Qualche considerazione sull’«erudizione»

Tratto da
Rivista di Studi Tradizionali
n. 92
Gennaio – Giugno 2001

e: http://www.zen-it.com/


Pietro Nutrizio

I lettori che ci seguono da un tempo sufficiente si saranno accorti che gli articoli che compaiono sulla «Rivista di Studi Tradizionali» contengono talvolta, ma in modo costante, affermazioni poco benevole nei confronti degli eruditi e dell’erudizione, soprattutto quando questa sia applicata in campi che hanno a che fare con la tradizione.

Poiché si tratta di un termine con il quale viene denominato qualcosa che per una mentalità occidentale può facilmente prestarsi a una confusione con la conoscenza vera e propria, e che di fatto può avere, a determinate condizioni, una certa attinenza con essa, non ci pare inopportuno esaminarne le implicazioni «semantiche» soprattutto, appunto, sotto il profilo degli studi che interessano la «Rivista di Studi Tradizionali». Come non è difficile immaginare, l’atteggiamento che caratterizza questo periodico anche sotto questo punto di vista è suggerito da uno studio e da un assentimento, il più possibile approfondito l’uno e il più completo l’altro, dei contenuti dell’opera di René Guénon; non ci sembra quindi fuori luogo affrontare tale disamina partendo dai dati, se esistono, che quest’opera fornisce in proposito.

Fin dal suo primo libro, Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, René Guénon si esprimeva sull’argomento nel modo seguente (1): «Si potrebbe indubbiamente, ma in un’accezione molto più vasta, parlare dell’esistenza di un esoterismo e di un exoterismo in qualunque dottrina, distinguendone la concezione e l’espressione, la prima tutta interiore, di cui la seconda non è che l’esteriorizzazione; così, a rigore, ma allontanandosi dal senso abituale, si può dire che la concezione rappresenti l’esoterismo e l’espressione l’exoterismo, e ciò in modo necessario, quale risultato della natura stessa delle cose.

Concepita in tal modo, ogni dottrina metafisica conterrà sempre qualcosa di esoterico, e si tratterà di quanto di inesprimibile comporta essenzialmente, come già spiegammo, ogni concezione realmente metafisica; si tratta di qualche cosa che ciascuno deve concepire da se stesso, con l’aiuto delle parole e dei simboli che a tale concezione servono semplicemente quale appoggio, e la comprensione della dottrina sarà più o meno completa e profonda a seconda della misura in cui questo qualcosa sarà effettivamente concepito. Anche nelle dottrine di altro ordine, la cui portata non si spinge fino a ciò che è realmente e assolutamente inesprimibile (ed è il “mistero” nel senso etimologico della parola), non è men vero che l’espressione non è mai del tutto adeguata al concetto, di modo che, anche se in proporzione ben minore, qualcosa di analogo vi si produce tuttavia: capisce veramente soltanto chi sa vedere più lontano delle parole, cosicché si potrebbe dire che lo “spirito” di qualsiasi dottrina è di natura esoterica, mentre la sua lettera è di natura exoterica. Ciò sarebbe applicabile, in modo particolare, a tutti i testi tradizionali, i quali hanno del resto molto spesso una pluralità di significati più o meno profondi che corrispondono ad altrettante prospettive differenti; sennonché, invece di cercare di penetrare questi significati, si preferisce per solito dedicarsi a futili ricerche di esègesi e di “critica dei testi” secondo i metodi laboriosamente composti dalla più moderna erudizione; e un tale lavoro, per quanto fastidioso sia e per quanta pazienza richieda, è molto più facile dell’altro, giacché è, per lo meno, a portata di qualsiasi intelligenza» [il corsivo è nostro].

Dall’ultima frase si può dedurre senza la minima esitazione che l’apprezzamento dell’autore nei confronti dell’erudizione era già tutt’altro che positivo; ma in altre parti della sua opera, lungi dal modificarsi e dal raddolcirsi, a mano a mano che questa si sviluppava addentrandosi sempre più negli argomenti che nel primo libro erano stati, se vogliamo, delineati soltanto in modo generale (come del resto il suo titolo indicava), esso si accresceva in negatività, quest’ultima specificandosi anzi sempre maggiormente.

