scambiati?).
Anche perché questi “cinghialetti” (così venivano chiamati dai Templari
i cavalieri Teutonici) pretendevano una parte del bottino, che sarebbe
spettato ai Templari.
Tuttavia la loro protesta non servì a nulla e la divisa dei cavalieri
Teutonici rimase tale e quale, anzi le cose peggiorarono: papa Onorio iii
(1216-1227) garantì al nuovo Ordine una posizione completamente
equiparata a quella dei Templari e dei cavalieri di San 
Giovanni e tutti i privilegi, faticosamente conquistati dai Poveri Fratelli,
per i Teutonici piovvero semplicemente dal cielo. In questo modo questo
 

Ordine ottenne la massima considerazione nell’Oriente cristiano, con
grande rabbia dei Templari e dei cavalieri di San Giovanni.
I Templari avrebbero potuto, almeno in linea di principio, essere u-niti
all’Ordine di San Lazzaro, ma anche di questo non si parlò al Concilio di
Lione. Come i cavalieri di San Giovanni, l’Ordine di San Lazzaro curava
anche i malati, in ogni caso esclusivamente lebbrosi, e da questo deriva la
definizione “lazzaretto”.
Il braccio militare di questa confraternita era composto proprio da
lebbrosi, che preferivano cercare una morte gloriosa in battaglia, piuttosto
che farsi divorare lentamente dalla malattia. Si può facilmente immaginare
quale angoscia e terrore devono aver seminato i cavalieri segnati dalla
lebbra, anche dalla parte cristiana, del resto.
I Templari che si ammalavano di questa terribile malattia, erano pregati,
per regolamento, di trasferirsi all’Ordine di San Lazzaro e anche per questo
motivo i due Ordini mantenevano contatti amichevoli, probabilmente
perché i lebbrosi non potevano fare una seria concorrenza ai Poveri
Fratelli.
Nel 1291, nell’ultima battaglia per la Terrasanta, i due gruppi
combatterono persino nello stesso corpo d’armata in difesa di Akkon.
Nonostante la Chiesa, per anni, avesse seriamente pensato
all’unificazione dei Templari e dei cavalieri di San Giovanni, questo
progetto non venne mai realizzato, principalmente perché i sovrani
d’Europa non potevano assolutamente accettare l’idea di un unico Ordine
cavalleresco che, composto in questo modo, sarebbe diventato un elemento
di potere centrale in Occidente e avrebbe costituito una massiccia minaccia
per l’autorità reale.
Filippo il Bello avrebbe persino scambiato il suo regno con questo
nuovo superordine; infatti dichiarò di essere pronto ad abdicare come re
per assumere la carica di Gran Maestro dei due Ordini riuniti, Templari e
cavalieri di San Giovanni.
Questa offerta però non aveva nulla a che fare con la devozione: Filippo
sperava in questo modo di prendere in mano il potere militare e
finanziario, ancora notevole, di entrambi gli Ordini, mentre il regno di
Francia sarebbe andato a un suo parente prossimo.
Preoccupato perché la sua truppa mantenesse la propria identità,
Giacomo di Molay scrisse, nel 1305, su precisa richiesta del papa 
Clemente v, una valutazione sui prò e i contro di una fusione e (la cosa
non desta meraviglia) respinse definitivamente l’argomento.
–  «La concordia è l’anima del commercio», diceva Giacomo Devis
 

 
(anche se con altri termini) e quindi solo finché i due Ordini
rivaleggiavano fra loro per le donazioni e per gli uomini più forti,
avrebbero potuto dare il loro meglio, mentre una fusione avrebbe portato
solo lentezza e rigidità.
– Nelle azioni militari un Ordine si occupa, di volta in volta,
dell’avanguardia e l’altro della retroguardia.
Se ora i due Ordini si fossero riuniti, in futuro gli eserciti si sarebbero
trovati sia senza avanguardia, che retroguardia e le perdite sarebbero state
spaventose.
Comunque si farebbe torto a Giacomo di Molay se lo si sottovalutasse a
causa del modo assurdo con cui ha condotto l’argomentazione, infatti
nasconde astutamente, nel punto che sembra fungere da conclusione,
l’argomento più importante contro la fusione.
–  L’Ordine unito sarebbe divenuto “tanto forte e potente” da poter
difendere i propri diritti contro chiunque. Questo avvertimento era rivolto
ai re cristiani che mandarono a monte la fusione dei due Ordini, per
sempre.
Questo pericolo sembrava ormai evitato.
 
 
 
Tuttavia mentre i Templari si preoccupavano di allontanare il pericolo
per la sovranità dell’Ordine, si avvicinava la sciagura da una direzione del
tutto inaspettata. Al più tardi nell’anno 1305 corsero strane voci sui
Templari, che non erano più accusati delle solite cose, invidia, avarizia e
cupidigia, ma di eresia, sodomia e idolatria.
Ben presto si trovò anche un teste: Esquieu di Floyran, un cavaliere
escluso dall’Ordine. Per prima cosa Esquieu tentò di vendere ciò che
sapeva al sovrano aragonese Giacomo ii, che fece orecchie da mercante
non dimostrando alcun desiderio di mettersi contro l’Ordine cavalleresco
che gli aveva reso servizi tanto rimarchevoli nella lotta contro i Mori e che
lo avrebbe fatto anche in futuro.
L’ex Templare si rivolse quindi, verso la fine dell’anno 1306, alla corte
francese sostenendo di essere a conoscenza di “atrocità inaudite” che
avrebbe potuto raccontare e alcuni signori, qui, ascoltarono con interesse
questo ambiguo personaggio.
Guglielmo di Nogaret e Guglielmo di Plaisians, due consiglieri del re,
presero queste accuse per oro colato e ordinarono indagini segrete.
 

 
Introdussero spie nell’Ordine e indubbiamente lo fecero su espresso
comando di Filippo, a cui il sospetto contro i Templari tornava molto
comodo.
Lo storico Alain Demurger arriva addirittura a supporre che, già nel
1303, subito dopo la composizione della sua lite con il papa, il re avesse
fatto i primi progetti per riuscire a sconfiggere l’Ordine. Si può quindi
pensare che le voci siano state messe in circolazione proprio direttamente
da lui.
All’alba del 13 ottobre 1307 le forze di polizia reali arrestarono tutti i
Templari di Francia con l’accusa di eresia. La sorpresa era riuscita:
disorientati e senza difesa i Fratelli si lasciarono condurre via e
praticamente nessuno tentò la fuga.
Una delle più imponenti azioni di polizia della storia si era conclusa con
un completo trionfo per il re.
Dalle più di mille sedi, distribuite in tutto il paese, in cui ebbero luogo
contemporaneamente i rastrellamenti, furono condotti via 546 Templari.
Ufficialmente sfuggirono in tutto dodici Templari e tra loro un unico
dignitario, il Precettore di Francia Gerardo di Villers.
I capi dell’Ordine, che mantenevano per tradizione stretti legami con la
casa reale e di solito avevano a disposizione le migliori informazioni,
questa volta non ebbero presentimenti, come il resto del popolo dei
Templari, tanto che Giacomo di Molay, persino alla vigilia dell’arresto,
aveva ascoltato una messa con re Filippo.
Per parecchi motivi l’azione nel suo insieme fu assolutamente inaudita:
– in primo luogo un tempo sarebbe stata illegale, poiché i Templari non
erano sottoposti ad alcuna giurisdizione laica, ma solo e unicamente al
papa.
–  Inoltre il re, nella sua lettera di protezione del 1303, si era fatto
personalmente garante per la sicurezza dei Poveri Fratelli.
– Le accuse contro l’Ordine sembrano campate in aria. Perché allora il
processo?
 
 
 
Per molto tempo si è cercato di capire il motivo che spinse Filippo il
Bello a fare il processo ai Templari.
Ininfluente è infatti se le accuse contro i Templari fossero plausibili o
no, il processo non si sarebbe mai tenuto se Filippo non lo avesse
sollecitato con tutte le sue forze. Ma che cosa si aspettava «il più
 

misterioso di tutti i re francesi»? (Pernoud, p. 97).
La maggior parte degli autori sospettano che si nascondesse cupidigia
dietro l’azione, poiché il suo continuo aspirare all’oro nel corso del suo
regno, si era tramutato lentamente in ossessione.
Già nell’anno 1291, Filippo, afflitto da una cronica mancanza di denaro,
si era messo contro i banchieri lombardi e, nell’anno 1305, contro gli
Ebrei.
In entrambi i casi aveva usato lo stesso metodo: faceva arrestare le
vittime che potevano poi ricomprare la loro libertà in cambio di un 
adeguato riscatto. Si pone in ogni caso l’interrogativo di quanto fosse
ancora ricco l’Ordine dei Templari all’inizio del xiv secolo.
Le indicazioni in proposito sono molto contraddittorie, alcuni autori
sostengono che i Templari avessero sacrificato i loro ultimi averi nella
lotta contro i Musulmani e che non possedessero più nulla.
Altri invece parlano di incommensurabili tesori che si trovavano
presumibilmente nelle mani dei cavalieri.
La verità sta quasi sempre nel mezzo: probabilmente i Templari avevano
davvero poco oro nei loro forzieri, tuttavia possedevano ancora mille
aziende agricole in tutta la Francia.
Accanto a questo tipo di considerazioni finanziarie, che ebbero
certamente importanza per Filippo, vi erano altri motivi di politica interna
per la distruzione dell’Ordine dei Templari.
Il re allora si faceva portavoce di una rivendicazione universale nel
regno e se lo avesse sciolto, l’Ordine non avrebbe più potuto in alcun modo
contrastare i suoi progetti, quindi se voleva avere la certezza che i
Templari non avrebbero più costituito un problema per lui, doveva
disperderli definitivamente. Giacché finché c’era, la confraternita
rappresentava un pericolo potenziale che non poteva essere totalmente
escluso e chi poteva sapere come si sarebbero messe le cose con loro
quanto a lealtà?
Filippo inoltre sperava, con il processo, di indebolire il papa. Con quanta
brutalità potesse agire Filippo nella lotta di potere contro il soglio
pontificio, Filippo lo aveva appena dimostrato nel 1303 a papa Bonifacio
viii che, all’apice del contrasto, lo aveva fatto arrestare. È vero che
Bonifacio riuscì a fuggire, ma «profondamente scosso» era morto tre
settimane più tardi (Sippel, p. 211) e al suo successore non andò molto
meglio: Clemente v, infatti, dovette stare a guardare impotente Filippo che
batteva l’Ordine dei Templari, come se si fosse trattato di una pedina di
scacchi scoperta, per indebolire il papa.
 

Non era ancora del tutto chiaro da che parte stessero i Poveri Fratelli,
anche se Ugo di Peiraud aveva appena annunciato che avrebbe difeso la
Francia persino contro il papa.
Se si deve credere alla storica Monika Hauf, un ulteriore motivo ebbe
grande importanza per il re: l’odio. Secondo la teoria della Hauf, i
Templari avrebbero rifiutato a Filippo la possibilità di divenire membro
onorario dell’Ordine, cosa di cui avevano goduto papa Innocenzo iii e
Riccardo Cuor di Leone. Questo appare tuttavia un 
motivo debole per un odio tanto profondo e la storia che Filippo avesse
fatto togliere dalla tomba le spoglie del Templare tesoriere di suo padre, le
avesse fatte calpestare e spargere ai quattro venti, (Hauf, p. 180) appartiene
alla leggenda.
Può darsi tuttavia che l’orgoglio ferito abbia potuto realmente giocare un
ruolo importante: infatti nell’anno 1306 Filippo aveva dovuto sfuggire a
una folla inferocita, proprio nella casa madre del Tempio parigino!
E anche pensabile che i Fratelli avessero fatto andare in bestia il re con
la loro impertinenza, del resto la loro arroganza aveva già provocato altri
sovrani d’Europa.
A metà del xiii secolo, l’imperatore tedesco Federico ii, con una lettera
di fuoco alle altra case reali dell’Occidente, si lamentava a buon diritto
della loro superbia, come dimostra l’estratto di uno scritto dei Templari al
re inglese Enrico iii, citato da Andrew Sinclair: «Oh se la vostra bocca non
balbettasse simili sgradevoli sciocchezze!» (Sinclair, p. 37).
Cupidigia, sete di potere e forse perfino odio erano quindi probabilmente
i motivi che spinsero Filippo a intentare il processo contro i Templari.
Per prima cosa dovette legalizzare l’arresto, per ottenere il permesso del
papa, ma Clemente v indugiava, in attesa che capitasse qualche cosa di
imprevisto, poiché Giacomo di Molay in persona lo aveva pregato di aprire
una revisione del processo. Con questa mossa il Gran Maestro tentava di
eliminare una volta per tutte le calunnie contro l’Ordine.
Il 24 agosto 1307, dunque, il papa comunicò al re che avrebbe aperto
un’inchiesta ufficiale sull’Ordine dei Templari e, almeno da questo
momento, i Poveri Fratelli avrebbero dovuto stare in guardia.
L’ondata di arresti del 13 ottobre invece giunse del tutto inaspettata, in
primo luogo per la mostruosità dell’atto, secondariamente per la minuziosa
pianificazione e la rigorosa segretezza.
Già molto prima del giorno dell’attacco erano giunte lettere sigillate ai
Baillis (che sta per capi della polizia) delle provincie. In questi dispacci il
re aveva chiarito la motivazione degli arresti e ordinato il momento preciso
 

 
e le modalità del rastrellamento.
«I Fratelli della milizia del Tempio, che nascondono un’anima da lupo
sotto un vello da pecora sarebbero stati – secondo il re – pesantemente
sospettati di rinnegare Cristo, di sputare sulla croce, di 
lasciarsi andare a gesti osceni all’ingresso nell’Ordine (…)»• Dopo
l’elencazione dei capi d’accusa la lettera proseguiva ipocritamente,
affermando che naturalmente solo la Chiesa avrebbe potuto giudicare i
Templari ma nel frattempo il re avrebbe requisito i loro beni e li avrebbe
conservati devotamente.
 
 
 
Sabato 14 ottobre 1307, Filippo fece affiggere pubblicamente le
motivazioni che avevano portato all’arresto di tutti i membri dell’Ordine e,
per eliminare con astuzia l’indignazione generale, affermava di non aver
egli stesso voluto credere subito a quei comportamenti scandalosi, ma che
il suo dubbio iniziale si era tuttavia tramutato in pesante sospetto.
Due giorni dopo egli indirizzò lettere ai potenti della cristianità, perché
facessero la stessa cosa. Perché?
Credeva davvero alla corruzione dell’Ordine, o quantomeno voleva
darne l’impressione? Forse aveva anche timore che un Ordine
sopravvissuto in Spagna o in Inghilterra avrebbe potuto, un giorno
vendicarsi, sul re francese.
In ogni modo, l’appello di Filippo non ebbe il successo sperato in quanto
Edoardo ii d’Inghilterra inviò immediatamente una lettera ai sovrani di
Portogallo, Castiglia, Aragona e Sicilia in cui li metteva in guardia dal
credere alle calunnie diffuse esclusivamente per cupidigia.
Il papa era indignato, non solo perché Filippo aveva fatto arrestare
illegalmente i suoi protetti, ma perché ora esortava anche gli altri sovrani
d’Europa a imitarlo.
Nel frattempo gli sgherri del re continuavano a interrogare i loro
prigionieri, «con l’uso della tortura, quando ciò si dimostrava necessario»
(Pernoud, p. 101).
Trattando i Templari in modo così scandaloso, Filippo prendeva a calci
l’autorità del papa, un effetto collaterale molto gradito poiché, in questo
modo, egli poteva dimostrare al soglio pontificio chi davvero governasse
in Francia e da solo! Clemente v, un papa debole e malato, scrisse
innanzitutto una lettera di protesta «Il vostro comportamento è un insulto
nei nostri confronti» al re francese, che semplicemente la ignorò.
 

Tuttavia, il 22 novembre 1307, Clemente v pubblicò una bolla,
Pastoralis praeminentiae (sulle prerogative della Chiesa), in cui
sorprendentemente non si faceva parola dell’innocenza dei Poveri Fratelli.
Invece Clemente v ordinava di arrestare i membri dell’Ordine in tutta
Europa e a Cipro e di confiscare i loro beni a nome della Chiesa.
Per quale motivo questo cambiamento d’opinione? Clemente v sosteneva
di esser stato convinto dalle confessioni dei prigionieri nonostante egli
sapesse certamente che queste dichiarazioni erano state estorte con la
tortura.
Ancora oggi appare sorprendente la decisione del papa:
– pur ritenendo le accuse assurde pubblicò la Bolla solo per riportare il
processo contro i Templari sotto il controllo della Chiesa?
Ma perché allora allargare l’accusa a tutti i Templari d’Europa?
– Lo fece forse per assicurare alla Chiesa i beni dell’Ordine, perché
riteneva che i Poveri Fratelli avrebbero perso il processo? Anche in questo
caso ci si chiede perché Clemente allargò a tutti i Templari il processo,
anziché limitarlo alla Francia. Fu per cupidigia?
– Oppure Filippo e Clemente in questa faccenda stavano dalla stessa
parte? E certo che la scelta dell’arcivescovo di Bordeaux di allora,
sostenuta dal papa, andò in porto per il massiccio appoggio del re francese.
Ringraziava forse ora il papa, immolando i Templari? Dante Alighieri,
contemporaneo della faccenda, vedeva le cose in questo modo e nella sua
Divina commedia profetizzava che Clemente v per «la distruzione del
Tempio di Gerusalemme» sarebbe arrostito all’inferno (Inf. xix).
Come per ogni altra congettura, si ripropone il medesimo interrogativo
sul motivo per cui il papa fece fare il processo ai Templari anche al di fuori
della Francia. Probabilmente intendeva riprendere nelle proprie mani
l’iniziativa del processo e impedire che anche in altri paesi europei i
sovrani laici potessero prendere il sopravvento nell’assicurarsi questa
priorità. Tuttavia Clemente v si dimostrò troppo debole e così accadde
esattamente il contrario: i re che fino a quel momento erano stati dalla
parte dei Templari, arrestarono i Poveri Fratelli e confiscarono i loro beni e
certamente non nell’ottica di restituirli in futuro.
Con la sua Bolla del 22 novembre 1307, il papa Clemente v annunciava
il tramonto dei Templari, poiché la principale accusa,
quella dell’eresia, vi era ripetuta e quindi ufficialmente riconosciuta da
parte della Chiesa.
Clemente v riteneva veramente colpevoli i Templari? È verosimile,
poiché un mese prima il Gran Maestro aveva ammesso tutto di persona: il
 