In Oriente e Occidente, ad esempio, René Guénon, nell’introduzione stessa all’opera, arrivava a dire (2): «In effetti, noi non intendiamo far qui un’esposizione dottrinale, e ciò che diremo sarà in generale accessibile a un pubblico più vasto di quello che le vedute espresse nella nostra “Introduzione generale allo studio delle dottrine indù” hanno potuto raggiungere. Neppure quest’opera, tuttavia, era stata scritta per pochi “specialisti”; se qualcuno è stato in questo senso tratto in inganno dal suo titolo, è perché questi argomenti sono abitualmente l’appannaggio di eruditi che li studiano in modo piuttosto ostico e, ai nostri occhi, privo di vero interesse. Il nostro atteggiamento è ben diverso: per noi si tratta essenzialmente, non di erudizione, ma di comprensione, che è totalmente diverso; non è certo fra gli “specialisti” che si hanno le maggiori probabilità di incontrare le possibilità di una comprensione estesa e profonda, al contrario; e, salvo rarissime eccezioni, non è su di loro che c’è da contare per formare quell’élite intellettuale di cui abbiamo parlato. È probabile che taluni abbiamo giudicato un male il nostro attacco all’erudizione, o piuttosto ai suoi abusi e ai suoi pericoli, pur se ci siamo astenuti accuratamente da tutto quel che avrebbe potuto presentare i caratteri di una polemica; sennonché, una delle ragioni per le quali abbiamo condotto questo attacco, è precisamente che l’erudizione, con i suoi metodi speciali, ha l’effetto di distogliere da determinate cose proprio coloro che sarebbero più capaci di comprenderle. […]; una cosa è l’erudizione, un’altra il sapere reale, e anche se non sempre i due sono incompatibili, non è affatto vero che essi siano necessariamente solidali.

Indubbiamente se l’erudizione acconsentisse a contenersi nel compito ausiliario che deve normalmente competerle, non troveremmo nulla a ridire, dal momento che con ciò stesso cesserebbe di essere pericolosa, e anzi, potrebbe avere qualche utilità; entro questi confini riconosceremmo molto volentieri il suo valore relativo. Ci sono casi in cui il “metodo storico” è legittimo, e l’errore contro cui ci siamo dichiarati consiste soltanto nel credere che esso sia applicabile a tutto, e nel voler trarre da esso qualche cosa di diverso da ciò che può effettivamente dare; pensiamo di aver dimostrato altrove [“Le Théosophisme, histoire d’une pseudo-religion”], senza con ciò esserci messi minimamente in contraddizione con noi stessi, di essere capaci di applicare questo metodo altrettanto bene quanto chiunque altro, quando ne sia il caso, e ciò dovrebbe essere sufficiente a provare che non abbiamo nessun “partito preso” contro di esso, Ogni questione deve essere trattata seguendo il metodo che conviene alla sua natura; è un ben strano fenomeno questo, di cui l’Occidente ci dà abitualmente spettacolo, d’una confusione di ordini diversi e di differenti domìni. Insomma, occorre saper mettere ogni cosa al suo posto, e noi non abbiamo mai detto niente di diverso; sennonché, seguendo questa linea, ci si accorge per forza che vi sono cose che possono essere soltanto secondarie e subordinate nei confronti di altre, nonostante le manie “ugualitaristiche” di certi nostri contemporanei; è per questo che l’erudizione, anche quando presenti qualche valore, non può essere per noi che un mezzo, e mai un fine in se stessa» [i corsivi sono nostri].