25 ottobre 1307, Giacomo di Molay (che non era stato torturato!) dichiarò
pubblicamente che tutte le accuse corrispondevano alla verità ed esortava i
suoi confratelli a smettere di negare. In dicembre, però, ritrattò la sua
confessione, che avrebbe reso solo per paura della tortura.
Ma ormai il papa aveva pubblicato la sua Bolla e per salvare la faccia
Clemente v doveva bere l’amaro calice fino in fondo (la fine dell’Ordine).
I Templari si erano macchiati veramente di idolatria, omosessualità ed
eresia? Per il momento è bene mettere da parte questo interrogativo,
poiché non ha alcuna importanza per il corso del processo, infatti Filippo il
Bello voleva vedere la condanna e lo scioglimento dell’Ordine, e impose la
sua volontà usando tutto il suo potere.
Nonostante nell’agosto del 1308 fosse iniziata un’indagine delle autorità
ecclesiastiche, che fondamentalmente procedette nello stesso modo.
Clemente v tentò cioè di sottrargli la faccenda in tutti i modi, ma Filippo si
dimostrò semplicemente più forte: il re francese mise il papa pesantemente
sotto pressione, facendolo accusare di nepotismo in volantini anonimi.
Inoltre, da allora in poi, egli sobillò tutto il paese contro l’inerzia del soglio
pontificio nei confronti dei Templari, questa «peste distruttiva», contro cui
tutto e tutti avrebbero dovuto insorgere. La reazione dei re europei al
comando papale di arrestare i Templari fu molto diversa e dipese
fortemente dal ruolo politico dell’Ordine in ogni singolo paese.
Nella Penisola Iberica i Fratelli avevano ancora molte potenti fortezze e
adempivano a un compito importante nella lotta contro i Musulmani,
perciò qui furono trattati generalmente con guanti di velluto e solo in
seguito a una seconda energica Bolla papale, i re di Castiglia e Portogallo
acconsentirono agli arresti.
Anche re Edoardo d’Inghilterra, che come prima era convinto
dell’innocenza dei Templari, ubbidì all’ordine papale solo controvoglia e il
20 dicembre 1307 mandò dispacci ai suoi Bailiffs  (capi della polizia) di
colpire l’8 gennaio e arrestare tutti i Templari dell’isola.
In Irlanda i rastrellamenti cominciarono solo all’inizio di febbraio e in
entrambi i casi la notizia – riservatissima – dell’azione imminente trapelò
(forse persino intenzionalmente) in modo che i Templari avessero una
possibilità di fuga.
Se il numero di 135 arresti, visto questo avvertimento, sia da considerare
alto o basso, è da valutare, in ogni caso i beni dei Templari furono
incamerati da re Edoardo.
Quel che è certo è che anche in Italia parecchi Fratelli fuggirono ma
dove si rifugiarono e se fossero riusciti a salvare persino i tesori e
 

documenti segreti dell’Ordine, non è dato sapere.
A un primo sguardo appare degno di nota che una confraternita tanto
orgogliosa e combattiva si sia lasciata arrestare praticamente senza opporre
resistenza.
Tuttavia proprio in Francia, dove un’energica difesa avrebbe forse
ancora potuto evitare la catastrofe, i Templari possedevano solo feudi, ma
nessuna fortezza e una lotta sarebbe dunque stata senza senso.
Soltanto in Aragona e a Cipro i Templari in un primo momento, si
barricarono nei castelli, ma presto rinunciarono.
Passarono nove mesi prima che giungesse l’ordine del papa, diffuso
nell’intera Europa: i Templari erano ormai in carcere e i loro beni
sequestrati. Le indagini nei confronti dell’Ordine si trascinavano.
Nonostante il processo dell’agosto 1308 dipendesse dalla Chiesa,
fondamentalmente un solo uomo ne dirigeva tutto lo svolgimento: re
Filippo.
Egli costrinse il papa a una concessione dopo l’altra e alla fine nella
commissione d’inchiesta ecclesiastica sedevano in prevalenza vescovi
conosciuti come strenui sostenitori di Filippo. Clemente v non poteva fare
più nulla per i Templari, se non ritardare il processo se gli si fosse
presentata l’opportunità, poiché su come il processo si sarebbe concluso
non vi fu più ben presto alcun dubbio in quanto le confessioni dei
Templari, ottenute con la tortura, confermarono tutti i punti dell’accusa.
Il processo fu diviso in un primo procedimento, che avrebbe dovuto
giudicare la colpa dei singoli membri dell’Ordine e un secondo processo,
davanti a una commissione giudicante, che non si sarebbe rivolto contro i
Fratelli ma contro il Tempio come organismo.
Questa audizione apparve in un primo tempo come favorevole per
l’Ordine, poiché – fino all’aprile del 1310 – si presentarono seicento
Templari prigionieri che volevano deporre in difesa della loro
confraternita.
Furono nominati quattro Fratelli esperti in diritto che avrebbero dovuto
parlare per la totalità dei cavalieri. Improvvisamente quegli uomini, pur
duramente colpiti, ripresero nuovo coraggio e la loro difesa guadagnò in
risolutezza e convinzione.
Ma Filippo non si lasciò certo fermare a così breve distanza della meta.
Nel maggio del 1310 fece in modo che 54 prigionieri, che avevano
confessato nei loro primi interrogatori, ma poi davanti alla commissione
avevano ritrattato, fossero bruciati sul rogo come eretici recidivi.
Come re egli non poteva giudicare direttamente questi uomini, ma
 

 
l’arcivescovo della provincia ecclesiastica di Sens era un fedele sostenitore
di Filippo e in questa faccenda fu lieto di fargli un favore. Nei giorni
successivi si vide il fuoco a Senlis, Pont-de-1’Arche e più tardi a
Carcassonne.
Il messaggio era fin troppo chiaro: chiunque avesse testimoniato in
favore del Tempio, sarebbe morto sul rogo.
Per dare maggiore enfasi, Filippo fece trattare tutti i testimoni, prima
delle loro deposizioni, dai suoi torturatori e il fatto che fossero spariti
senza lasciar traccia i due più importanti difensori dei Templari,
difficilmente fu casuale.
Così si concluse la resistenza dei Fratelli.
Alla fine del processo gli accusati dissero tutto ciò che si pretendeva da
loro, volontariamente.
Circa un anno dopo, il 26 maggio 1311, il papa dichiarò chiuse le
indagini e il 16 ottobre si riunì il Concilio di Vienne, per decidere il
destino dell’Ordine.
Di nuovo i principi della chiesa esitarono a condannare i Templari e di
nuovo Filippo mise il papa sotto pressione in modo tanto massiccio che
egli dovette cedere. Il 20 marzo il re francese dichiarò che la sua pazienza
era finita e annunciò che avrebbe marciato con il suo esercito su Vienne.
Clemente v comprese la minaccia e agì. Già due giorni dopo decise «con
la morte nel cuore» e passando sopra i capi del Concilio, lo scioglimento
dell’Ordine dei Poveri Fratelli di Cristo.
Fino al 6 maggio del 1312 gli uomini di chiesa, riuniti nel Concilio, si
consultarono su interrogativi pratici in merito alla liquidazione dell’Ordine
e in particolare sulla spartizione dei beni e fu così che l’intero avere del
Tempio andò all’Ordine dei cavalieri di San Giovanni, tranne che nella
Penisola Iberica.
Infatti solo nel 1317 la Chiesa trovò una soluzione per Spagna e
Portogallo: in Portogallo il nuovo Ordine di Cristo entrò in possesso
dell’eredità dei Poveri Fratelli, in Spagna furono riuniti i possedimenti di
Templari e Ordine di San Giovanni, in parte sotto il tetto degli Ospedalieri,
in parte a favore dell’Ordine cavalleresco di Montesa, appena fondato.
 
 
 
Gli inquisitori papali posero a tutti gli accusati le medesime 87 e 127
domande (rispettivamente per il processo contro i singoli Fratelli e quello
contro l’Ordine nel suo insieme) che erano annotate in due registri, redatti
 

con precisione.
Per omogeneità di contenuto queste accuse si possono classificare in sei
categorie:
– Negazione di Cristo.
– Tenere riunioni segrete nelle quali si venera un capo magico.
– Disprezzo dei Sacramenti.
– Pratiche di idolatria e omosessualità.
– Assoluzione data da laici.
– Cupidigia.
In primo luogo salta agli occhi che questa lista altro non è che un elenco
di misfatti contro la società medioevale e per questo adatti a distruggere
per sempre la reputazione dell’Ordine dei Templari tra la popolazione.
La negazione di Cristo e il disprezzo dei Sacramenti erano elementi
dell’accusa contro i Catari che furono perseguitati come eretici e, all’inizio
del xiii secolo, giustiziati.
La presunta adorazione di un capo magico (Idolatria) avrebbe dovuto
porre i Templari vicino all’Islam, poiché l’Europa cristiana del xiv secolo
riteneva i Musulmani, erroneamente, degli idolatri.
Guglielmo di Nogaret, l’autore del primo atto d’accusa e uno dei più
importanti consiglieri del re, applicava del resto il suo metodo, da tempo
collaudato, che consisteva nell’incolpare ogni nemico di eresia, fosse anche
il papa, come nell’anno 1303 aveva sperimentato Bonifacio viii sulla sua
pelle, quando era stato arrestato dagli sgherri di Nogaret.
Nel caso poi che l’accusa di eresia e di conversione all’Islam non
dovessero bastare, Guglielmo di Nogaret aggiunse altri due punti che
fecero certamente la loro parte nello screditare i Templari agli occhi del
pubblico: omosessualità e avidità di denaro.
La cupidigia dell’Ordine non avrebbe dovuto, del resto, mai essere
dimostrata, ma agli occhi del popolo era valida, quasi proverbiale e quello
di cupidigia era un peccato capitale e nel medioevo un’accusa standard,
tanto che anche all’Ordine di San Giovanni e a re Filippo venne sempre
imputata un’eccessiva sete di guadagno.
Ma quanto c’era di vero nelle altre accuse?
Quasi tutti i Templari confermarono, pressoché unanimi nei loro
interrogatori, il punto principale dell’accusa: tutti insieme raccontarono di
aver negato Cristo, sputato sulla croce, di averla calpestata o, addirittura, di
averci urinato sopra, al momento della loro ammissione nell’Ordine.
Anche Giacomo di Molay si esprime così in proposito: «Fratello
Umberto fece portare una croce di bronzo su cui si trovava l’immagine del
 

crocifisso e mi obbligò a negare il Cristo che era sulla croce. Io lo feci
controvoglia». Goffredo di Charney, un altro dignitario importante
dell’Ordine, testimoniò di aver dovuto dichiarare, per tre volte, Gesù Cristo
un falso profeta.
Da questi verbali d’interrogatorio si rileva che questi dignitari non solo
avevano essi stessi fatto un certo giuramento, ma lo avevano preteso anche
da tutti i nuovi Fratelli alla loro ammissione e pare che una simile
procedura fosse abituale non solo in Francia ma anche in Inghilterra.
John di Stokes dichiara di essere stato messo alla prova dal Gran
Maestro in persona: Giacomo, mostrandogli un ritratto di Gesù Cristo sulla
croce, gli avrebbe chiesto che cosa significasse, John avrebbe risposto che
si trattava del ritratto di Gesù Cristo che aveva sofferto sulla croce per la
redenzione dell’umanità, ma Giacomo di Molay avrebbe detto: «Dici il
falso, ti sbagli di gran lunga, poiché questi è il figlio di una donna e fu
crocifisso perché sosteneva di essere il figlio di Dio» (l’intera narrazione è
tratta da Charpentier, p. 218). Che cosa si nasconde dunque dietro a queste
dichiarazioni? Louis Charpentier sottolinea che entrambe le suddette
citazioni non sono state fatte sotto tortura e la seconda non proviene
assolutamente dai verbali dell’inquisizione, per questo, conclude,
corrispondono a verità.
A questo punto occorre quantomeno riflettere sul fatto che se tanto
Giacomo di Molay, quanto Goffredo di Charney, avessero ritrattato le loro
confessioni, sarebbero morti sul fuoco; tuttavia Charpentier, un grande
sostenitore dell’Ordine, pensa che i Templari abbiano negato davvero il
crocifisso.
La sua spiegazione in proposito suona pressappoco così: i Templari
credevano di sapere che nelle cronache giunte fino a noi sulla vita di Gesù
fossero state mescolate le storie di due persone diverse.
Non fu inchiodato sulla croce il Messia, ma un ribelle che era insorto
contro Roma e i Templari tanto onoravano il Messia, quanto
disprezzavano il malfattore giustiziato.
Secondo Charpentier evidentemente Giovanni parlava di un’altra
persona rispetto agli altri tre evangelisti.
Matteo, Marco e Luca raccontavano, secondo la sua opinione, la vita di
un rivoluzionario che si era autonominato re degli Ebrei, che si era
ribellato al dominio di Roma e che subiva per questo la giusta pena, ma
Charpentier non è, in ogni caso, in grado di raccontare quale fine abbia
fatto il vero Messia.
Da dove poi aveva origine questo “sapere” dei Templari?
 

«Non è ipotizzabile» secondo Charpentier «che i Templari, che avevano
scoperto le mura originali del Tempio di Salomone, avessero trovato
documenti in grado di far chiarezza sull’enigma di Gesù Cristo?»
(Charpentier, p. 226).
Si può supporre qualsiasi cosa, ma perché non rendere pubblico ciò che
sapevano? Charpentier ritiene che questa verità avrebbe solo confuso di
più, ma perché molti membri dell’Ordine testimoniarono di non sapere essi
stessi per quale motivo avessero negato Cristo? Per Charpentier solo pochi
iniziati anche nella Confraternita erano a conoscenza del vero e del falso
Gesù.
Tuttavia ciò starebbe a significare che i membri non iniziati dovevano
sputare sulla croce senza sapere perché e probabilmente la negazione di
Cristo, ammesso che sia stata generalmente praticata, ha origine dal
contatto con alcune sette agnostiche del vicino Oriente. Già l’insegnamento
sincretistico dei Basilidi sostiene che per quanto riguarda la persona
crocifissa, non si trattava del Messia, bensì di Simone di Cirene.
I Manichei e sette affini consideravano la croce invece uno strumento di
tortura su cui il Salvatore aveva sofferto e la condannano 
per questo, come segno di Satana. Queste opinioni, tuttavia,
contraddicono quelle della Chiesa ufficiale e sono da considerarsi eresie,
quindi il capo d’accusa sarebbe giustificato. Potevano davvero i Templari
aver ceduto a dottrine eretiche? Difficile. Indubbiamente vi fu una certa
influenza di sette, come quella dei Catari, parecchi dei quali trovarono
asilo nelle sedi dei Templari del sud della Francia dalla persecuzione
papale, all’inizio del xiii secolo; tuttavia è del tutto escluso che la filosofia
lontana dal mondo dei Catari, possa aver influenzato un Ordine
cavalleresco in quotidiana lotta armata contro i Musulmani.
L’ultima e forse la più plausibile spiegazione per lo strano cerimoniale di
adesione può essere la seguente: all’ingresso di una comunità ristretta
l’aspirante deve spesso sottoporsi a una prova, per dimostrare la sua
decisione e il suo coraggio.
Il principio dei riti di iniziazione è sempre lo stesso, anche se i gruppi
sono totalmente diversi. Sia che si tratti di associazioni studentesche, di
circoli massoni o di mafia, l’aspirante deve sforzarsi, il più delle volte, di
infrangere un tabù. Spesso i tabù da spezzare sono, persino oggi, gli stessi
di settecento anni orsono: bestemmia e omosessualità.
Alcuni fuorusciti dalla mafia testimoniano, così, che al loro ingresso
dovettero bruciare, davanti al gruppo riunito, dei libretti sacri il che,
nell’Italia profondamente religiosa, fa male al cuore anche a un malfattore
 

di professione.
Il bacio sul sedere nudo del maestro di cerimonia, (che era stato
rimproverato ai Templari) poi, è ancor oggi la prova di coraggio prediletto
per l’ingresso in molti circoli. Il concetto base di questo mito è che
l’aspirante deve realmente sforzarsi a rompere in modo visibile un tabù, per
lui sacro.
Di colpo la cerimonia di adesione dei Templari appare sotto una luce
completamente diversa: la negazione di Cristo potrebbe dimostrare che i
Fratelli erano credenti e il bacio sul sedere testimoniare la loro avversione
per l’omosessualità.
Poiché però mancano chiarimenti in quanto non è sicuro affatto che ci
fosse sempre un’iniziazione di questo tipo presso i Templari ed è probabile
che capitassero abbastanza spesso, nell’ammissione di nuovi Fratelli,
scherzi da caserma, talvolta anche molto pesanti. Un certo abate Petel dice
che dopo una simile “prova” i Templari avrebbero gridato al novizio: «Vai
a confessarti, stupido!».
La presunta dichiarazione di Ugo di Peiraud, secondo cui tutti i Fratelli
che aveva accolto erano stati iniziati nello stesso modo, perché «questo era
l’uso secondo il regolamento dell’Ordine», si deve certamente alla fantasia
di chi scriveva i verbali d’interrogatorio.
Qualunque forma abbia potuto assumere la cerimonia di adesione, quel
che è certo è che nel regolamento non se ne fa cenno alcuno.
Esisteva forse una seconda versione segreta dello statuto? Molti dei
Fratelli ascoltati testimoniano di incontri segreti di alcuni iniziati, che
avrebbero avuto luogo, per lo più, nella cappella dell’Ordine. Durante
queste riunioni le porte e addirittura il tetto sarebbero stati strettamente
sorvegliati e non sarebbe trapelata parola alcuna. Di questi incontri
veniamo, in ogni modo, a conoscenza solo da persone che non avevano il
permesso di parteciparvi e i loro racconti si basavano solo su supposizioni.
Nessun Templare ascoltato ha mai dichiarato di avervi personalmente
preso parte, tuttavia Luigi Charpentier non si lasciò scoraggiare dalla
mancanza di autentici testimoni e anziché liquidare questi incontri come
puro prodotto di fantasia, concluse che palesemente gli iniziati non
avevano fatto parola, persino sotto tortura, di queste sedute, perché gli
avvenimenti erano talmente segreti che solo i Fratelli più fedeli e più
discreti potevano esserne al corrente. I presunti testimoni dichiararono di
aver visto fugacemente solo alcune cose di queste riunioni in convento,
cioè un idolo, che per lo più descrivevano come il busto di un uomo
barbuto con occhi lampeggianti.
 

Gli accusatori tentarono con i loro questionari di saperne di più
sull’aspetto di queste strane statuette, ma ottennero numerose descrizioni
che divergevano completamente l’una dall’altra. Le immagini erano di
volta in volta di legno, di metallo, alcune avevano perfino due o tre volti e
Ugo di Peiraud affermò che l’idolo di Montpellier aveva quattro gambe,
due accanto al volto e due dietro.
Che i Poveri Fratelli inventassero le cose più truci, solo per accontentare
i propri torturatori, lo testimoniano la descrizione dell’idolo, diverso per
tutti coloro che furono ascoltati, talora come una «piccola immagine di
leone d’oro, che aveva l’aspetto di una donna» (Sippel, p. 240).
Nonostante le forze di polizia avessero cercato in tutte le sedi dei
Templari simili statuette (non importa se un uomo barbuto o una donna
dalla forma di leone) non trovarono nulla.
Da questa realtà non si possono trarre che conclusioni completamente
diverse: o non ci furono mai queste supposte immagini idolatrate e le
“descrizioni”, che del resto sono sempre contraddittorie, erano prodotti di
pura fantasia di persone che dichiaravano ciò che i loro torturatori
volevano sentire, oppure le immagini avevano un significato magico tanto
enorme che i Templari le avevano nascoste, poco prima del loro arresto,
tanto bene che rimasero introvabili. L’esistenza di questi nascondigli
spiegherebbe anche perché nelle sedi non furono trovati né oro né
documenti, nonostante un’accurata ricerca.
Gli accusatori trovarono un’unica imitazione di una statuetta: il famoso
Caput LVIII. Si è discusso fino a oggi su che cosa potesse significare questo
“Capo 58” (tradotto letteralmente), alcuni autori sostengono che il piccolo
scrigno a forma di testa umana era semplicemente un reliquiario, facendo
notare che questo tipo di reliquiari erano molto diffusi nel medioevo.
In realtà, secondo Charpentier, nel Caput LVIII si suppone vi fossero due
piccole teste umane, ma quali Santi erano rappresentati da questo “Capo
58″? Forse addirittura lo stesso Cristo, come sostiene Andrea Sinclair?
Oppure si trattava per quel “Capo 58” tanto misterioso, al contrario, di
una rappresentazione del diavolo?
Ma, nella sua audizione, uno dei Templari parlò della testa di un uomo
barbuto «con l’aspetto di Baphomet» (Sippel, p. 235). Chi era Baphomet?
Alcuni autori credono che i Templari alludessero al profeta Maometto, il
cui nome francese Mahomet, sarebbe stato deformato in Baphomet.
Gli stessi accusatori sono inclini a questa interpretazione che
dimostrerebbe visibilmente che l’Ordine nel suo insieme era passato
all’Islam, ma naturalmente questa possibilità è fuori discussione, perché la
 

fede musulmana proibisce assolutamente qualsiasi raffigurazione, però nel
Medioevo ciò non ero però ancora risaputo.
Occorre perciò ricercare altre spiegazioni per il “Capo 58”. Il nome
Baphomet  deriva forse da Bafh  (battesimo) e Meteos  (ordinazione) e si
riferisce a Giovanni Battista?
Oppure, cosa ancora più astrusa, Baphomet è la contrazione tra Battista
(Giovanni Battista) e Maometto? Oppure si allude al porto cipriota di
Baffo, in cui sorgeva un famoso Tempio? Gerardo di Sèsie e Luigi
Charpentier si dicono in ogni caso sicuri di aver trovato l’autentica
interpretazione: Baphomet deriverebbe da Bapheus méte, che si potrebbe
tradurre con “tintori della luna” (Charpentier, p. 241), alludendo agli
alchimisti, che trasformavano, infatti, l’argento (colore della luna) in oro,
con l’aiuto della pietra filosofale. Baphomet  dimostrerebbe insomma che i
Templari possedevano il segreto della pietra filosofale.
La motivazione ufficiale per l’arresto dei Templari del 14 settembre
1307 non citava però alcuna immagine di Baphomet, ma parlava di idoli in
modo assolutamente generico.
Secondo quel che si dice i Fratelli consacravano delle cordicelle
mettendole al collo di queste immagini, portavano poi queste cordicelle
sotto il saio avvolte attorno ai fianchi.
Questo capo d’accusa avrebbe avvicinato i Templari ai Catari per i quali
queste cordicelle, portate attorno ai fianchi, significavano che la persona in
questione aveva ricevuto il Consolamentum (il più alto Sacramento della
consolazione).
Poiché in tutto il processo non si fa cenno alla faccenda delle cordicelle,
la si può tranquillamente liquidare come una gran sciocchezza, come
completamente priva di fondamento sembra anche l’accusa che i preti
dell’Ordine non avrebbero detto la formula della consacrazione durante la
messa in modo che non fosse completata la trasformazione dell’ostia e del
vino in carne e sangue di Cristo durante servizi religiosi dei Templari.
Anche questo capo d’accusa ha unicamente la funzione di avvicinare
l’Ordine ai Catari, che negavano il valore di tutti i sacramenti, rendendosi
così colpevoli di un’imperdonabile eresia.
Molte dichiarazioni dei Templari sembrano provare che, per quanto
concerne le pratiche omosessuali, avrebbero accondisceso totalmente e
senza esitazione ai desideri dei confratelli.
Il bacio che avevano dovuto dare a conferma del loro giuramento, scese
nel corso del processo sempre più giù; inizialmente (1307) la recluta
baciava il Maestro “in modo osceno” sulla bocca, successivi verbali
 

d’interrogatorio parlavano di un bacio sull’ombelico e «dove terminava la
spina dorsale», mentre quattro anni dopo i baci si spostarono di nuovo: ora
i Templari erano accusati di essersi baciati tra le cosce, sull’ano e sugli
organi genitali.
Non vi può essere alcun dubbio che l’accusa di dissolutezza sessuale
contro l’Ordine fosse davvero tirata per i capelli.
Naturalmente alcuni Fratelli avevano rotto il loro voto di castità e
certamente erano arrivati anche a pratiche omosessuali, tuttavia ad
accusare l’intero Ordine di omosessualità fu un puro stratagemma
dell’accusa per rovinare la considerazione dell’Ordine tra la gente comune.
Se la società medioevale nel xii secolo era ancora abbastanza tollerante
riguardo all’omosessualità, nel xiv secolo invece l’amore fra uomini era
considerato come un peccato assolutamente contro natura.
Dopo tutte queste accuse, più o meno campate per aria, ci si può forse
stupire che un’ultima accusa, quella della assoluzione profana fosse,
invece, assolutamente giustificata.
Il regolamento dei Templari distingueva nettamente: i Fratelli dovevano
confessare pubblicamente le loro colpe contro la comunità davanti al
Consiglio riunito e accettare la loro punizione dal Maestro, mentre
confessavano i loro peccati contro i Comandamenti di Dio a un prete che
aveva il dovere di mantenere il silenzio su quanto udito e solo lui poteva
impartire l’assoluzione ed esercitare la remissione dei peccati come tramite
di Dio. In molte sedi dei Templari sembra «che si fosse arrivati a una
mescolanza, più o meno intenzionale, delle due confessioni». (Pernoud, p.
31).
Parecchie dichiarazioni di Templari, anche in Inghilterra, dove non
furono mai minacciati con la tortura, confermano questa prassi. Alcuni
capi sede, precettori provinciali e addirittura Gran Maestri, avrebbero
perciò preso la confessione dei Fratelli, nonostante fosse consentito solo ai
preti consacrati.
Nonostante la confessione pubblica e l’assoluzione data da laici
rappresentassero un brutto colpo contro il diritto ecclesiastico e tutte le
confessioni fatte in queste condizioni non fossero valide e i peccati non
venissero perdonati, durante il processo i dignitari dell’Ordine si
appellarono all’ignoranza, non avrebbero, cioè, saputo di non poter
ricevere la confessione. Si pone naturalmente l’interrogativo se potessero
realmente esser stati tanto sprovveduti, quanto pretendevano, ma risulta
difficile immaginare che i monaci guerrieri fossero tanto incerti in campo
teologico, tuttavia quasi quasi ci si può credere.
 

 
Durante le perquisizioni delle sedi le forze dell’Ordine non avevano
trovato che pochi libri; nel corso del processo, Giacomo di Molay ebbe
bisogno di un traduttore per gli atti in latino e in generale il livello
culturale della confraternita non era paragonabile con quello di altri Ordini
religiosi, poiché i Templari si sentivano guerrieri e l’erudizione non era
cosa per loro.
I punti citati rappresentavano in tutto e per tutto una raccolta completa
delle peggiori accuse possibili che un uomo del xiv secolo potesse
concepire e in questo elenco di scelleratezze ve ne erano per tutti i gusti:
eresia, magia, avidità di denaro, lussuria e bestemmia.
In fondo mancava solo l’accusa di aver adorato gatti neri ma, forse per
motivi di completezza (almeno così sembra), le Grandes Chroniques de
France  aggiungono anche questo punto supplementare, nonostante non
fosse emerso nulla dal processo.
Nel loro complesso e singolarmente i supposti misfatti sono talmente
scandalosi, che lo stesso papa si sarebbe trovato di fronte a difficoltà
enormi, se avesse tentato di correre in aiuto dei Poveri Fratelli, cosa che in
seguito tentò di fare, seppur con scarso entusiasmo.
L’accusa era dunque poco plausibile, tuttavia la punizione che colpì i
Templari non fu del tutto immeritata e l’Ordine andò in rovina per propria
colpa.
La sua colpa mortale fu di aver lasciato la retta via al più tardi alla metà
del xiii secolo e, in una totale mancanza di orientamento, di aver dato una
pessima immagine all’esterno: i Templari mostrarono una superbia
intollerabile, ciondolavano inattivi, banchettavano e ordivano intrighi
contro altri Ordini cavallereschi, la Chiesa e il re. Resero perciò le cose
facili a re Filippo per screditarli completamente di fronte alla gente.
 
Il processo contro i Templari e il loro Ordine fu fin dall’inizio una farsa,
la sentenza era già stata stabilita in precedenza.
È evidente che Filippo iv di Francia aveva ordito il «più grave assassinio
giudiziario del Medioevo» (Beck, p. 7), con l’unico scopo di mettere da
parte i Poveri Fratelli.
Come è stato detto in precedenza, non conosciamo le vere ragioni che lo
portarono a ciò, ma in sostanza nulla cambia.
Per prima cosa i metodi usati per la ricerca della verità divergono in
modo tanto radicale da ciò che oggi intendiamo per processo giusto, che si
possono ritenere a buon diritto prive di fondamento tutte le confessioni. I
prigionieri avevano solo due possibilità: chi avesse confessato, poco
 

importa cosa, sarebbe stato perdonato, chi invece, anche di fronte alla
tortura, avesse taciuto, sarebbe finito sul rogo come eretico impenitente.
Almeno in Francia non esistono testimoni, in pratica, al di fuori
dell’Ordine: infatti era possibile minacciare con la tortura solo gli accusati,
ma nessun testimone non coinvolto. Clemente v, nella sua ultima Bolla sui
Templari, dopo il Concilio di Vienne, indicava alle autorità, come si
dovessero comportare con gli accusati:
– Chi fosse innocente o, avendo confessato, avesse fatto nuovamente
pace con la Chiesa, avrebbe ricevuto una pensione e avrebbe ottenuto il
permesso di terminare la propria vita in un monastero di propria scelta,
poiché il voto monacale, fatto all’entrata nell’Ordine dei Templari, sarebbe
rimasto ancora valido.
– Coloro invece che avessero negato o ritrattato la loro confessione,
sarebbero stati puniti nel modo più severo come eretici impenitenti e
recidivi.
Clemente si riservò direttamente la sentenza per i quattro dignitari più
importanti dell’Ordine che, il 18 marzo dell’anno 1314, furono condannati
pubblicamente al carcere a vita.
Alla lettura della sentenza si ribellarono però Giacomo di Molay e
Goffredo di Charnay che proclamarono che l’Ordine e le sue regole erano
sacre e di aver confessato solo per paura della tortura, pur avendo ben
chiara la conseguenza della loro ritrattazione: lo stesso giorno furono
bruciati sul rogo come eretici.
Ben presto questa fine terribile si trasformò in un mito circondato da
un’aura di gloria.
Charpentier cita cronache secondo le quali Giacomo di Molay «attese la
morte con le mani giunte, lo sguardo rivolto alla Vergine Maria e sopportò
il fuoco imperturbabile, tanto che tutti rimasero molto stupiti»
(Charpentier, p. 269). Quand’era già in piedi sul rogo egli augurò, secondo
quel che si dice, ai propri persecutori di venire chiamati entro quello stesso
anno al cospetto di Dio, per potersi giustificare dei loro misfatti.
In effetti Clemente v morì solo un mese dopo di dissenteria e Filippo il
Bello fu stroncato in dicembre dalle conseguenze di una caduta da cavallo.
 

 
 
plari sapevano bene come uccidere un uomo e di Fratelli sfuggiti ai
rastrellamenti, che volevano vendicare il loro Gran Maestro, ve ne erano
certo a sufficienza.
L’Ordine continuava forse a esistere in clandestinità? Quella che i testi di
storia ritengono la fine dei Templari, fu forse un nuovo inizio?
Per quale motivo le forze di polizia non trovarono nelle loro sedi né
grandi ricchezze, né documenti importanti dell’Ordine? Dove si
rifugiarono i cavalieri sfuggiti all’arresto?
Domande su domande a cui si cercherà di dare una risposta nel’ultima
parte del libro.
 

 
 
 
Secondo la storiografia ufficiale, l’Ordine dei Templari finì tragicamente
con la spartizione dei suoi beni e col rogo per l’ultimo Gran Maestro,
tuttavia nella credenza popolare rimase vivo. I miti che si erano formati
intorno ai Templari, in vita, e che erano stati anche parzialmente
responsabili del loro declino si svilupparono ora più che mai. A questo
punto si pongono due interrogativi: per quale motivo i miti tendevano ad
avvolgere i Poveri Fratelli di magia? Perché nessuno spende più oggi un
pensiero per i cavalieri di San Giovanni, nonostante fossero
fondamentalmente tanto simili ai Templari, mentre questi ultimi
affascinano ancora la gente?
In merito al primo interrogativo occorre precisare che, fin dall’inizio,
l’Ordine riuniva in sé alcune caratteristiche in grado di accendere la
curiosità delle masse: la combinazione assolutamente innovativa di
cavaliere e monaco, il disprezzo della morte e la quasi inesauribile
ricchezza. Al formarsi delle voci contribuì naturalmente il fatto che i
Fratelli si mostrassero all’esterno superbi e arroganti, per lo più totalmente
separati dal resto del mondo quasi sentissero di appartenere a un elite e
 

frequentassero malvolentieri la plebe.
I Templari non tentarono mai di correggere alcuna credenza popolare, il
più delle volte sembrava che godessero di quest’aura di mistero che li
circondava. Secondo Lincoln/Baigent/Leigh persino i capi supremi
dell’Ordine, i papi, credevano che nelle sedi dei cavalieri Templari
accadessero cose strane e sostengono che papa Innocenzo iii, nel 1208, li
avesse «richiamati all’ordine per comportamenti poco cristiani» e «aveva
apertamente parlato di esorcizzazione degli spiriti».
(Lincoln/Baigent/Leigh, p. 68). Di certo tutti i francesi sospettavano da
tempo che i Templari praticassero eresia, omosessualità e magìa, tanto che
l’accusa parve solo la dimostrazione definitiva della colpa dell’Ordine. “La
pubblica opinione italiana”, ieri come oggi apparentemente poco asservita
all’autorità, non credeva, al contrario dei francesi, una sola parola circa le
accuse e riteneva il processo per quello che era: una farsa. Per quanto
diverse possano essere state le reazioni immediate all’annientamento
dell’Ordine, alla fine del xiv secolo ci si era comunque dimenticati, tanto
del processo quanto dei Templari, in tutta Europa. Fino ai tempi della
Riforma non rappresentò che un’oscura nota a piè di pagina della storia
delle Crociate e solo dopo si tornò a prestare sempre più attenzione al
destino dei Poveri Fratelli, fino a trasformarsi, con l’Illuminismo e nel xx
secolo, in vero e proprio fascino.
Da dove scaturisce questo grande interesse per una confraternita ormai
tramontata da tempo?
Si basa prevalentemente sul fatto che l’Ordine avesse avuto una fine così
rapida e così tragica, accompagnata da molti interrogativi mai chiariti. Qui
sta la fondamentale differenza con l’Ordine di San Giovanni che, come
crociati, oggi sono stati praticamente dimenticati: nessun Ospedaliero andò
mai sul rogo, l’Ordine non fu mai vittima di un intrigo politico, inoltre
ancor oggi è possibile vedere all’opera la confederazione di San Giovanni e
su queste basi non si costruiscono i miti.
Tutto il cumulo di segreti dei Templari li portò a morire e a una seconda
vita.
Nella testa e nel cuore di molti l’Ordine è ancora vivo più di seicento
anni dopo la morte dell’ultimo Gran Maestro.
 
 
 
 
 

 
 
 
Molti credono persino che i Templari abbiano continuato a esistere, non
solo nella nostra fantasia, ma che l’Ordine sia sopravvissuto al colpo
mortale e che in segreto prosperi ancor oggi. Un gran numero di libri e di
teorie sono stati pubblicati su questo tema, molti autori hanno speso anni
per dimostrare che i Templari fossero in grado di fare cose incredibili:
avrebbero, così, scoperto l’America del nord cento anni prima di Cristoforo
Colombo, inventato il gotico e ricavato immense ricchezze dalle miniere
d’argento del Sud America o con l’utilizzo della pietra filosofale, sottratta
agli sbirri di Filippo e messa al sicuro in un luogo sconosciuto. Altri li
vedono come i protettori del Santo Graal, che possedevano inoltre la
capacità di predire il futuro. Molte organizzazioni, per lo più circoli
massoni, sostengono di essere i diretti discendenti dell’Ordine oppresso e
per dimostrarlo esibiscono sempre documenti storici.
Comunque si valuti il contenuto di verità delle singole affermazioni, si
dovrebbe apprezzare lo sforzo degli autori, perché hanno dovuto usare una
gran fantasia per sviluppare e dimostrare le singole teorie. È bene
premettere che questa parte del libro si allontana dal terreno sicuro delle
affermazioni scientifiche e verificabili e si inoltra nel campo, sempre
incerto, della speculazione. Non si deve tentare di esprimere un giudizio
sulle idee esposte qui di seguito, poiché si rasenterebbe la presunzione. La
storia ufficiale dei Templari è già di per sé mal supportata da documenti o
da altre prove e rimane nell’ambito speculativo. Per quanto riguarda la
“dimostrazione” delle tesi presentate in questa parte si devono usare unità
di misura totalmente diverse. Una tesi è accettabile finché non può essere
totalmente confutata.
Il gruppo di ricercatori Lincoln, Baigent, Leigh, autentici maestri nel
costruire teorie che non possono essere né dimostrate né confutate, indica
il proprio metodo con la denominazione di «ricerca interdisciplinare, anche
di leggende» (Lincoln/Baigent/Leigh, p. 293), poiché in fondo «ogni forma
di storiografia è una forma di mito». (Lincoln/Baigent/Leigh, p. 111).
Per quanto concerne le teorie qui di seguito esposte, il lettore può quindi
liberamente scegliere a quali prestare fede e quali altre invece respingere
come ridicole invenzioni.
 