Come dicevamo, già qui le ragioni di sospetto verso l’erudizione e le cristallizzazioni che essa genera sono molto più circostanziate, e i suoi pericoli per una mentalità occidentale assai più chiaramente evidenziati; ma dove esse ci appaiono esposte con una forza ancora maggiore, forse perché illuminate dall’enunciazione contemporanea dei fini positivi ai quali l’opera di Guénon era tesa, è nel finale dell’Esoterismo di Dante, un brano all’importanza del quale probabilmente pochi lettori di quest’opera hanno badato; ci si consenta ancora questa lunga, ma a nostro avviso fondamentale citazione:

«Per terminare, diremo soltanto, affinché nessuno possa ingannarsi sulle nostre intenzioni, che i punti di vista che abbiamo indicato non sono assolutamente esclusivi, e che ne esistono senza dubbio ancora molti altri dai quali ci si potrebbe parimenti porre e da cui si trarrebbero conclusioni non meno importanti, completandosi essi tutti in concordanza perfetta nell’unità della sintesi totale. È essenza stessa del simbolismo iniziatico che esso non possa ridursi a formule più o meno ristrettamente sistematiche, come quelle nelle quali si compiace la filosofia profana; è funzione dei simboli di essere supporto per concezioni le cui possibilità di estensione sono veramente illimitate, e ogni espressione non è essa stessa nient’altro che un simbolo; per cui occorre sempre tener conto della parte che vi ha l’inesprimibile, inesprimibile che, nell’ordine della metafisica pura, è anzi quel che più importa.

In tali condizioni si comprenderà senza difficoltà come le nostre pretese si limitino a quella di offrire un punto di partenza per la riflessione a coloro che, interessandosi veramente a questi studi, siano capaci di comprenderne la portata reale, e a indicar loro la strada per tali ricerche dalle quali si potrebbe trarre un profitto del tutto particolare, Perciò se il presente lavoro avesse come effetto di suscitarne altri che procedessero nello stesso senso, già questo solo risultato sarebbe lungi dall’essere trascurabile, e ciò tanto più in quanto, da parte nostra, trattando di queste cose, non è che si faccia opera di erudizione più o meno vana, ma di comprensione vera, ed è senza dubbio soltanto con mezzi di questo genere che sarà un giorno possibile far percepire ai nostri contemporanei la ristrettezza e l’insufficienza delle loro concezioni abituali. L’obiettivo che ci prefiggiamo in questo modo di raggiungere è forse assai lontano, ma non possiamo fare a meno di averlo presente e di tendere a esso mentre, per parte nostra – sia pure modesta -, contribuiamo a portare un po’ di luce su un aspetto troppo poco conosciuto dell’opera di Dante» [il corsivo è nostro].

Stabilita con queste citazioni dall’opera di Guénon la giustificazione tradizionale per un atteggiamento come minimo sospettoso da mantenere verso lo spirito di erudizione, possiamo procedere all’esame vero e proprio dei contenuti del termine, al quale gli stessi dizionari della lingua italiana sono in genere concordi ad attribuire almeno una sfumatura negativa che può essere più o meno accentuata a seconda dei casi. Le definizioni che questi ultimi dànno variano infatti da un generico «Ampio corredo di cognizioni intorno a varie discipline» del Nuovo dizionario Zingarelli della Zanichelli (il quale però introduce una nota negativa nella parola esaminando il derivato «eruditismo»; «erudizione arida che consiste in una confusa raccolta di nozioni minuziose e inutili») al «Complesso di cognizioni acquisite in uno o più campi del sapere, attraverso la ricerca ampia e minuta di dati e notizie, non sempre accompagnata da originalità di pensiero e finezza di gusto» del Vocabolario della lingua italiana della Treccani; in quest’ultimo caso l’«originalità di pensiero» non è certo una qualità da premiare quando si tratti di questioni tradizionali, ma c’è da chiedersi come avrebbe potuto esprimersi in modo diverso qualcuno che con queste ultime non abbia nessuna dimestichezza…