 
 
 

 
 
 
Secondo la storica Monika Hauf, Giacomo di Molay pianificò
personalmente la distruzione dell’Ordine o almeno l’approvò e non fece
nulla per fermare re Filippo (Hauf, p. 331).
La Hauf ritorna sul fatto molto strano che l’Ordine, che aveva le mani in
pasta ovunque e poteva disporre di eccellenti contatti alla corte francese,
(si suppone che Giacomo di Molay sia stato addirittura padrino della figlia
di re Filippo) (de Sède, p. 59), sia stato colto letteralmente di sorpresa
dall’arresto.
In realtà, secondo la Hauf, Giacomo di Molay era a conoscenza già da
molto tempo dei progetti del sovrano e fece sparire il tesoro e i documenti
più importanti dell’Ordine prima del 14 ottobre 1307.
Per quale motivo, però, il Gran Maestro avrebbe dovuto dare il via a un
processo che si sarebbe concluso con lo scioglimento dell’Ordine e con la
sua stessa morte sul rogo? La Hauf suppone che Giacomo di Molay si sia
immolato con tutta la confraternita, poiché la riteneva l’unica via per
fermare la decadenza morale e spirituale dell’Ordine. Come si evidenzia
con chiarezza dagli atti del processo, i cavalieri che si erano uniti ai
Templari dopo la caduta di Akkon nel 1291, rappresentavano la maggior
parte dei membri. Queste nuove reclute sapevano molto bene che la
Palestina era andata definitivamente persa e che, a fronte all’entusiasmo
per le Crociate che andava scemando in Occidente, non vi sarebbero state
più grandi battaglie con i Musulmani.
La Hauf delinea quindi un quadro deprimente della vita nelle sedi dei
Templari dopo il 1291. I veterani continuavano a raccontare le stesse storie
sui loro atti di coraggio in un paese straniero molto lontano, mentre le
nuove reclute non pensavano per nulla alla guerra, ma cercavano di
rendersi la vita quanto più piacevole possibile.
In questo periodo i cavalieri alla ricerca dell’avventura non erano 
più entrati nell’Ordine, ma erano confluiti nella Penisola Iberica, dove la
lotta contro i Musulmani era in pieno svolgimento.
Mentre i Poveri Fratelli, annoiati, se ne stavano senza far nulla, la loro
ricchezza aumentava enormemente e le loro fonti di reddito, i feudi, non
erano certo in perdita, non dovevano più sostenere le spese enormi per la
conduzione della guerra.
Giacomo di Molay quindi osservava come l’Ordine diventasse
sensibilmente più ricco, più decadente e conducesse una vita più comoda.
Poiché il Tempio intanto non aveva più la forza di riformarsi da solo,
 

l’impulso per un completo rinnovamento avrebbe dovuto venire
dall’esterno.
Secondo Monica Hauf, l’aggressione di Filippo faceva perciò comodo a
Giacomo di Molay e quando i suoi contatti a corte lo informarono dei
progetti di Filippo egli fece segretamente mettere in salvo documenti e
tesori, ma non fece assolutamente nulla per proteggere l’Ordine.
Ma la sola distruzione della vecchia organizzazione non gli bastava,
occorreva che rimanessero dei supestiti superstiti in grado di ricostruire un
Tempio riformato, che potesse portare avanti gli ideali primitivi. Perciò
chiese segretamente a un suo rappresentante di fuggire, ancor prima
dell’ondata di arresti e di fondare in luogo sicuro un’organizzazione che
potesse succedere all’Ordine.
Del resto guidò fino al 1314 le autorità nelle indagini con confessioni,
ritrattazioni e con dichiarazioni intenzionalmente ingarbugliate, finché non
gli fu riferita la notizia che l’Ordine aveva preso piede, di nascosto, in
Scozia.
Quando Giacomo di Molay, il 18 marzo 1314, proclamò la purezza del
Tempio e per questo finì sul rogo, diceva la verità: gli elementi indegni
erano stati sradicati dall’Ordine; a ricchezza, decadenza e arroganza si
erano di nuovo sostituiti gli ideali primitivi di povertà, castità e
obbedienza.
Giacomo di Molay si immolò sul rogo per questi ideali: come Templare,
egli disprezzava senza dubbio la morte.
Il fatto che per portare a termine questo progetto centinaia di Fratelli
siano stati torturati e parecchi siano morti sul rogo, sembra essere stato
solo un effetto collaterale negativo dell’azione di pulizia. La Hauf valuta
con molta freddezza questa spaventosa ingiustizia: «talvolta occorre
liberarsi della zavorra per raggiungere la vetta» (Hauf, p. 337).
Fin qui la spiegazione di Monika Hauf degli avvenimenti concernenti il
processo dei Templari. Questa interpretazione ha il vantaggio di chiarire
alcuni interrogativi: sul perché, ad esempio, l’Ordine non si sia opposto
agli arresti in alcun modo, o per quale motivo gli investigatori non abbiano
trovato né oro né documenti nelle sedi.
Purtroppo questa versione pone al contempo altri interrogativi. Filippo il
Bello agiva addirittura su incarico del Gran Maestro? Non si può
dimenticare che i Fratelli nel 1306 gli salvarono la vita, quando si era
sottratto con la fuga dalla plebaglia nel Tempio parigino. Perché, infine,
Giacomo di Molay fece mettere al sicuro i tesori dell’Ordine quando,
proprio l’immensa ricchezza aveva per prima condotto alla decadenza e
 

 
all’arroganza dei Fratelli?
Quale mente aveva escogitato questo piano tanto complicato, quanto
audace? Giacomo di Molay era un’anima astuta, come parzialmente
testimonia la storia, ma non sembra possedere sufficiente intelligenza per
un simile piano.
Rimane poi la domanda più importante: esiste una prova qualsiasi che
alcuni Fratelli siano riusciti davvero a fuggire felicemente in Scozia, per
continuare a far vivere l’Ordine?
 
In pratica tutti gli autori, convinti di una sopravvivenza dell’Ordine dopo
il processo, cercano di dimostrare l’esistenza di un legame con la Scozia. A
partire dalla metà circa del xviii secolo circolarono storie che raccontavano
i particolari di una fuga in quei luoghi. Così pare che Pietro Aumount,
riuscito a sfuggire all’arresto, abbia ricevuto da Giacomo di Molay, dal
carcere, l’incarico di mandare avanti l’Ordine in qualsiasi circostanza.
Travestito da muratore, Pietro Aumount fuggì con circa dieci fedelissimi
in Scozia, attraverso l’Irlanda, dove trovò rifugio presso i locali Fratelli
dell’Ordine. Il consiglio riunito lo scelse nel 1312 come nuovo Gran
Maestro, in un periodo quindi in cui Giacomo di Molay era ancora in vita!
Si suppone che, in ricordo della loro rischiosa fuga dalla Francia, i Fratelli
decidessero di adottare usi e costumi dei muratori.
Alla fine del racconto segue una lista completa dei Gran Maestri,
nell’insieme persone conosciute e altolocate del loro tempo. Soltanto i
nomi dei Gran Maestri degli ultimi novant’anni erano coperti da
pseudonimi, quali “cavaliere dal cavallo nero” o “cavaliere 
dal leone d’oro” altrimenti la gente alla fine, avrebbe potuto verificare la
storia!
In effetti questa versione non è verificabile.
La parte di gran lunga più singolare del racconto secondo cui i cavalieri-
monaci avrebbero adottato gli usi dei muratori, solo perché con quel
travestimento erano riusciti a fuggire, indica, a un lettore attento, da che
parte soffia il vento: probabilmente questa storia non rappresenta altro che
un’invenzione nell’ambito della massoneria scozzese, che nel xviii secolo
aveva avuto una crescita enorme e che desiderava in questo modo
costruirsi un passato glorioso.
Nonostante nessuno creda fondamentalmente a questa storia, in molti si
è radicata la convinzione di una sopravvivenza dell’Ordine. Non c’è fumo
senza fuoco, in nome di questa massima si cercarono e si trovarono prove
per questa tesi. Baigent/Leigh procedono in modo sistematico, analizzando
 

tutte le vie di fuga che avrebbero potuto avere i Templari nel 1307, le
esaminano singolarmente e le respingono tutte, tranne la Scozia
(Baigent/Leigh, p. 90).
Erano tre le regioni che si offrivano loro per trovare rifugio: il mondo
islamico, la Scandinavia e proprio la Scozia.
Poiché i Templari, contrariamente a ogni calunnia, non si erano mai
legati di nascosto con i Musulmani, si elimina la prima possibilità. Né i
Templari avrebbero avuto il minimo interesse a chiedere asilo ai loro
acerrimi nemici, né un principe musulmano glielo avrebbe mai concesso.
Tra i paesi scandinavi la Norvegia, che era scarsamente popolata, avrebbe
potuto essere presa in considerazione per prima, tuttavia i fuggiaschi
avrebbero potuto trovare condizioni ancora più favorevoli in Scozia che si
trova a distanza di sicurezza dall’Europa centrale ed è inoltre facile e sicura
da raggiungere o direttamente per nave dalla Francia o via terra, attraverso
l’Inghilterra, dove molti Templari si erano rifugiati durante la persecuzione
in Francia. Inoltre vi erano già sedi dell’Ordine in cui i fuggitivi potevano
trovare riparo poiché la Bolla papale che ordinava lo scioglimento
dell’Ordine, in Scozia non fu mai resa nota. Perlomeno in modo
semiufficiale il Tempio qui continuava, indisturbato, a esistere, secondo
Lincoln/Baigent/Leigh, e potè addirittura godere di appoggi molto in alto,
poiché Roberto Bruce, il pretendente scomunicato della corona di Scozia,
aveva urgente bisogno di un aiuto militare nella lotta contro gli Inglesi.
Baigent e Leigh tentano persino di ricostruire con precisione il percorso
della flotta dei Templari per 
raggiungere la costa occidentale della Scozia. Secondo la loro teoria i
Templari fecero rotta a ovest intorno all’Irlanda e probabilmente fecero
sosta lì per raccogliere Fratelli in fuga, armi e ulteriore equipaggiamento
(Baigent/Leigh, p. 95).
È fuori discussione che l’intera classe dirigente in Scozia abbia aiutato di
nascosto i Templari; accordi segreti, camuffamenti e manipolazioni
avrebbero reso possibile che i possedimenti dell’Ordine in Scozia non
venissero toccati, e che, almeno per un periodo, fossero amministrati,
probabilmente come un’unità separata, da Templari “laicizzati”.
Più tardi, presunti rappresentanti non ufficiali dell’Ordine continuarono
ad amministrare questi beni in qualità di fiduciari, come se dovessero
restituirli prima o poi ai proprietari originali (Baigent/Leigh, p. 117).
Questi fiduciari provenivano da poche grandi famiglie che conservarono
anche l’eredità culturale dei Templari e in seguito fondarono persino una
organizzazione militare che ne seguì l’esempio, la Guardia Scozzese. Di
 

fronte a una presa in consegna così decisa, secondo Baigent e Leigh, i
legittimi successori, gli Ospedalieri, non avrebbero fatto alcun tentativo
serio per far valere le proprie legittime aspirazioni di possesso. Ci sarebbe
un’unica registrazione a proposito di un esterno che avrebbe ricevuto un
possedimento dei Templari.
In ogni caso sembra che si fosse giunti a una specie di compromesso,
poiché fino alla metà del xvi secolo si potrebbero trovare numerose
indicazioni di un Ordine riunito dei Cavalieri di San Giovanni e dei
Templari,  a cui erano andate le ricchezze che una volta erano state dei
Templari.
Il ricercatore Andrew Sinclair ritiene che i feudi scozzesi dei Poveri
Fratelli sarebbero passati per la maggior parte nelle mani dei Cavalieri di
San Giovanni il che non avrebbe, di fatto, cambiato nulla, dal momento
che i Templari in fuga si erano nascosti presso i Cavalieri di San Giovanni
in numero tanto rilevante, che praticamente tornarono di nuovo in possesso
delle loro primitive ricchezze, anche se ufficialmente tra le file degli
Ospedalieri.
Questo “bluff di etichetta si sarebbe reso necessario, perché Roberto
Bruce voleva coprirsi le spalle nella lotta contro l’Inghilterra per cui
doveva eseguire l’ordine papale di sciogliere l’Ordine, almeno in
apparenza. (Sinclair, p. 48).
Vere e proprie prove di una sopravvivenza dell’Ordine in Scozia 
non ve ne sono, solo indizi e tutti quanti discutibili. Sinclair semplifica:
egli sostiene che il primo Gran Maestro dopo il 1307, Guglielmo di Saint
Clair, fosse il diretto predecessore di Bruce! La carica si sarebbe dunque
tramandata all’interno della famiglia fino alla fine del xviii secolo e su
questo Sinclair fonda la sua certezza sulla sopravvivenza dell’Ordine.
Alcuni zelanti ricercatori ritengono poi di avere trovato cimiteri dei
Templari in Scozia che documenterebbero un legame tra il Tempio e la
Massoneria. Lincoln/Baigent/Leigh ne avrebbero trovato uno
nell’Argyllshire (quindi lungo la costa sud-occidentale della Scozia) la cui
tomba più antica risale al xiii secolo e la più recente al xviii e dove le
pietre tombali con maggiori connotazioni etniche, mostrerebbero motivi
dei Templari, come se ne possono trovare anche nelle chiese dell’Ordine in
Gran Bretagna.
Su quelle successive si mischiano poi simboli dei Templari con simboli
massoni, il che dimostra ai loro occhi che gli ultimi Templari avevano
trasmesso il loro sapere e le loro tradizioni direttamente ai massoni
scozzesi. In tre diversi luoghi della Scozia vi sono pietre tombali che
 

possono ricordare in qualche modo i Templari, sepolti dopo il 1314, anche
se le date non sono certe.
Per due volte i cavalieri spariti nella clandestinità, sembrano
ricomparire. La prima volta fu in occasione della battaglia di
Bannockburn, nell’anno 1314, tre mesi dopo la morte sul rogo di Giacomo
di Molay, dove ebbe luogo un combattimento tra Roberto Bruce, che si era
autonominato re di Scozia, ed Edoardo ii, re d’Inghilterra.
I seimila scozzesi che combattevano per la loro indipendenza, si
trovarono di fronte ventimila inglesi. Sembrava non vi fossero vie d’uscita,
ma nel momento culminante della battaglia apparve dal nulla, sempre
secondo Sinclair, un corpo di riserva scozzese, tenuto fino a quel momento
nelle retrovie. Un’orda di cavalieri sarebbe improvvisamente piombata
sugli Inglesi, attaccando gli arcieri e mettendo in fuga precipitosa re
Edoardo e cinquecento cavalieri.
Alcuni inglesi terrorizzati credettero di riconoscere nel vessillo, sotto il
quale fu condotto l’attacco, quello bianco e nero di Beauceant, la bandiera
dei Templari (Sinclair, p. 46). Dopo la vittoria, storica per la libertà della
Scozia, questa cavalleria fantasma scomparve senza lasciare traccia. Solo
trecento anni più tardi si trova una prova della sua sopravvivenza per tutto
questo periodo di tempo: il 27 luglio 1689 quando ebbe luogo una battaglia
in cui Irlandesi e Scozzesi presero le armi contro la nuova dinastia
regnante in Gran Bretagna, gli Orange. Il capo dei ribelli contro
l’Inghilterra perse la vita in combattimento e quando fu spogliato si trovò
sul suo corpo una croce dei Templari (Hauf, p. 290).
Bisogna però prendere con precauzione questi due racconti di guerra,
perché non vi sono vere e proprie prove, però esiste forse un documento
che dimostra come la Massoneria scozzese sia realmente stata fondata da
Templari sopravvissuti.
Intorno alla metà del xviii secolo, il barone Karl Gotthelf von Hund
tentò di introdurre un nuovo regime della Massoneria, “stretta osservanza”,
un proseguimento del “rito scozzese”. Egli sosteneva di essere stato
incaricato da superiori, peraltro sconosciuti, di introdurre il nuovo regime,
che avrebbe avuto origine direttamente dai Templari sopravvissuti, fuggiti
in Scozia.
Von Hund cercò di sostenere le sue osservazioni con un documento
davvero molto singolare, cioè con un elenco di tutti i Gran Maestri
dell’Ordine dei Templari che in parecchi punti si discosta da quello che la
storiografia ufficiale riteneva valido.
Lincoln/Baigent/Leigh (p. 139) sono convinti che l’elenco di Von Hund
 

 
sia il più attendibile, per cui è naturale concludere che Von Hund l’avesse
potuto avere solo dai Templari stessi. I suoi contemporanei, però, non
potevano naturalmente saperlo, di conseguenza il numero dei suoi seguaci
– che si facevano chiamare cavalieri Templari – rimase limitato e Von
Hund fu deriso come un cialtrone. (Baigent/Leigh, p. 253).
 
 
 
Anche i Nuovi Templari francesi avanzavano la pretesa di essere gli
unici legittimi successori dell’Ordine, sciolto nel 1312.
Il documento su cui si basavano è la Charta Transmissionis.
Indirettamente questo documento conferma il contenuto di verità in merito
alla leggenda sulla fuga in Scozia, poiché lancia anatemi contro i Fratelli
che avevano disertato fuggendo in Scozia e espellendoli dall’Ordine del
Tempio (Ordre du Tempie). Secondo la Charta  avrebbero dovuto essere
considerati i veri eredi dell’Ordine coloro che avevano portato avanti
segretamente l’organizzazione in Francia e non chi aveva scelto
vigliaccamente la fuga. La Charta 
Transmissionis  porta la data del 13 febbraio 1324 e dimostra
chiaramente che, ben dodici anni dopo il suo scioglimento ufficiale,
l’Ordine era ancora molto vivace.
Il Gran Maestro Jean Marc Larmenius, diretto successore di Giacomo di
Molay, scrive di essere ormai vecchio e stanco e che avrebbe perciò
passato la sua carica a un fratello più giovane. Per limitare in futuro la
cerchia degli autentici Templari, escludendo quei «corruttori della
cavalleria», coloro che fuggirono in Scozia e i cavalieri di San Giovanni,
egli avrebbe introdotto «simboli fino ad allora sconosciuti, trasmessi
oralmente, come io stesso li ho appena comunicati al consiglio generale».
(Sippel, p. 306).
Questa lettera di Larmenius fu sottoscritta per secoli da tutti i Gran
Maestri dell’Ordine, fino a Bernardo Raimondo Fabré-Palaprat, che fu a
capo dei Templari al momento della loro uscita dalla clandestinità, il 4
novembre 1804.
È giunta fino a noi anche una versione del regolamento, risalente al
1705, come era stata redatta dal Consiglio generale che si era
presumibilmente riunito a Versailles, lo stesso anno.
Queste regole rispecchiano il fatto che nel frattempo l’Ordine aveva
dovuto rinunciare alla benedizione della Chiesa ed era perciò composto da
laici. Nonostante i tempi fossero cambiati, vi erano nuove reclute che
 

malgrado tutto prestavano giuramento di «sottometterci alle regole del
nostro santo padre Bernardo, di proteggere i pellegrini in Terrasanta» e
tutti insieme, prendendo la spada, di combattere «per la croce e contro gli
infedeli» (Sippel, p. 315).
Come va considerata questa supposta continuazione dei Templari?
Hartwig Sippel fa osservare che L’Ordre du Tempie non era più da
paragonare, naturalmente, con la confraternita andata in rovina, in primo
luogo a causa del mancato riconoscimento da parte della Chiesa, poi a
causa dell’aura di mistero di cui erano stati costretti a circondarsi. Sippel
paragona L’Ordre con una società che trasferisca le proprietà cambiando la
veste giuridica, in seguito al fallimento di una grossa operazione.
Quella che, secondo Sippel, era solo una società di mutuo soccorso per
Fratelli perseguitati, si trasformò nel corso degli anni in una società
segreta, protetta dalle famiglie più importanti e che zitta, zitta, aveva finito
per avere un’influenza notevole sulla politica francese, naturalmente
sempre per il bene del paese come dimostra la crescita della Francia fino a
divenire una grande potenza culturale e 
politica (Sippel, p. 312). Parlando di prove: la Charta di Larmenius ma
anche  L’Ordo novi Templi, fondato nel 1900, è per gli storici solo una
grossolana falsificazione, cosa naturalmente contestata con veemenza da
entrambe le associazioni.
L’autenticità di storie e documenti, atti a dimostrare che l’una o l’altra
delle confederazioni rappresentava l’unico vero successore dei Poveri
Fratelli, è stata sempre più o meno contestata. Se però si vuol essere
maligni, si potrebbe sostenere che queste società segrete si dimostravano
degne eredi dei Templari, ma solo nel senso peggiore. In loro non
sopravvissero certo gli ideali dell’Ordine, bensì le peggiori abitudini che si
erano radicate in quasi cento anni di inattività: altezzosità, mediocri trame
segrete e assoluta inutilità.
Ancor oggi spuntano nuovi raggruppamenti che portano nomi di
assoluta fantasia come Ordine Sovrano dei cavalieri Templari di
Gerusalemme, Ordo Militiae Crucis Templi, Ordine dei Signori della
Croce di Montfort o Collegio di Giacomo di Molay. Queste associazioni
perseguono ufficialmente per lo più solo obiettivi lodevoli, quali alleviare
le povertà o promuovere l’intesa fra i popoli, in realtà però litigano in
continuazione fra loro su quale Ordine tra loro sia il legittimo successore
del Tempio.
La maggior parte di loro scompare con la stessa velocità con cui sono
stati fondati. Tutto ciò non ha naturalmente nulla a che fare con i Templari
 

originali, infatti il tipo più sano di intesa fra i popoli era, secondo
l’opinione dei Poveri Fratelli, un attacco di cavalleria e anche con la
beneficenza non avevano molto a che fare: ogni grammo d’argento
utilizzato per farla sarebbe mancato alla lotta contro l’Islam.
Non si può pronunciare qui un giudizio globale sui supposti eredi dei
Templari e sarebbe in ogni caso impossibile, poiché le associazioni che si
disputano questa eredità, sono molte e molto diverse tra loro. Bisogna però
osservare che quest’idea di una sopravvivenza in segreto dell’Ordine
appare completamente assurda: non si possono proteggere i pellegrini di
nascosto! Se anche una o tutte queste organizzazioni discendessero dai
cavalieri-monaci, non potrebbero tuttavia richiamarsi legittimamente alla
loro eredità poiché i loro membri perseguono altri obiettivi, hanno altri
ideali e non vivono né da cavalieri, né da monaci. Gerard de Sède ci fa una
cronaca estremamente maligna del giorno in cui i membri dell’ Ordre du
Tempie riapparvero in pubblico (de Sède, p. 124).
Il 18 marzo 1808 vi era un variopinto andirivieni intorno alla chiesa di
Saint Paul a Parigi, le cui pareti erano state ricoperte di tessuto bianco con
croci rosse. Davanti al portale facevano da cornice alcuni battaglioni della
guardia d’onore imperiale, la chiesa era piena di fedeli e di curiosi e nel
coro sedevano persone sontuosamente vestite con mantelli di pelliccia,
sulla cui spalla sinistra spiccava una croce rossa. Le loro teste erano
coperte da sontuosi cappelli di ermellino, ornati con fermagli d’oro.
Uno di loro, però, superava in splendore tutti gli altri: Bernard Raymond
Fabrè-Palaprat, successore dell’apostolo Giovanni, prelato del più alto
grado, patriarca e Gran Maestro dell’ Ordre du Tempie teneva in una mano
lo scettro e con l’altra mano l’impugnatura di una spada su cui spiccava un
rubino.
Che momento per un uomo che solo pochi anni prima era un callista dei
Pirenei che si era seduto ai piedi di tutti! Che momento per un Ordine che
solo un paio di anni prima era stato fondato con il prosaico nome di
Associazione dell’arrosto]
Durante una riunione nell’anno 1804 sembra che l’arrosto sia stato
annaffiato con un po’ troppo vino, perché i membri decisero di giocarsi un
brutto tiro. Scelsero Radix di Chevillon come colui che avrebbe potuto
comunicare al mondo la gioiosa notizia che l’Ordine dei Templari avrebbe
continuato a vivere nella forma dell’Associazione dell’arrosto.
La farsa proseguì in modo grandioso, Fabrè-Palaprat assunse la guida
dell’associazione, le diede un nome serio (Ordre du Tempie) e si procurò
reliquie, che avrebbero dovuto documentare la folle pretesa dell’Ordre du
 

 
Tempie:  la succitata Charta Transmissionis, un vessillo bianco e nero,
elmo, spada e persino alcune ossa di Giacomo di Molay. Guarda caso, da
quello che sembrava uno scherzo, si sviluppò una fiorente attività.
L’Ordine vendeva attestati da cavaliere, titoli, distintivi, medaglie e
insegne che nella Francia rivoluzionaria erano molto richiesti, ma non
siamo in grado purtroppo di stabilire quanto debba aver versato, ad
esempio, il nuovo Gran Priore di Monomatapa e altri dignitari per il loro
titolo.
L’Ordine esiste del resto ancor oggi, infatti, e, con grande ironia, Gerard
de Sède descrive una festosa cerimonia di adesione a questa associazione a
cui egli presenziò intorno al 1960: più di cento giornalisti assistevano alla
cerimonia in cui Don Jaime de Mora y Aragon, fratello della regina del
Belgio, entrò nell’Ordine.
«Don Jaime, che assomigliava a Salvador Dalì, parlò della caccia al
gallo cedrone e fece un elogio del generale Franco, ricevendo
graziosamente le insegne» (de Sède, p. 131).
Inutile dire che non sputò sulla croce, né baciò il sedere del Gran
Maestro.
 
 
 
Le ricchezze scomparse del Tempio occuparono sempre la fantasia dei
ricercatori e la mancanza di certezze sulla consistenza del tesoro, sul fatto
stesso che esistesse e dove potesse essere nascosto, sembra anzi stimolarla
ulteriormente. Posto che nessuno conosce il nascondiglio, ne consegue che
avrebbe potuto trovarsi ovunque.
Forse stava sotto gli occhi di tutti, proprio in Francia, quindi ogni feudo
di quei tempi viene preso in considerazione. Con le più accurate analisi di
antichi documenti, innumerevoli ricercatori del tesoro hanno tentato la
fortuna nei secoli scorsi, ma finora solo gli autori della marea di libri e di
film per la televisione sul tesoro dei Templari ne hanno tratto un vantaggio
economico. Fino a oggi, infatti, ancora nessuno ha potuto rintracciarlo. Ma
le cose stanno proprio così?
 
 
 
 
 
 

 
 
 
Gerard de Sède racconta – nel suo libro / Templari sono tra noi -una
storia affascinante sulla ricerca, durata secoli, dell’oro dei Templari. Il
tesoro sarebbe stato portato via dal Tempio parigino nella notte del 12
ottobre 1303, prima degli arresti (che avvennero all’alba del 13 ottobre), su
tre carri coperti di paglia e de Sède supporta questa versione con
documenti degli archivi segreti del Vaticano. Secondo de Sède vi si
troverebbero le dichiarazioni di 72 Templari, che erano stati ascoltati a
Poitier direttamente da Clemente v e dai suoi cardinali.
Uno degli interrogati, Giovanni di Chàlon, avrebbe confessato al papa
ciò che aveva taciuto ai torturatori del re, facendo mettere a verbale di aver
visto con i propri occhi, il 12 ottobre 1307, tre carri, al comando di
Gerardo di Villers e Ugo di Chàlons, lasciare il Tempio di Parigi, su cui
era nascosto l’intero avere del tesoriere generale. Questi carri avrebbero
preso la direzione del mare, dove il loro contenuto, caricato su diciotto
navi, avrebbe lasciato il paese. Nonostante de Sède riveli la firma certa in
calce a questo verbale degli archivi vaticani, il Vaticano nega di essere in
possesso di questi fogli. Per dimostrare la sua storia de Sède, cita una
lettera di pugno di Clemente v, nella quale il papa fa i nomi di dodici
dignitari dell’Ordine, che sarebbero sfuggiti alla sbirraglia, tra cui i già
citati nella suddetta dichiarazione, Ugo di Chàlons e Gerardo di Villers,
che avrebbe condotto con se quaranta uomini armati, (de Sède, p. 138).
Il tesoro lasciò dunque il Tempio, ma dove approdò alla fine? De Sède
mette in dubbio che diciotto navi avessero potuto salpare senza essere
notate, inoltre erano stati predisposti blocchi stradali in tutta la Francia, già
la notte prima dei rastrellamenti, proprio per evitare che l’oro potesse
raggiungere la costa.
E certo che non cadde nelle mani delle forze reali di polizia, Filippo il
Bello, infatti, avrebbe gustato pienamente un simile successo e avrebbe
certamente dato risonanza alla notizia. I difensori del tesoro riuscirono
dunque a metterlo al sicuro in un luogo segreto. Ma dove?
Attenzione, qui arriva l’idea geniale di de Sède: non appare assurdo che
il contenuto di tre ridicoli carri sia stato caricato su ben diciotto navi?
Per nulla, la dichiarazione con “i tre carri” non andrebbe intesa
letteralmente, ma nasconderebbe un cenno segreto al luogo in cui gli ultimi
Templari avrebbero nascosto il loro tesoro: a Gisors, che de Sède chiama
«la fortezza dei tre carri»!
Nel corso della costruzione del castello infatti, dal 1090 al 1184, ogni
 

volta, il 24 dicembre a mezzanotte, si potevano vedere «il grande e il
piccolo carro da un lato, la nave (Argo) o il carro dei mari dall’altra, che si
vedevano da Gisors in opposizione» (de Sède, p. 182), nel cielo notturno
cioè erano visibili il grande e il piccolo carro e il carro dei mari che sta
nella parte del cielo che non si vede, sotto l’orizzonte.
Questa straordinaria costellazione, che è visibile solo una volta all’anno,
avrebbe determinato, secondo de Sède, la pianta dell’intera fortezza. I suoi
architetti dovevano dunque conoscere la posizione delle stelle, e lo
avevano eretto, sull’esempio di Stonehenge, seguendo il corso delle
costellazioni.
Come avrebbe potuto però il tesoro dei Templari essere portato fin là?
Per trasportare via mare il loro oro, i depositari del tesoro necessitavano di
un piccolo porto, che fosse controllato meno severamente dai poliziotti
reali. De Sède crede che Eu, proprio a nord di Parigi, sarebbe stata
particolarmente adatta allo scopo, infatti Gisors sorge proprio sulla vecchia
strada romana che porta da Parigi a Eu.
Nella tarda notte del 12 ottobre 1307, sempre secondo de Sède, i
Templari a cui era stato affidato il tesoro compresero che, visti i controlli
della polizia, sarebbe stato troppo rischioso continuare il viaggio fino alla
costa. Nascosero perciò l’oro in una delle loro fortezze lungo il percorso,
per l’appunto a Gisors. Quindi, per far si che si continuasse a conoscere la
dimora del tesoro, i cavalieri cifrarono il nome del luogo.
Anche se un fratello avesse dichiarato sotto tortura che l’oro «era in tre
carri» nessuno avrebbe potuto utilizzare in alcun modo questa
informazione, a meno che non si trattasse di un iniziato a conoscenza del
segreto. Ora si potrebbe semplicemente ritenere tutto ciò tirato per i
capelli, se non vi fosse la storia di Roger Lhomoys, che afferma di aver
realmente trovato un tesoro in Gisors. Lhomoy era nato a Gisors nel 1904.
Da bambino ascoltava con attenzione, affascinato, le leggende raccontate
dalla gente sulla fortezza che si ergeva imponente sulla cittadina.
Un tempo aveva vissuto in quel luogo una regina di nome Bianca. I
nemici posero il castello sotto assedio, Bianca però ruppe le loro file e
fuggì nella vicina fortezza di Neaufles che però fu subito circondata dalle
truppe nemiche, ma quando queste – il mattino successivo – la presero
d’assalto, non si trovò traccia di Bianca, che poco dopo ricomparve a
Gisors e da lì mise in fuga i suoi nemici.
Probabilmente esisteva un passaggio che collegava le due fortezze e
secondo la voce popolare, il tesoro sarebbe stato tenuto proprio qui,
protetto da un’impenetrabile porta che si sarebbe aperta solo una volta
 

all’anno: durante la Messa di mezzanotte, quindi a mezzanotte del 24
dicembre!
Vi fu realmente una regina di nome Bianca che aveva ricevuto le
fortezze di Gisors e Neaufles come residenza vedovile e che, dal 1359 fino
alla sua morte nel 1398, visse qui: pochi anni quindi dopo che i Templari
avevano abbandonato la fortezza.
Cosa che, in realtà, avevano fatto molto controvoglia, infatti più di 
un anno dopo l’ondata di arresti, re Filippo fece pressione per arrestare la
guarnigione di Gisors (de Sède, p. 176).
Lhomoy era ossessionato dall’idea del tesoro e si fece nominare curatore
e giardiniere della fortezza, così nel 1944 cominciò a fare i primi scavi
segreti. Due anni dopo effettivamente trovò qualcosa: a sedici metri di
profondità, alla fine di una galleria trasversale, lunga tredici metri, vi era
una cappella romanica, lunga trenta metri, larga nove e alta quattro e
mezzo che conteneva 30 cofani di metallo prezioso, lunghi due metri e
mezzo, alti un metro e ottanta centimetri e larghi un metro e sessanta.
Il giorno successivo Lhomoy riferì del suo ritrovamento all’autorità
comunale, ma accadde qualcosa di strano: non si trovò nessuno disposto a
confermare la storia di Lhomoy.
Nessuno osava inoltrarsi nei passaggi sotterranei stretti, in cui vi era un
grave pericolo di crollo e il sindaco si adoperò affinché un drappello di
prigionieri di guerra tedeschi (in modo che nessuno potesse diffondere
notizie?) chiudesse subito l’apertura.
Così il presunto tesoro dei Templari scomparve nuovamente sotto terra,
dove era rimasto già per seicento anni. Ma Lhomoy non si diede per vinto
e presentò immediatamente una richiesta per poter continuare a scavare,
ma inspiegabilmente dovette attendere ben sedici anni per ottenere il
permesso. Quando potè finalmente riprendere il suo lavoro, ritrovò quasi
subito la cappella, ma era vuota! Nel 1964, cioè due anni dopo, le forze
armate francesi proibirono l’accesso alla zona (tutta la descrizione, secondo
de Sède, p. 12). Ciò che l’esercito, in realtà, cercò o trovò non è dato
sapere. Quando poi de Sède cominciò a occuparsi dei segreti di Gisors, fu
di continuo ostacolato nel suo lavoro. Tutti i documenti sull’argomento
sparivano, in modo poco chiaro, da biblioteche e archivi pubblici e in
alcuni libri mancavano proprio pagine relative a questo argomento (de
Sède, p. 32). Una storia affascinante, che non è ancora stata svelata per
intero. Rimangono molti interrogativi: quanto sapevano il sindaco e i
ministeri della cultura e della difesa?
Erano a conoscenza di qualche cosa, oppure obbedivano a un comando
 

superiore? Che cosa si nasconde dietro a tutta la segretezza che circonda la
fortezza, e che esiste ancora oggi, nonostante il tesoro sia stato portato via?
Perché nessuno ha potuto visitare la cappella anche dopo i secondi scavi?
Che cosa contenevano i cofani?
Perché Lhomoy, dopo aver verificato, non ha portato con sé una 
qualsiasi prova? Perché già allora, dopo il 1314, i Templari non si
ripresero il tesoro, dopo aver lasciato calmare le acque?
Oppure i successivi proprietari della fortezza erano segretamente legati
ai Templari? Che cosa aveva a che fare il misterioso Guglielmo di Gisors,
Gran Maestro del priorato di Sion, con la caduta del Tempio e il
salvataggio del tesoro?
Da dove, poi, proveniva il tesoro e di che cosa era composto? Tutte
queste domande sono destinate a rimanere senza risposta, a causa della
mancanza di informazioni.
A dire il vero si potrebbe mettere in dubbio che gli stessi interrogativi
abbiano un senso, perché de Sède porta dimostrazioni altrettanto scarse per
le sua versione, quanto Lhomoy stesso.
Si può infatti prestar fede alle loro avvincenti storie, ma di certo la cosa
non è automatica.
Secondo de Sède in ogni modo non si deve prendere alla lettera la storia
dei carri, anche supponendo che la polizia avesse potuto trovare ancora oro
nel tempio di Parigi, nessuno avrebbe potuto però dire se questo oro
rappresentasse tutta la ricchezza dell’Ordine, poiché tutta la
documentazione delle transazioni finanziarie dei Fratelli era scomparsa.
Lo stesso si può dire per gli oggetti di culto, del cui valore si vantava nei
suoi discorsi Giacomo di Molay: chi può sapere infatti se la maggior parte
non fu messa al sicuro e i pochi oggetti giunti nelle mani del re non
rappresentassero solo la misera rimanenza di un tesoro enorme? Di certo
appartiene al mondo delle favole la notizia secondo cui Giacomo di Molay
avrebbe avuto bisogno solo di dodici cavalli per trasportare il suo oro e il
suo argento, nel 1307, durante il viaggio da Cipro alla Francia (Hauf, p.
275).
Per che cosa avrebbe utilizzato questo tesoro? Perché, poi, avrebbe
dovuto portarlo via proprio alla povera Cipro, per portarlo in Francia,
quando abitualmente l’oro veniva mandato dai feudi a est, verso il fronte
della lotta contro i Musulmani?
 