Ad ogni buon conto, quel che di negativo il termine «erudizione», che è qui sinonimo di «nozionismo» (vale a dire di una conoscenza superficiale fondata su un’accumulazione di nozioni), contiene o per lo meno suggerisce, è un’idea di dispersione e di frammentarietà che è la spia della presenza, in coloro che sono affetti da una simile «malattia», di una tendenza a girare intorno a quello che René Guénon, concorde con tutte le tradizioni, ha denominato nella sua opera il «Centro», piuttosto che non ad avvicinarsi a esso. Poiché è soltanto in questo punto centrale che sono sintetizzate tutte le cose che appaiono separate all’osservazione esterna, e poiché è da esso che tali cose traggono la loro ragion d’essere e la loro coerenza propria, e la mantengono anche quando siano guardate da qualcuno che, per la sua condizione individuale umana, sia «calato» nella manifestazione, ci sembra essere piuttosto evidente che la presa in esame d’ogni cosa, o idea, per corrispondere a una realtà, ossia per essere «vera», non deve discostarsi, o quanto meno deve discostarsi il meno possibile, dalla considerazione del legame che queste cose, o idee, hanno con tale punto centrale.

In conseguenza di quanto detto, quando le facoltà individuali, che possono ovviamente essere più o meno «acute», dànno di qualcosa una «visione», questa è certamente già «una conoscenza», ma si tratta di una conoscenza che rimarrà sempre «relativa» finché essa non sia finalizzata a un suo riferimento al legame che questo qualcosa ha con il suo principio, o, per dire meglio, finché la coscienza individuale di colui che così conosce non l’abbia fatta «confluire» in esso. Per questo è presente, in tutte le tradizioni, l’affermazione che il «lavoro» iniziatico (il quale è l’unico tipo di lavoro che consenta di arrivare alla vera conoscenza) consiste nell’eliminazione dell’individualismo, o, meglio ancora, dell’individualità stessa, i cui attributi, come è detto in modi diversi a seconda delle forme tradizionali, lasciano il posto al principio, se così si può dire, a mano a mano che scompaiono in quanto «individualizzati» (3).

Parlando dell’assimilazione degli elementi teorici necessari per affrontare una via di conoscenza, se è vero che René Guénon asserisce recisamente che essi sono gli unici che siano indispensabili, a differenza di tutti gli altri mezzi, i quali hanno solo un ruolo d’appoggio e di ausilio, è altresì vero che, nella stessa occasione egli aggiunge che la seconda cosa necessaria, in ordine logico, è la concentrazione. Le parole con le quali Guénon si esprime al proposito sono, nella Metafisica orientale, le seguenti: «Non vediamo che esista nessuna difficoltà nel riconoscere che non c’è comune misura tra la realizzazione metafisica e i mezzi che portano a essa, o, se si preferisce, che la preparano, È questa del resto la ragione per cui nessuno di questi mezzi è rigorosamente necessario, d’una necessità assoluta; o per lo meno, non c’è che una sola preparazione che sia veramente indispensabile, ed è la conoscenza teorica».

È a questo punto che giunge la chiarificazione a cui ci riferivamo, o, se si preferisce, l’ampliamento della precedente affermazione, ampliamento e approfondimento che la illuminano dall’interno, costituendone il seguente complemento:

«Quest’ultima, d’altra parte [ossia la conoscenza teorica], non potrebbe spingersi molto lontano senza un mezzo che di conseguenza dobbiamo ritenere come quello che avrà la funzione più importante e più costante: tale mezzo è la concentrazione [il corsivo è nostro]; e si tratta di qualcosa di assolutamente estraneo, perfino contrario, alle abitudini mentali dell’Occidente moderno, nel quale tutto tende solo alla dispersione e al cambiamento incessante. Nei confronti di questo mezzo, tutti gli altri sono soltanto secondari: essi servono soprattutto a favorire la concentrazione, e inoltre ad armonizzare tra di loro i diversi elementi dell’individualità umana, allo scopo di preparare la comunicazione effettiva tra tale individualità e gli stati superiori dell’essere» (4).

Sotto questo riguardo non abbiamo dubbi che la preparazione teorica stessa, per quanto vada perseguita con assoluta costanza e nella sua maggiore ampiezza, in ragione dell’importanza determinante che le è in tal modo attribuita da René Guénon, va peraltro affrontata con estrema prudenza (così come del resto i riti che rivestano una portata propriamente iniziatica), cercando di evitare, cioè, che diventi anch’essa quasi una «droga» per l’individualità, la quale le si accosta con lo scopo precipuo di essere superata.