 
 
 

 
 
 
Anche Rennes-le-Chàteau, un piccolo paesino sonnolento della
provincia francese del profondo sud, divenne teatro di una caccia al tesoro,
simile a quella di Gisors.
Quella che era iniziata per gli studiosi Lincoln/Baigent/Leigh come
semplice ricerca del tesoro condusse, per loro stessa ammissione, a un
labirinto sempre più intricato di segreti, la cui scoperta, dal loro punto di
vista, avrebbe potuto avere conseguenze tanto rivoluzionarie, che intere
parti di storia dell’Occidente avrebbero dovuto essere riscritte.
Tutto sarebbe iniziato, secondo i tre autori, nel 1885, quando un certo
Bérenger de Saunière diventò parroco nel paese di Rennes-le-Chàteau.
Nonostante disponesse solo delle entrate estremamente ridotte di un
parroco di paese e non possedesse alcun patrimonio personale, a partire dal
1896, cominciò di punto in bianco a spendere molto denaro. Solo per i
francobolli spendeva più di quanto guadagnasse ufficialmente in tutto
l’anno. Fece restaurare la chiesa, si costruì una villa e mise da parte un
patrimonio in porcellane, sculture antiche e libri rari
(Lincoln/Baigent/Leigh, p. 25).
Indiscutibilmente aveva raggiunto un benessere improvviso e per cercare
di chiarire da dove provenisse questa ricchezza è stato speso molto
inchiostro.
Per quanto diverse fossero tra loro le teorie, anche qui i Templari
occupano una posizione di primo piano.
Dipende dal fatto che Rennes-le-Chàteau, un paese posto su una
montagna impervia e appartata, era stato un territorio chiave dei Templari;
infatti, su cinquantadue chilometri quadrati si trovavano sei sedi dei Poveri
Fratelli, che servivano – ufficialmente – a sorvegliare la strada dei
pellegrini verso Santiago di Compostela, che passava per quel territorio.
È facile supporre che nel 1307 i Templari, che già sospettavano di essere
inesorabilmente prossimi a un’ondata di arresti, abbiano trasportato le loro
ricchezze al sicuro nella regione in cui erano più presenti e dove potevano
contare sul massimo appoggio da parte della popolazione.
Nel  XII  e nel xiii secolo, l’impervia regione di montagna intorno a
Rennes-le-Chàteau era divenuta un bastione dei Catari e, durante il loro
spietato sterminio operato dalle crociate di papa Innocenzo in, molti
perseguitati avevano trovato asilo nelle fortezze dei Templari in
Languedoc e molti erano persino entrati nell’Ordine.
I Templari, infatti, si opposero rigorosamente all’ordine papale di alzare
 

la spada contro dei Cristiani, anche se eretici.
In quel periodo di persecuzione, tra i Templari e gli abitanti della
regione si formò una solida comunità, tanto che l’intera regione si 
trasformò in un unico covo di resistenza contro il re francese e la
burocrazia ecclesiastica.
In realtà i Templari che vivevano nella sede dell’Ordine sul Bézu, una
montagna nelle vicinanze di Rennes-le-Chàteau, nel 1307 riuscirono a
sfuggire alle guardie del re.
Non importa se furono avvertiti o se forse la polizia locale li lasciò
scappare di proposito, in ogni caso è chiaro che qui i Templari si
muovevano come pesci nell’acqua, cioè scomparivano e ricomparivano a
loro piacimento.
Qui sarebbe stato conservato al sicuro, per secoli, il tesoro del Tempio
(Lincoln/Baigent/Leigh, p. 18).
Da che cosa era però composto il tesoro? Molte leggende in Languedoc
partivano proprio da questo interrogativo.
Una storia racconta, ad esempio, che il tesoro dei Templari si trovava
proprio nella regione e che era stato portato da Gerusalemme, nel 70 d.C,
dall’imperatore romano Tito.
Il punto di partenza di questa leggenda è l’anno 1156, quando il Gran
Maestro Bertrando di Blanchefort, la cui casa natale distava solo a un
chilometro e mezzo, ordinò vasti scavi nelle vecchie miniere d’oro intorno
a Rennes-le-Chàteau (Hauf, p. 266).
Tutto ciò si verificò in circostanze misteriose: Bertrando fece venire gli
operai da fuori, dalla Germania, probabilmente perché non avrebbero
potuto parlare di ciò che cercavano o che avevano trovato nelle miniere.
Le voci che presto cominciarono a circolare su queste attività dicevano
che i Templari cercavano l’oro là sotto, ma è davvero poco verosimile,
infatti già i Romani avevano scavato in quella miniera alla ricerca dell’oro
finché ne era valsa la pena.
Alcuni ingegneri, che ispezionarono le miniere nel xvii secolo,
conclusero che negli ultimi mille anni si erano fatti scavi in grande stile. A
che cosa sarebbero dunque serviti a Bertrando i minatori tedeschi che
aveva fatto arrivare?
Cesare d’Arcons – appartenente alla squadra di ingegneri – nel suo
rapporto tergiversa: egli scrive che forse avevano messo al riparo del
metallo, costruito oggetti di metallo o forse addirittura scavato una cripta e
installato una specie di cassaforte (Lincoln/Baigent/Leigh, p. 84). Forse
Bertrando intendeva nascondere in questa vecchia miniera il tesoro dei
 

Templari che era stato rubato a Gerusalemme nel 70 d.C?
Come era però giunto nelle mani dei Templari il tesoro? Nell’anno 410, i
Visigoti lo avevano sottratto ai Romani e nascosto in un luogo
sconosciuto. Il re dei Merovingi di Francia, Dagoberto ii, aveva sposato
una principessa visigota e forse proprio da lei era venuto a conoscenza del
nascondiglio del tesoro, anche se non ne potè trarre alcun vantaggio,
perché nell’anno 678 (o nel 679) fu ucciso all’età di soli 26 anni.
‘ Ma che relazione poteva avere tutto ciò con Bérenger di Saumière? Nel
corso della ristrutturazione della chiesa del villaggio il parroco si sarebbe
imbattuto in alcuni documenti cifrati che lo portarono a scoprire un
segreto. In uno di questi vi era la citazione «A Dagobert ii roi et a Sion est
ce tresor et il est la mort». Vi sono due diverse traduzioni possibili ed
entrambe pongono interrogativi anziché dare risposte.
La prima suona così: «questo tesoro appartiene al re Dagoberto ii e a
Sion, e qui giace morto».
La Hauf sostiene che i Templari (o i loro predecessori) avrebbero
probabilmente scoperto nella miniera un materiale di enorme valore, che
però poteva anche uccidere: l’uranio.
Questo spiegherebbe l’impiego di operai stranieri nelle miniere, perché,
se fossero comparsi segni sospetti di contaminazione si sarebbe potuto
rispedire in patria gli uomini colpiti o lasciarli morire sul posto e quindi
farli sparire.
La Hauf ritiene inoltre di sapere che cosa facessero i Templari con
l’uranio: lo usavano per uccidere lentamente e subdolamente.
Così si spiega perché i nemici dell’Ordine morirono quasi tutti nello
stesso anno di Giacomo di Molay, spesso per cause mai chiarite. Di certo
Filippo il Bello ebbe un incidente di caccia ma non si potrebbe supporre
che sia caduto da cavallo perché indebolito dalle radiazioni?
Una bella teoria, ma purtroppo del tutto inverosimile, perché se una
volta vi fosse stato uranio nelle miniere, lo si potrebbe provare anche
giorni nostri.
L’obiezione principale sta nel fatto che fino al xx secolo non si
conoscevano applicazioni per l’uranio, se non come veleno e comunque,
anche in questo caso, di non facile utilizzazione.
Fino alla scoperta della scissione del nucleo, l’uranio era un materiale di
scarso valore, per cui l’improvviso arricchimento di Bérenger de Saunière
rimane senza spiegazione.
Lincoln/Baigent/Leigh formulano una teoria totalmente diversa, perché
ritengono che non si tratti di un tesoro materiale, ma di un segreto tanto
 

pericoloso, che in certi luoghi si sarebbe pagata qualsiasi cifra perché non
fosse reso pubblico. Questi autori sono dell’opinione che si tratti della
prova inconfutabile che Gesù Cristo non fu crocifisso, ma che visse fino
all’anno 45 (naturalmente non vi è prova dell’autenticità di questo
documento).
Chi dunque avrebbe pagato somme enormi perché una simile prova non
diventasse di pubblico dominio?
La risposta è una sola: il Vaticano. Se infatti Gesù non fosse morto per
espiare le colpe dell’umanità e non fosse risorto, che cosa rimarrebbe del
dogma principale della Chiesa cattolica?
Prendendo in considerazione questa ipotesi, alcune dichiarazioni dei
Templari durante il processo appaiono sotto una luce totalmente diversa: i
Poveri Fratelli sputavano forse sul crocifisso poiché sapevano con certezza
che era il simbolo di una gigantesca falsificazione storica? I capi del
Tempio tenevano la prova inconfutabile nascosta tra i loro tesori?
Ma come ne sarebbero venuti in possesso?
Lincoln/Baigent/Leigh stabiliscono un collegamento diretto con i Catari,
la cui fortezza più importante, Montségur, era caduta il 15 marzo 1244.
Anche in questo, caso vi è la leggenda di uno o addirittura due tesori che
sarebbero stati portati via, poco prima.
Già nel gennaio del 1244 i Catari avevano messo al sicuro il loro oro e
argento, ma solo immediatamente prima della caduta della fortezza
avrebbero messo in salvo ciò che per loro aveva evidentemente un valore
enorme, anche se non si trattava di valore materiale. Ma dove avrebbero
potuto portare questo tesoro, visto che era caduto il loro ultimo baluardo?
Probabilmente dai Templari a Rennes-le-Chàteau, che distava solo una
mezza giornata di viaggio e dove, presumibilmente, una metà dei Fratelli
stessi erano Catari.
Queste correlazioni possono apparire costruite, ma secondo
Lincoln/Baigent/Leigh alcune cose diventano più chiare se si getta uno
sguardo più attento alla loro fede.
I Catari credevano all’esistenza di due divinità, un’entità essenzialmente
spirituale, che rappresenta l’amore puro e un’altra – creatrice del mondo –
che, tuttavia, è pieno di errori, impuro e quindi da 
condannare. Da questa divisione in due parti, i Catari traggono la
conclusione che Gesù non potesse essere il Dio del puro amore e,
contemporaneamente, assumere sembianze umane e tantomeno morire
sulla croce. Anche i Catari negavano quindi che il Redentore fosse morto
sulla croce.
 

 
La loro certezza derivava forse dalla “prova inconfutabile” che
consegnarono, nel 1244, nelle mani dei Templari?
Ci sono altre analogie tra i Catari e l’Ordine: anche gli inviati dei Catari,
ad esempio, viaggiavano per il paese sempre in due, come i Templari, per
proteggersi a vicenda dalle tentazioni; inoltre i Catari descrivono la
procreazione ma non la sessualità, e questi due indizi parvero sufficienti
per accusare tutti i Catari di omosessualità, accusa peraltro già fatta anche
ai Templari.
Nonostante vi siano certamente analogie, si stenta ad accettare che i
Catari abbiano avuto una reale influenza sull’Ordine cavalleresco, al
contrario è più facile pensare che i due gruppi si detestassero cordialmente
perché erano troppo differenti per carattere.
I Catari vivevano semplicemente, con modestia, lontano dal mondo,
mentre i Templari erano superbi, ambiziosi e vivevano nel benessere.
Se davvero i Catari fossero stati in possesso di un tesoro, mai l’avrebbero
lasciato ai “briganti” del Tempio.
 
A testimonianza di un gran numero di moderne leggende sul tesoro dei
Poveri Fratelli, ne riportiamo qui altre due. Lo storico Maurice Guinguand
vuol dimostrare ai suoi lettori che i Templari avrebbero trasportato via
mare il loro oro a Tornar in Portogallo, dove sarebbe rimasto fino ai giorni
nostri.
Analizzandola più da vicino, vi è sul serio qualcosa a conferma di questa
ipotesi, poiché i governanti della Penisola Iberica, nel 1307, avevano
estrema necessità della forza bellica dell’Ordine cavalleresco, per cui,
durante tutto il processo, i Templari furono trattati con i guanti. In
Portogallo l’Ordine uscì realmente quasi indenne e i suoi beni furono
trasferiti al nuovo Ordine di Cristo: in sostanza la vecchia impresa fu
mandata avanti semplicemente con un nome nuovo. La fortezza di Tornar,
la cui costruzione era iniziata nel 1160, divenne il quartier generale dei
Templari in Portogallo. «Che 
cosa sarebbe stato più ovvio che trasportare fin qui i tesori salvati?»
(Guinguand, p. 213).
Ma l’autore non si limita a dare una simile spiegazione logica, ma tenta
di dimostrare che l’oro dei Templari si trovi ancora lì. Prima di tutto egli
spiega che i Poveri Fratelli sarebbero stati astronomi assolutamente
straordinari, che avrebbero orientato tutte le loro costruzioni seguendo le
stelle e condizionato le loro azioni a ciò che, in determinati momenti,
comunicavano loro.
 

Si dice che anche la mistica dei numeri abbia avuto un ruolo importante
nella vita dei Templari: il 13 e il 17 compaiono continuamente.
Inizialmente i fuggitivi portarono il loro tesoro da Parigi nella chiesa di
Notre Dame de Sèes (la cui pronuncia è ‘Se’),  il che rappresenta per
Guinguand già un indizio determinante per la meta definitiva del viaggio:
in portoghese infatti ‘Se’ significa cattedrale e a Tornar ve ii’era una! I
Templari trasferirono il loro tesoro a Mont , St. Michel, che dista
esattamente 34 miglia (due volte 17). Qui lo caricarono su di una nave e
stabilirono una rotta di 34 (!) gradi che li fece approdare a Serra d’El Reis
in Portogallo, da dove il resto del viaggio non fu che un gioco da ragazzi.
Secondo l’autore non sarebbe stato il caso di cercare a Gisors, che si
trovava 13 miglia a nord del percorso via terra Carcassonne-Bourges-
Parigi e un vero Templare avrebbe nascosto un tesoro solo 13 gradi a est
della linea. A Rennes-le-Chàteau, i Templari avrebbero inizialmente
nascosto una parte delle loro ricchezze, ma non varrebbe la pena di
ricercarle, poiché Bèrenger de Saunière sarebbe stato di gran lunga più
veloce (Guinguand, p. 140).
Nonostante Guinguand, come molti altri autori del resto, attribuisca ai
Templari una profonda conoscenza dell’astronomia, ciò non significa
affatto che i Poveri Fratelli abbiano scrutato il cielo, infatti nelle loro sedi
non si trovò alcuna traccia di libri di astronomia, tabelle o strumenti di
osservazione. O i Fratelli dunque avevano portato proprio tutto al sicuro,
prima degli arresti, o molto più probabilmente questi libri e le loro
conoscenze non erano mai esistiti.
Forse maggior successo potrebbe perciò avere una ricerca del tesoro
senza pensare che sia stato nascosto in base a considerazioni astronomiche
o esoteriche, ma che fosse semplicemente passato da uno all’altro
all’interno di una famiglia.
Se si dovesse dar credito a una leggenda citata nella Guide de la France
Mystérieuse (Guida nella Francia segreta, riportata come 
fonte da Guinguand, p. 98), Giacomo di Molay avrebbe avuto modo di
affidare un segreto al principe di Beaujeu: immense ricchezze, documenti
di valore incalcolabile e splendide reliquie, come l’indice destro di San
Giovanni Battista, sarebbero state nascoste in una cripta sotto le sepolture
dei Gran Maestri.
Il principe chiese il permesso al re Filippo di allontanare dalla cripta le
spoglie di suo zio, un Gran Maestro, e al posto del sarcofago egli recuperò
alcuni dei pezzi più importanti del tesoro dei Templari, per metterli al
sicuro a casa sua, vicino a Lione: tra cui i documenti segreti dell’Ordine, la
 

 
 
corona del regno di Gerusalemme, il Candelabro a sette bracci del tesoro
del Tempio di Salomone e i quattro evangelisti d’oro della chiesa dei
sepolcri di Gerusalemme (Pernoud, p. 111). Dove poi il principe abbia
nascosto queste ricchezze e cosa ne sia stato di quanto rimasto nella cripta,
non ci è purtroppo dato di sapere.
 
 
 
Se davvero i Poveri Fratelli siano sopravvissuti al colpo mortale e
abbiano continuato a esistere in clandestinità è naturale che si ponga la
domanda su cosa facessero tutto il santo giorno. Anche su questo punto vi
sono le più diverse teorie e qui di seguito se ne presenterà una piccola
selezione. Nell’ambiente della Massoneria, ad esempio, si sosteneva che i
Templari avessero inventato il gotico.
 
 
 
L’opinione di Hartwig Sippel è che l’Europa debba ringraziare i Templari
per lo stile gotico, un orientamento stilistico che sarebbe emerso,
all’improvviso, completamente sviluppato e perfezionato.
A supporto principale della sua teoria egli cita il fatto che, per la prima
volta, apparve l’arco a sesto acuto, l’elemento fondamentale del nuovo
stile, nel 1130, nel nord-est della Francia, la zona da cui provenivano tutti i
principali fondatori del Tempio (Sippel, p. 248).
Le cattedrali luminose del gotico, protese verso il cielo, sarebbero state
possibili in base a nuove conoscenze della statica che prima di allora non
vi sarebbero state in Europa.
Solo casualmente sarebbero comparse quando i membri fondatori
dell’Ordine dei Templari avevano fatto ritorno dall’Oriente per il Concilio
di Troyes. Il gotico però non si basa solo su una nuova tecnica ma è,
secondo Sippel, espressione di un nuovo anelito verso Dio, che rasentava
la mistica, predicato e dimostrato con la propria vita da Bernardo di
Clairvaux: le colonne della chiesa gotica tendono in modo dinamico verso
l’alto, come se volessero toccare il cielo. Tuttavia Bernardo era un
predicatore, non un uomo d’azione. Incaricò forse i Templari di erigere
costruzioni in grado di risvegliare anche nel popolo il sentimento della
presenza di Dio, la luce,
 

 
quasi lo si potesse afferrare con le mani? Di due cose avevano bisogno i
Poveri Fratelli per portare a termine il loro compito: moltissimo oro (Louis
Charpentier conta più di due dozzine di grandi costruzioni organizzate e
finanziate dai Templari tra il 1140 e il 1277, p. 192) e di maturare una
conoscenza architettonica in grado di stupire.
De Sède cita due possibili fonti, in Oriente, da cui i Templari avrebbero
potuto apprendere i segreti della statica. Innanzitutto ci sarebbe stato a
Bisanzio un collegio segreto degli architetti, nel quale si sarebbero
tramandate le conoscenze, di generazione in generazione, fin dal tempo dei
Romani, e poi il Tarouq, un’associazione in cui pare si fossero riuniti gli
architetti degli Assassini.
Solo nella provincia di Tiro sarebbero sorte ben dieci fortezze, costruite
da questa setta musulmana, che avrebbero potuto servire ai Templari quali
esempi di statica (de Sède, p. 108).
Nonostante la teoria che i Templari avessero inventato il gotico sia stata
tanto spesso ripetuta, la si può considerare a stento sostenibile, se ci si
muove con cautela. Troppe domande restano aperte: perché Bizantini o
Musulmani avrebbero dovuto rivelare a un Ordine di monaci-cavalieri,
appena fondato, le loro conoscenze segrete? Dove si possono inoltre
trovare costruzioni presso i Bizantini o gli Assassini, che possano essere
ritenute precorritrici del gotico? Perché i Templari avrebbero dovuto
sprecare il loro tempo a costruire cattedrali in Oriente, anziché combattere
contro l’Islam?
Perché, infine, l’attività di costruzione proseguì senza interruzione dopo
la rovina dell’Ordine? Nel complesso si può sostenere con una certa
sicurezza che la rappresentazione di cavalieri Templari come architetti sia
completamente errata e derivi apertamente dal tentativo di stabilire un
legame tra Tempio e Massoneria, attraverso l’architettura.
 
 
 
Se si dovesse credere ad Andrew Sinclair, e alla sua ricerca, i Templari
avrebbero trovato un sicuro rifugio addirittura in Nordamerica e
precisamente poco meno di cento anni prima di Cristoforo Colombo.
Sinclair nel suo libro The Sword and the Grail avanza presunte
dimostrazioni del fatto che alcuni Poveri Fratelli fossero fuggiti in 
Scozia nel 1307, dove però continuavano a non sentirsi sicuri, poiché vi
era comunque sempre una minaccia da parte del papa e del re inglese. Per
questo avevano ripreso il mare facendo rotta verso est, alla ricerca di un
 

nuovo paradiso, fuori dal minaccioso raggio d’azione del papa.
La figura principale di questa spedizione verso la Groenlandia prima e
infine il Nordamerica, sarebbe stato il principe Enrico di Saint-Clair,
chiamato Earl di Orkney, un uomo molto colto che era stato nel vicino
Oriente e aveva mantenuto ottimi contatti con i Templari, che riteneva gli
uomini giusti per un’impresa tanto ardita. Per prima cosa avevano ottimi
motivi per lasciare l’Europa, poi erano in ogni caso abituati a mettere
costantemente in gioco la propria vita e infine, secondo Sinclair,
disponevano di conoscenze estremamente specializzate in campo nautico.
Sinclair ne parla come dei migliori navigatori del loro tempo, avendo
imparato molte cose dagli arabi, sia per la costruzione delle navi sia per la
navigazione, fino a quel momento sconosciute in Occidente.
Già durante il periodo trascorso in Terrasanta si sarebbero trasformati,
per necessità, in esperti navigatori, poiché potevano ricevere i loro
rifornimenti dall’Europa solo via mare.
La Rocca dei Pellegrini, una delle due fortezze più grandi dei cavalieri
Templari, non solo aveva il proprio porto, ma anche il proprio cantiere.
Una volta persa definitivamente la Terrasanta, quando gli ultimi Templari
avevano ripiegato su Cipro, il viaggio via mare aveva assunto
naturalmente un’importanza ancora maggiore, poiché da quel momento si
sarebbero potuti attaccare i Musulmani solo dal mare. I cavalieri erano
quindi stati più o meno costretti a sostituire il cavallo con il remo.
La prova principale del fatto che l’arte della navigazione dei Templari
superasse nettamente quella di tutti gli altri Cristiani, Sinclair la vede negli
spericolati viaggi di esplorazione dell’Ordine di Cristo, che rappresentò
una diretta continuazione del Tempio in Portogallo. Vasco de Gama, che
scoprì nel 1497 la rotta verso le Indie, navigava sotto la croce dei
Templari, che era divenuta il simbolo dell’Ordine di Cristo.
Altri autori si spingono ancora più in là: il suocero di Cristoforo
Colombo sarebbe stato un membro, se non addirittura un Gran Maestro
dell’Ordine di Cristo e da lui Colombo avrebbe ricevuto le 
carte nautiche per far vela verso est (Hauf, p. 320). In ogni modo questa
storia contraddice la versione di Sinclair, poiché Colombo non navigò
attraverso la Groenlandia e Terranova lungo la costa orientale dell’attuale
Canada, bensì sbarcò all’incirca mille chilometri più a sud, nei Caraibi.
Tornando indietro alla versione che Sinclair dà del viaggio, e cioè la
ricerca dei Templari di una nuova Gerusalemme a est, sarebbe durata in
totale quattordici anni e gli esploratori avrebbero addirittura fondato alcune
colonie, tuttavia nessuna di queste sopravvisse per motivi ancor oggi
 

sconosciuti. Sinclair ritiene che vi sarebbe qualche traccia di questi
insediamenti in parecchie località del continente nordamericano: vicino a
Westford, nello stato del Massachusset, vi sarebbe il profilo di un cavaliere
medievale scolpito su una pietra che però, a causa del deterioramento
dovuto all’azione del tempo, è riconoscibile solo con molta fantasia.
Di un insediamento più a sud vi sarebbero prove più concrete: la torre di
Newport a Rhode Island, che esiste ancor oggi, sarebbe stata eretta dai
Templari e sarebbe servita come faro e torre per le sentinelle. La torre
rotonda di pietra sarebbe stata eretta secondo un progetto che si fondava su
una tecnica di costruzione scozzese e presenta evidenti tratti dello stile
romanico, uno stile che nel xvi e xvii secolo, quando Newport fu
colonizzata dagli Europei, nessuno usava più.
Anche l’aspetto e il comportamento degli indigeni darebbero da pensare:
grandi uomini colti, dal colorito bronzeo, avrebbero infatti accolto i
colonizzatori che fondarono Newport nel 1639.
Sinclair, a sostegno della veridicità della sua tesi, cita il resoconto di
viaggio dei contemporanei Nicolò e Antonio Zeno, che nel loro libro I
viaggi attraverso le isole sotto il Polo artico e le esplorazioni del 1390
raccontano ciò che avevano visto con i loro occhi nel corso di questa
spedizione. L’opera che è composta dal Racconto di Zeno e dalla Carta di
Zeno, sarebbe sparita per oltre un secolo e ricomparsa parzialmente solo
nel 1558 a Venezia dove venne pubblicata, almeno così narra la leggenda.
Il testo conferma all’incirca gli indizi che Sinclair ha trovato di una
scoperta dell’America nel xiv: secolo, la carta mostra infatti due
costruzioni nell’attuale Nuova Scozia (Canada) che potrebbero essere state
fortezze o chiese.
Non solo quest’ultima prova è piuttosto debole, ma è stata sicuramente
falsificata, poiché per la verità la Carta di Zeno e la Storia di 
Zeno sono infatti della metà del xvi secolo e sono state semplicemente
retrodatate, perché in questo modo l’autore veneziano del Diario  voleva
reclamare retroattivamente la fama della scoperta del nuovo mondo per
Venezia, anziché concederla agli odiati genovesi e al loro eroe Cristoforo
Colombo.
Anche le altre prove che Sinclair porta a sostegno della sua tesi non sono
convincenti. Occorre infatti una buona dose di fantasia per riconoscere nel
cavaliere di Westford il ritratto di un Templare. Per quanto poi riguarda le
capacità di navigatori dei Poveri Fratelli si devono limitare molto le
affermazioni di Sinclair, perché, in realtà, la bussola e la vela latina non
furono portate in Occidente dai Templari, contrariamente a quanto sostiene
 

 
Sinclair.
Già dall’viii secolo navigavano nel Mediterraneo imbarcazioni con la
vela latina e la bussola, nella sua forma odierna, fu copiata da marinai
italiani del xiii secolo dai loro colleghi arabi.
Anche volendo però dar credito alla storia raccontata da Sinclair, restano
aperti molti interrogativi. Perché, ad esempio, scomparvero tutti gli
insediamenti dei Templari? Perché i Fratelli fuggitivi abbandonarono un
paese nel quale avrebbero potuto vivere indisturbati e agiatamente? Questi
uomini tenaci, eccezionali amministratori, non sarebbero sopravvissuti,
dunque, nel clima mite di Newport?
Infine, erano monaci e cavalieri ma non certo contadini. Oppure si
abituarono e si estinsero, dunque, semplicemente per mancanza di nuove
leve? Sicuramente avrebbero potuto forse mettere al mondo bambini con
donne indigene, ma il voto di castità escludeva una simile possibilità.
Perciò come i possedimenti dei Templari in Terrasanta dipendevano
sempre dal cordone ombelicale delle sedi in Occidente, così anche gli
insediamenti in America avrebbero dovuto essere costantemente riforniti
dall’Europa, soprattutto di giovani uomini.
In questo modo Sinclair spiega il motivo per cui le colonie andarono in
rovina, inoltre, quando scoppiò di nuovo la guerra tra Inghilterra e Scozia,
tutti i Fratelli in Gran Bretagna erano troppo impegnati per organizzare una
nuova spedizione e dare il cambio ai partecipanti dell’ultimo viaggio
(Sinclair, p. 149). Tuttavia viene da chiedersi ancora una volta che cosa
cercassero in fin dei conti i Templari in America, e sembra poco sensato
fondare una colonia tanto distante dalla patria, che non reca vantaggi ma al
contrario richiede continui rifornimenti.
 
 
 
Anche Louis Charpentier ritiene che si possa stabilire uno stretto legame
tra i Templari e il continente americano, ma che i Poveri Fratelli siano
approdati molto più a sud e decisamente più presto. Altri autori dicono che
i Templari, già a partire dal 1269, avessero avuto rapporti commerciali con
il Sudamerica, quindi ben duecento anni prima della cosiddetta scoperta
dell’America a opera di Cristoforo Colombo (Lincoln/Baigent/Leigh, p.
70).
È forse possibile che la leggendaria ricchezza dei Templari provenisse
addirittura dalle miniere del Sudamerica?
Charpentier ci crede assolutamente e fa notare che, mentre nell’alto
 

Medioevo le monete d’argento erano molto rare, alla fine di quest’epoca
storica erano diventate il mezzo di pagamento in genere più diffuso, il che
dimostrerebbe come in questo periodo dovesse essre stata prodotta o
estratta una gran quantità di argento.
Qui Charpentier si riallaccia al romanzo di uno scrittore, certo Jean de la
Varende, che in un libro, I  nobili,  racconta che i Templari facevano
regolarmente rotta per l’America per sfruttare sul posto le miniere
d’argento.
Se de la Varende avesse inventato in piena libertà la storia avrebbe fatto
riportare a casa ai Templari di certo favolosi tesori d’oro e pietre preziose.
Secondo de la Varende portavano i loro tesori dalla penisola messicana
dello Yucatan al porto francese di La Rochelle, sull’Oceano Atlantico,
ricovero di una parte consistente della flotta dei Templari.
Questo rapporto farebbe pensare che La Rochelle rappresentasse una
delle più importanti sedi dei Templari in Occidente, nonostante fosse
chiaramente inadatta per rifornire la Terrasanta, visto che da qualsiasi
porto del Mediterraneo era possibile raggiungere la Palestina più
rapidamente.
Ma da La Rochelle partivano a raggiera sei strade principali che
conducevano in tutte le regioni della Francia, una condizione ideale per
distribuire l’argento in tutte le sedi del paese, senza dare nell’occhio e
quindi metterlo agevolmente in circolazione. È chiaro che i Templari
avrebbero tentato di mantenere nel miglior modo possibile il segreto sulla
loro ricchezza e di cancellarne ogni traccia.
I Templari avrebbero dunque annullato, in modo sistematico, ogni 
prova che potesse confermare il legame con il Sudamerica per cui
Charpentier non avrebbe potuto, a sua volta, trovare prove inconfutabili
della sua tesi. Solo alcune stranezze gli sarebbero saltate agli occhi come,
ad esempio, il comportamento degli Aztechi quando i primi conquistatori
spagnoli sbarcarono nello Yucatan: non si mostrarono meravigliati per la
visita di quegli uomini bianchi, barbuti, ma festeggiarono il ritorno del dio
Quetzalcoatl, che secondo una leggenda locale sarebbe apparso dal mare,
avrebbe posto le basi della loro cultura e sarebbe nuovamente scomparso
in mare.
Questa divinità aveva, a dire il vero, sembianze umane ma veniva spesso
rappresentato dagli Aztechi e dai Maya, che lo chiamavano Kukulklan,
come un serpente piumato.
Sia Quetzalcoatl, che Kukulklan, significano letteralmente “uccello-
serpente”.
 

L’immagine di una figura simile, con un corpo di serpente e la testa di un
gallo, la si trova anche sul sigillo del Gran Maestro dei Templari in
Francia!
L’iscrizione sul sigillo rappresenta per Charpentier la prova definitiva
dell’esattezza della sua tesi: Secretum Templi che si potrebbe tradurre
semplicemente come “segreto del Tempio”, ma anche come “rifugio del
Tempio” (Charpentier, p. 129).
Questo sigillo potrebbe quindi indicare non solo il luogo di provenienza
delle favolose ricchezze dell’Ordine, ma anche quello in cui i Fratelli, già
da molto tempo, avevano costruito un rifugio dove, in caso di necessità,
avrebbero potuto trovare riparo?
Nel 1307 i Fratelli fuggirono forse anziché in Scozia o Portogallo, verso
lo Yucatan, dove avevano già un punto d’appoggio e godevano di ottimi
rapporti con gli indigeni?
Anche se a qualche lettore potrebbe piacere la visione degli ultimi
Templari seduti nei pressi dell’odierna Cancun su una sdraio in riva al
mare, mentre sorseggiando una Pina Colada, si raccontano le vecchie
storie della lotta contro i Musulmani. Questa possibilità non è però
verosimile: nel sottosuolo dello Yucatan non vi è mai stato argento, gli
unici giacimenti d’argento degni di nota si trovano in Messico, nei pressi
dell’attuale capitale, a mille chilometri di distanza in linea d’aria.
Tuttavia se si correggono questi piccoli errori in campo minerario e si
accetta che il porto si trovasse considerevolmente più a nord, all’altezza
della Vera Cruz odierna, questa storia riunisce tutti gli ingredienti di un
mito ben costruito: è affascinante e al contempo non completamente
incredibile.
Innanzitutto è praticamente impossibile dimostrare che non risponde a
verità poiché, anche se in alcun documento dei Templari si trova il benché
minimo accenno all’America, è più che comprensibile che sulla fonte della
ricchezza dell’Ordine sarebbe stata mantenuta la massima segretezza.
In Messico non si trovano ovviamente tracce dei Poveri Fratelli e i
Conquistadores  non incontrarono alcun meticcio poiché i Templari
distaccati in America sarebbero stati vincolati dal loro voto di castità, per
cui non avrebbero lasciato al mondo alcuna discendenza. Per lo stesso
motivo nessuna colonia dei Templari potè sopravvivere in Messico per un
lungo periodo.
Quando i primi Spagnoli vi giunsero, l’ultimo dei Fratelli, fuggiti nel
1307, era ormai morto da oltre cento anni.
Non dimentichiamo di dire che cosa avrebbero fatto i Templari con
 

 
l’argento, in base alla tesi di Charpentier: l’avrebbero trasformato in oro.
 
 
 
Come già detto brevemente in precedenza, de Sède crede che lo strano
nome della testa onorata dai Templari, Baphomet,  derivi dal greco e
significhi Tintore della luna.
La gente definiva alchimisti coloro ai quali riusciva di colorare d’oro
l’argentea luna, di trasformare cioè l’argento in oro. Ma da dove avrebbero
assimilato questa conoscenza i Templari? Direttamente da Salomone
(Charpentier).
Poiché era risaputo che Salomone possedesse oro in grande quantità,
tuttavia le fonti della sua ricchezza rimanevano sconosciute e, secondo
numerose leggende, avrebbe tramandato il procedimento nel Cantico di
Salomone.
È bene ricordare che fin dai primi anni dalla fondazione dell’Ordine dei
Templari, sarebbero stati fatti vasti scavi nella fondamenta del Tempio di
Salomone.
Trovarono dunque proprio qui, i Poveri Fratelli, la ricetta per
trasformare metalli meno nobili in oro?
De Sède crede di sì, ma non ritiene che avessero usato mai la magia
nera, cosa di cui furono invece accusati durante il processo.
Al contrario l’alchimia rappresentava un’occupazione profondamente
cristiana poiché solo acume e una pazienza sovrumana potevano portare
alla meta. Tutte le cose tenderebbero a raggiungere la forma perfetta,
quindi l’argento “anelerebbe” a diventare oro e l’alchimista avrebbe solo il
compito di cercare un catalizzatore per accelerare questo processo.
Nel corso della trasformazione, inoltre, l’alchimista non nobiliterebbe
solo il metallo, ma passerebbe egli stesso a un più completo stato
dell’essere (de Sède, p. 98).
1 prodotto finale di questo percorso sarebbe stata la pietra filosofale, la
sostanza con il cui aiuto sarebbe stato possibile trasformare materiali di
scarso valore in oro.
Appare tuttavia marginale se i Templari avessero veramente trovato la
pietra filosofale, poiché solo con la ricerca l’alchimista si eleva a un livello
di maggiore consapevolezza, un livello in cui forse il ricercatore smette di
essere prigioniero del tempo.
Piobb ritiene che questo valga proprio per i Templari e nel suo libro,
Nostradamus, tenta di dimostrare che le profezie non uscirono dalla penna
 