Alla luce di tutte queste considerazioni, le quali saranno da René Guénon ulteriormente chiarite e approfondite nelle sue Considerazioni sull’iniziazione, l’«erudizione», quand’anche verta su elementi dottrinali, i quali sembrerebbero a un approccio un po’ affrettato potersi difendere da soli, per la loro stessa natura, contro il pericolo di inquinamenti di un tipo che potremmo chiamare «individualizzante», ci pare che possa essere definita, appunto, come il prodotto di una inclinazione a seguire percorsi mentali che ruotano indefinitamente attorno al centro invece di tendere a penetrarvi.

D’altra parte, non è che non esistano mezzi per individuare il momento, o le situazioni, in cui la preparazione teorica necessaria scade in «erudizione» perdendo gran parte delle sue indispensabili virtù; sotto questo profilo «diagnostico», per esprimersi in questo modo, la tendenza all’erudizione non può che caratterizzarsi con sintomi di «individualismo», giacché è nell’individualità che si coagula la «separatività». Combattendo questi sintomi, primi fra i quali il naturale compiacimento nelle proprie conoscenze frammentarie e il meno naturale esclusivismo di cui si tende a «colorarle», si combatte anche quello che possiamo chiamare lo «spirito di erudizione», ma ovviamente si tratta di un còmpito e di un lavoro che competono a ciascuno, il quale, se il suo scopo è veramente quello di accostarsi alla conoscenza, dovrebbe avere (o attivare in sé) una facoltà di autocritica sufficiente a permettergli di rendersi conto se stia «dando corda» al proprio «desiderio di individuazione», o se si stia aprendo una via verso la vera conoscenza, la quale, per essere identificazione del soggetto con l’oggetto, non potrà mai, in tale caso, essere «individuale» e quindi esclusiva.

Chi si sorprendesse di quest’ultima affermazione potrà trovare una conferma del suo fondamento nell’insistenza con la quale René Guénon ha sempre tenuto a precisare che esiste una differenza profonda «tra la concezione delle verità metafisiche, la quale, in sé, sfugge a qualsiasi limitazione individuale, e la loro esposizione formulata, che, nella misura in cui è possibile, può consistere soltanto in una specie di traduzione in modo discorsivo e razionale» (5).

Si potrebbe ancora aggiungere che l’erudizione, che è una conoscenza esteriore anche quando prenda in considerazione elementi connessi con la tradizione, è al massimo una conoscenza «per riflesso», che potrà costituire una base per l’esoterista, o per l’iniziato, soltanto quando questi abbia deciso di innescare in se stesso quel processo di uscita dalla successione che solo può condurre alla metafisica come al suo risultato finale e nel quale consiste la più o meno lunga agonia della «morte iniziatica».

Note

  1. Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, parte II, cap. IX, «Esoterismo ed exoterismo»; Adelphi Edizioni, Milano.
  2. Oriente e Occidente, «Premessa», p. 13; Luni Editrice, Milano.
  3. Un esempio significativo e chiarissimo in tal senso è costituito dai seguenti due hadîth qudsî della tradizione islamica:
    «Fra tutti i mezzi usati dal Mio servitore per avvicinarsi a Me, nessuno Mi è più gradito della pratica che gli ho imposto. Il Mio servitore non cessa di avvicinarsi a Me con opere surerogatorie finché Io non lo ami. E quando lo amo, Io sono l’udito con cui egli ode, la vista con cui vede, la mano con cui afferra e il piede con cui cammina. Se Mi chiede, gli accordo, e se cerca la Mia protezione, lo proteggo». E: «Colui che Mi cerca Mi trova. Colui che Mi trova Mi conosce. Colui che Mi conosce Mi ama. Colui che Mi ama, lo amo. Colui che Io amo, lo uccido. Colui che Io uccido, a Me compete di riscattarlo. Colui che devo riscattare, sono Io il suo riscatto».
  4. La Metafisica orientale, p. 28-9; Luni Editrice, Milano.
  5. Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, parte II, cap. VIII.

Qualche considerazione sull’«erudizione»ultima modifica: 2009-11-29T18:00:00+01:00da giovannisantoro
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