dell’astrologo, ma furono scritte in realtà dai Templari, e precisamente
dopo lo scioglimento ufficiale dell’Ordine.
Alcuni Fratelli avrebbero avuto la capacità di predire il futuro perché
avevano raggiunto un livello di consapevolezza in cui il normale scorrere
del tempo e la separazione tra passato e futuro non avrebbero più avuto
valore.
Questo potere l’avrebbe avuto solo l’alchimista che avrebbe quasi
raggiunto l’unità originale, poiché «sta fuori dal tempo e racchiude tutto
ciò che è stato, ciò che è, ciò che sarà» (de Sède, p. 93).
Noi tutti consideriamo normale poter rivedere il passato e vedere “ciò
che è accaduto”, ma chi può affermare che non si possa guardare
altrettanto bene nel futuro se si guarda nella direzione opposta?
Chiaramente la cosa non è così semplice tuttavia, secondo Piobb e de
Sède, alcuni Templari avevano imparato a farlo.
Piobb ritiene che si debba considerare il libro di Nostradamus  come la
storia del futuro, proprio come un normale libro di storia con la sola
differenza di essere stato stampato prima che gli avvenimenti si verifichino
realmente.
Tuttavia  Nostradamus  (o chi scrisse questo libro) non avrebbe
certamente desiderato che chiunque potesse approfittare di questa sua
conoscenza del futuro, di inestimabile valore.
Solo i legittimi successori del Tempio, gli iniziati, avrebbero potuto
trarne vantaggio, per questo egli aveva cifrato il libro con tale abilità che
ancor oggi noi non siamo in grado di sapere quale sia stato il suo reale
pensiero.
Chiunque però, sempre secondo Piobb, fosse in grado di interpretare le
misteriose sentenze di Nostradamus,  potrebbe trarre dal libro non solo la
capacità di conoscere il futuro, ma anche l’indicazione precisa di ciò che
poi dovrà fare.
L’iniziato imparerebbe a riconoscere quindi, non solo ciò che dovrebbe
fare, ma contemporaneamente quale sarebbe il risultato della sua azione.
Come già accennato nella parte precedente, negli atti del processo vi
sono dichiarazioni che confermano riunioni segrete nel corso delle quali
alcuni Fratelli avrebbero adorato figure con due volti e in numerose
costruzioni dei Templari compaiono immagini di un essere con due volti.
Sippel pensa dovesse trattarsi di Giano bifronte, la divinità romana del
capodanno, che con un volto guarda al passato e con l’altro al futuro
(Sippel, p. 262). Perché allora una divinità pagana era stata usata per
decorare molte chiese dei Templari? Questi bassorilievi stavano forse a
 

simboleggiare la capacità di alcuni membri dell’Ordine di vedere, come
Giano, passato e futuro?
Lo stesso nome del presunto autore delle Profezie può essere interpretato
come un accenno segreto ai Templari: Nostradamus  sarebbe in realtà
Michel de Notredame e Nòtre Dame starebbe a indicare Maria, madre di
Dio, che era la patrona dell’Ordine!
Ma non basta, vi era anche uno stretto legame tra i Templari e un altro
famoso veggente, il monaco irlandese Malachia che, in base alle sue
visioni, aveva redatto una lista di soprannomi per tutti i papi futuri e nel
1148 era morto tra le braccia di Bernardo di Clairvaux, il padre spirituale
del Tempio.
Bernardo era rimasto talmente affascinato dalla santità del monaco
irlandese che ne scrisse addirittura la biografia. Si tratta sempre di
casualità, oppure esisteva davvero un sapere segreto, giunto chissà come
all’Ordine?
Come si potrebbero altrimenti spiegare alcuni casi incredibili accaduti
nella storia dei Templari intorno al 1307? Come riuscirono alcuni
Templari a sfuggire all’attacco programmato in modo tanto improvviso da
re Filippo?
Come avevano potuto mettere al sicuro il tesoro e i documenti al
momento giusto? Le ultime parole di Giacomo di Molay sul rogo forse non
furono una maledizione, bensì una profezia?
Infine Giacomo sapeva già, in quel momento, che sia il re che il papa
sarebbero morti prima della fine di quello stesso anno.
Baigent/Leigh ritengono nel loro libro, Il tempio e la loggia massonica,
che perlomeno una profezia di Nostradamus  andrebbe interpretata come
un invito ad agire: la morte violenta che egli previde per re Enrico II si
verificò nel 1559, quando un ufficiale della Guardia scozzese Gabriele di
Montgomery, ferì “inavvertitamente” Enrico ii in modo tanto grave che
morì in seguito alle ferite riportate. Ma gli autori non credono a un tragico
incidente, poiché la Guardia scozzese era un reggimento scelto del re
francese, composto prevalentemente dai figli delle famiglie nobili
scozzesi, da cui erano stati accolti a braccia aperte i Templari in fuga, dopo
il 1307.
Ben 250 anni dopo la loro cacciata, i discendenti dei Templari avrebbero
nutrito quindi ancora un forte rancore contro la casa reale francese, può
essere che essi abbiano addirittura favorito la caduta della monarchia in
Francia nel 1789 (Baigent/Leigh, p. 133).
 

 
 
 
Che gli eredi del Tempio agissero su indicazione di Nostradamus oppure
no, molti autori sono convinti che, alla fine, i Templari abbiano portato la
Francia alla caduta della monarchia.
Fu proprio un caso che durante la Rivoluzione Francese la famiglia reale
fosse stata tenuta prigioniera esclusivamente nel Tempio, il quartier
generale dell’Ordine di un tempo?
I membri del principale gruppo di opposizione alla monarchia, i
Giacobini, portavano questo nome in riferimento all’ultimo Gran Maestro
(Giacomo di Molay)?
(Secondo la storiografia ufficiale il nome dei Giacobini deriva però dal
loro luogo di riunione, il convento di Saint-Jaques a Parigi).
Dopo l’esecuzione di Luigi xvi, si dice che un uomo saltasse sul
patibolo, immergesse la mano nel sangue del decapitato e la mostrasse alla
folla, gridando: «Giacomo di Molay sei vendicato!» (Baigent/Leigh, p.
70).
Luigi Cadet, finito in carcere nel periodo detto del Terrore, era convinto
che dietro a tutta la Rivoluzione francese vi fossero esclusivamente i
Templari e nel suo libro, La tomba di Giacomo di Molay, sviluppa
un’audace teoria su una serie di congiurati anarchici che partirebbe dagli
Assassini in Siria.
I Templari sarebbero venuti presto in contatto con questa setta,
conosciuta soprattutto perché uccideva a tradimento i nemici politici, in
francese il termine per chi uccide è assasin  (assassino in italiano) e
deriverebbe proprio da questa setta.
Queste logge massoniche avrebbero continuato ad agire in segreto, dopo
il 1314, da Napoli, Parigi, Edimburgo e Stoccolma per far cadere la
monarchia francese e affondare il paese nel bagno di sangue del Terrore.
Questa versione ebbe grande popolarità, il che non elimina però i dubbi
in merito alla sua attendibilità.
Infine è necessario parlare di uno dei primi miti nati sull’Ordine:
l’identificazione dei Templari con i difensori del Santo Graal. Agli stessi
Poveri Fratelli piaceva questa posizione, poiché in questo modo avevano la
possibilità di essere caratterizzati come Ordine con un incarico divino.
 
 
 

 
 
 
Circa a partire dalla metà del xii secolo, quindi poco dopo la fondazione
ufficiale dell’Ordine dei Templari, circolava una storia che affascinò tutto
l’Occidente cristiano: la leggenda del Graal.
Il Perceval  (di Cristiano di Troyes) ne rappresentava la prima versione
incompleta: seguirono numerosi altri romanzi dal contenuto simile di cui il
più famoso è certamente il Parzival di Wolfrom von Eschembach, uscito
tra il 1195 e il 1219.
In tutte queste opere si parlava del Santo Graal, un oggetto dall’immenso
significato mistico, ma i vari romanzi ci danno versioni diverse su che cosa
fosse realmente il Graal.
Per alcuni autori si trattava del calice dell’ultima cena, per altri del vaso
in cui Giuseppe di Arimatea aveva raccolto il sangue di Gesù crocifisso.
Wolfram von Eschenbach nel suo Parzival  utilizzava sia l’espressione
Graal che lapsit exillis, un’espressione criptica che potrebbe significare per
Wolfram sia lapsit ex coelis (cadde dal cielo) o lapis elixir (pietra
filosofale).
Altrettanto indefinite rimangono le proprietà e la forza del Graal. Per lo
più gli veniva attribuita la capacità di dare salute e vita eterna a chi avesse
avuto il permesso di guardarlo.
Vicino a lui sarebbero fioriti gli alberi e spuntate le pianticelle e a colui
che lo avesse posseduto, avrebbe regalato un’immensa ricchezza. Ma, nella
maggior parte delle epopee, il Graal era andato perduto e solo i cavalieri
più abili e più timorati di Dio avrebbero potuto ritrovarlo.
Nessuna meraviglia quindi che l’epopea del Graal abbia occupato la
fantasia popolare fino a oggi! Chi non avrebbe voluto trovare quell’oggetto
che avrebbe avvicinato a Dio chiunque lo potesse vedere, lo avrebbe fatto
vivere più a lungo e lo avrebbe ricoperto d’oro, quasi si trattasse di un
triplice dono?
Molti ricercatori credono di vedere numerosi paralleli tra le varie
versioni della leggenda del Parsifal  e la storia dell’Ordine dei Templari,
tanto da essere convinti di una loro profonda connessione.
Perché, si chiedono, le epopee sul Graal ebbero una tale diffusione
proprio nel momento in cui la fama dei Poveri Fratelli era all’apice?
La loro favolosa ricchezza, l’aura di mistero che li circondava avevano a
che fare col fatto di aver scoperto il Sacro Graal?
In ogni caso Wolfram von Eschenbach diceva che i difensori del Graal,
Templeisen  (spade del Tempio), portavano mantelli bianchi ed erano
 

descritti a immagine e somiglianza dei Templari, che l’autore aveva visto
in azione durante un viaggio in Terrasanta.
Nel Perlesvaus, un romanzo della prima parte del xiii secolo, i protettori
del Graal, vestiti di bianco, portavano anche una croce rossa sul petto!
Tra il popolo cominciò a diffondersi la credenza che realmente i
Templari possedessero il Graal e i Fratelli, da parte loro, non facevano
assolutamente nulla per scoraggiare queste convinzioni, anzi si
circondavano di un eloquente silenzio.
Non occorre costruire una connessione tra la leggenda del Graal e
l’Ordine dei Templari, è evidente.
Nelle epopee del Graal e nella fondazione dell’Ordine dei Templari sono
infatti confluite le stesse idee di riforma dei Cistercensi: prima di tutto i
romanzi epici presentavano una cavalleria laica imbarbarita che poteva
solo intraprendere la via della purificazione e della dedizione a Dio per
raggiungere la salvezza per sé e per il popolo. I difensori del Graal
portavano dunque mantelli bianchi perché il 
loro modello erano i Cistercensi e non i Templari (che del resto avevano
ripreso l’abito bianco, anch’essi, dai Cistercensi).
Nella leggenda, il primo posto è occupato dalla ricerca del Graal, mentre
il Graal in quanto oggetto ha un’importanza minore: questa idea ricorda da
vicino il misticismo di Bernardo di Clairvaux, che dedicò la propria vita
alla ricerca di Dio, nonostante sapesse che in vita non avrebbe mai potuto
incontrarlo, conscio del fatto che il cammino rappresenta la vita stessa.
Soltanto il cavaliere che si immerge totalmente nel suo compito, che vi si
dedica anima e corpo, nel vero senso della parola, può trovare ciò di cui il
Graal è simbolo, cioè l’unione estatica con Dio, o la celeste Gerusalemme,
come l’avrebbe chiamata Bernardo di Clairvaux.
I Templari avevano quindi trovato questa Gerusalemme Celeste! Alcuni
autori credono davvero che i Templari siano ancor oggi in possesso del
Santo Graal, ma a questi ammiratori acritici dell’Ordine si deve
rimproverare di non aver capito il contenuto mistico della leggenda: la
salvezza non sta nel puro e semplice possesso del Graal.
Wolfram di Eschenbach, dimostra in modo convincente ciò che
accadeva a coloro che l’avevano trovato ma non l’avevano considerato
importante. Parsifal vagava per il paese senza sosta e senza meta, sempre
alla ricerca di nuove avventure in cui, per lui, vincere o perdere non
avrebbe fatto differenza.
L’importante era rivedere il Graal, la meta apparentemente
irraggiungibile. La stessa Compagnia del Graal era composta dai più nobili
 

 
e dai migliori e aveva il permesso di guardare il Graal una volta al giorno.
Tuttavia essi stessi erano lontani dalla perfezione: il loro re Amfotas
soffriva per una ferita inguaribile al basso ventre che gli era stata inferra
con una lancia, un accenno chiaro agli errori sessuali.
Chi gli stava intorno non poteva però aiutarlo, era anzi condannato
all’inattività.
Le “spade del Tempio” che governano i loro paesi e che per incarico
divino dovrebbero agire come protettori dei bisognosi, vivono invece nella
fortezza del Graal, incatenati al loro re malaticcio. Solo la grazia di Dio
può liberarli da questo stato di agonia. Wolfram rappresenta la Compagnia
del Graal tutt’altro che come un ideale mitico, piuttosto come un’entità
minata nella sua energia, paralizzata e oppressa dalla colpa.
Nel Parzival si incontrano numerosi argomenti noti, tratti dalla storia dei
Templari, sembra quasi che Wolfram nel suo romanzo abbia voluto in
realtà descrivere l’ascesa e il declino dell’Ordine.
Tutto cominciò da un punto di partenza lodevole: il progetto di un uomo
nuovo, migliore.
Questa accanita ricerca del divino in ogni essere umano all’inizio attirò
cavalieri forti, credenti e uniti, ma a un certo punto la spinta i-niziale
scomparve, si perse di vista il compito, cioè la difesa della Terrasanta e i
cavalieri cominciavano a trascorrere la vita senza meta e scopo, chiusi
nelle loro fortezze.
Soddisfazione e decadenza si fecero largo e condussero all’irreversibile
declino e alla rovina; re Filippo diede solo il colpo di grazia al Tempio,
l’ideale del cavaliere-monaco dell’Ordine era ormai morto da tempo.
 
L’obiettivo di riunire monaco e cavaliere in una sola persona era
eccessivamente ambizioso, quasi utopistico, inoltre occorrevano capacità
fuori dell’ordinario per vivere secondo le regole dei cavalieri Templari.
Soltanto poche persone, con una forza ammirevole, potevano riuscire, ma
la maggiore parte delle reclute non possedeva questa grandezza d’animo.
La situazione si aggravò dopo la perdita di Gerusalemme, nel 1187, che
condannò i cavalieri all’inattività a causa dello strapotere dei Musulmani.
Nel xiii secolo ci si discostò sempre di più dal severo regolamento dei
Templari, e i cavalieri-monaci vivevano in modo tale che avrebbe fatto
rigare di lacrime di rabbia il volto del loro fondatore Ugo di Payens: inutili
e infelici, né monaci, né cavalieri. Se lo si considera nell’ambito di
dimensioni storiche, l’Ordine dei Templari non rappresenta che
un’insignificante nota a piè di pagina della storia medioevale.
 

Persino le gloriose crociate sarebbero state, secondo il famoso studioso
Jacques le Paff, solo un episodio trascurabile, la cui unica utilità sarebbe
consistita nell’introduzione dell’albicocca in Occidente! (Le Goff, p. 77).
I Templari non hanno lasciato nulla di tangibile, di tutte le loro fortezze
non è rimasto che un cumulo di macerie, ben diversamente dai castelli dei
cavalieri di San Giovanni, la cui fortezza più prestigiosa, Krak des
Chevaliers,  si erge ancora superba nella Siria del sud quasi a irridere il
destino dei Templari. Bisogna ammettere che i Poveri Fratelli di Cristo
non hanno certo fatto la storia.
Ci hanno fornito però molte storie.
Il  sublime anelito dei fondatori dell’Ordine, l’utopia del guerriero santo,
la follia di Gerardo Ridefort, la lotta impari tra l’astuto re Filippo e il
modesto Giacomo di Molay: tutto ciò rappresenta il capitolo di una
commovente tragedia, profondamente umana. Già la cronaca, per così dire,
storicamente comprovata, è affascinante, ma ciò che intriga maggiormente
la nostra fantasia fino a oggi sono piuttosto le lacune della storia ufficiale
dell’Ordine.
Che cosa facevano i «nove Poveri Fratelli» negli anni tra il 1119 e il
1126, quando cioè erano già riuniti in un Ordine, ma non erano ancora
usciti allo scoperto?
Come apparirebbe oggi l’Europa se l’Ordine dei cavalieri-monaci avesse
fondato in Aragona un proprio stato?
Dove sparirono i documenti e i tesori dei Templari, oppure non vi fu
alcun tesoro?
Le accuse formulate da re Filippo corrispondevano, almeno in parte, a
verità? Per quale motivo altrimenti il papa Clemente v non difese con
maggior fermezza l’Ordine?
Che cosa ne fu di quei Templari che riuscirono a sfuggire agli arresti?
Hanno continuato a mantenere in vita l’Ordine segretamente? Per
rispondere a questi interrogativi, i più importanti, ci si è – fino a oggi –
arrampicati sugli specchi.
Le lacune della storia dei Templari non sono mai state colmate in modo
definitivo, poiché non esistono documenti conclusivi o fonti diverse. A
seconda dei gusti è possibile quindi considerare i Poveri Fratelli, eretici,
bestemmiatori, cospiratori, protettori del Santo Graal, alchimisti o
indovini, come del resto hanno fatto gli autori delle tesi presentate in
quest’ultima parte del libro.
Quasi sempre si passa da un estremo all’altro, i Templari non sono mai
mediocri o noiosi, ma sempre incredibilmente buoni o estremamente
 

 
 
cattivi, santi o demoniaci.
Sembra che per descrivere i cavalieri-monaci non esistano che due
colori: il bianco e il nero, i colori del vessillo dell’Ordine.
Come sempre la verità sta nel mezzo.
I Templari non erano né santi né dèmoni, bensì semplicemente persone
talvolta forti, talvolta deboli, che hanno osato troppo.
Dal punto di vista storico potrebbero apparire insignificanti a causa del
loro fallimento, ma il dramma umano della loro ascesa e del loro declino
rappresenta una grande storia.
Torniamo però, ancora una volta, alla domanda principale della ricerca:
parte dell’Ordine sopravvisse? Ognuno può in fondo darsi una risposta in
base all’idea che si è fatta.
Non si potrà infatti mai dimostrare che l’Ordine non abbia agito in 
clandestinità, quindi nuove teorie sulla sopravvivenza dei Templari
potrebbero essere sempre formulate.
Finché queste storie non corrisponderanno a fatti conosciuti e quindi non
potranno essere tacciate di falsità, al singolo non rimane che decidere se
sono plausibili oppure solo abbastanza divertenti per potervi prestare fede.
Rispettarle tutte in blocco, senza una verifica, non sarebbe un metodo
scientifico e condurrebbe solo in un vicolo cieco: poiché non si sa con
certezza che fine abbiano fatto i Templari e non lo si saprà mai.
Le tracce dei cavalieri si sono perse nel buio della storia.
 
 
 
 
 
 

Il Mistero dei Templariultima modifica: 2011-03-18T18:30:00+01:00da giovannisantoro
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