Dissertazione sulla pietra filosofale 1590


Dal manoscritto n. 19957 del fondo francese della Biblioteca Nazionale
traduzione di Maurizio Nicosia

L’anno di grazia 1588 del regno d’Enrico III re di Francia e Polonia, il dodicesimo giorno del mese di maggio 1: mentre tutto il popolo era in rivolta e pericolosamente armato all’interno della città di Parigi 2, in cui abitavo con la mia famiglia, colto da malinconia e oppresso dalla tristezza, andai a passeggiare nel bellissimo giardino del Signor de Nevers 3 per passare un po’ il tempo: e là, mentre ero intento a contemplare l’ingegnosa fontana artificiale, improvvisamente fui raggiunto da due filosofi, uno dei quali era inglese, uomo prudente, saggio ed erudito di sessantotto anni; l’altro era spagnolo, di spirito assai sottile, sognatore, malinconico e di poche parole, di cinquantadue anni: siccome una parola tira l’altra, iniziammo a parlare della stagione, del tempo, dei gravi incidenti che improvvisamente avevano investito Parigi e delle loro possibili conseguenze. Ma alla fine, a forza di camminare, ci ritrovammo presso la fontana e seduti uno accanto all’altro, quei due dottori iniziarono a discutere della grande medicina, Elisir o Pietra filosofale: dopo una lunga discussione in cui non si erano trovati d’accordo (come avviene di solito in queste dispute), il Filosofo inglese si rivolse a me dicendo: «Cosa ne pensate della nostra discussione? Vi interessate ad un’arte così virtuosa e onesta?» – Gli risposi: «Certamente no, per quanto sia stato spronato e invitato da alcuni miei amici che, a quanto dicono, ne traggono particolare giovamento e vi si dedicano abitualmente. Ma ho sentito dire da gente molto saggia che si tratta di cosa tanto grande e quasi impossibile da ultimare, che bisogna essere molto acuti e profondi nelle conoscenze filosofiche e ricchi: mentre io sono privo di queste doti e non posseggo i mezzi necessari; considerando quanto le cose naturali e le loro cause siano difficili da investigare e approfondire, a maggior ragione è da ritenere che quelle soprannaturali siano più ardue e difficili poiché non ne conosciamo affatto le cause, oppure non ne hanno alcuna e allora non si devono indagare. Io, non avendo mai studiato Filosofia, sono completamente ignorante in questa scienza come anche nelle altre; e a dirvi la verità, non ci credo affatto, avendo sentito dire, da tante persone che vi hanno lavorato, che non hanno mai trovato nulla, né avendo sentito dire da uomo vivente di aver visto alcuno essere arrivato a tale perfezione, cosicché ho qualche motivo per essere restio a intraprendere questo cammino che ciascuno dice essere la grande opera della Filosofia segreta».
Allora il filosofo spagnolo parlò in questo modo: «Fosse piaciuto a Dio che avessi reagito così quando ho iniziato e quando me ne parlarono per la prima volta: avrei risparmiato più di seimila ducati e venticinque anni della mia vita, senza trovar niente, persi per aver con leggerezza creduto».
«Io non mi sono sbagliato -disse il filosofo inglese- mentre voi non avete fatto altro che sofisticherie e frequentato gente falsa e imbroglioni ricchi d’inganni. Ma ho sentito dire da un religioso e sant’uomo, il quale aveva raggiunto questa perfezione, che non serve tanto spendere denari né tanti misteri, soprattutto se l’artista conosce i principî della natura e dei metalli, e io gli ho creduto. E se voi aveste studiato a fondo i buoni libri, non vi sareste sbagliati tanto. Ma le principali ragioni per cui quest’arte sacra è biasimata da quasi tutti e ritenuta frivola, sono la presunzione e l’avarizia piena di timori». Allora sorrisi e lui mi disse: «Di cosa sorridete?» – e gli risposi: «Del fatto che l’abbiate chiamata Arte Sacra», al che rispose levando gli occhi al cielo: «Arte sacra, veramente, e scienza divina». E se vorrete credere alle mie parole che sono vere e senza finzioni, vi dirò ciò che ho visto e toccato con le mie mani». – Allora gli dissi: «Ve ne prego umilmente». Egli s’alzò in piedi e giurando con le dita incrociate, cominciò a dire così: «Dovete sapere che quarant’anni fa, nella città di Londra dove sono nato, ci fu un religioso dell’ordine di San Bernardo, la cui fama acquistata per aver guarito da malattie incurabili i poveri, si estese rapidamente a tutta la città; arrivata questa notizia alle orecchie del mio maestro che era un patito della scienza medica, essendole dedito da molto tempo, più volte mi disse d’informarmi diligentemente di quel religioso, cosa che feci per conto mio, così come il mio maestro per conto suo. Infine scoprimmo che era parente del mio maestro: lo avvicinammo ed egli si dimostrò comprensivo e gentile e dopo un po’ di tempo venne a cena a casa nostra dimostrando amicizia nei confronti del mio maestro, perché era un erudito nella lingua greca e aveva molti bei libri di questa scienza. Dopo aver cenato e fatta una buona accoglienza, disse: «Andiamo a vedere la camera filosofica»; là, mentre eravamo noi tre soli, scrollò la testa sorridendo nel vedere tanti fornelli diversi e tante strane materie; infine disse: «Pesatemi quattro once d’argento vivo e altrettante di stagno e mettetele in un crogiuolo sul fuoco»; quando furono fuse insieme vi gettò un pezzetto di cera che non era più grande d’un pisello e coprì il crogiolo di carbone, ci fece soffiare forte, poi lo gettò in terra e disse al mio maestro: «Fate esaminare questo composto da un affinatore e domani verrò ancora a cena da voi e mi direte cos’è». Dopo essersi congedato, tornò al suo alloggio: subito dopo il mio maestro e io andammo con sollecitudine dall’affinatore più esperto di tutta la città: e costui, esaminato il composto nel modo più rigoroso possibile per verificarne la perfezione, certificò trattarsi di sette once d’oro puro, cosa che non s’astenne dal documentare su una pergamena. Vedendo ciò il mio maestro rimase come in estasi e pieno di meraviglia. Ritornando a casa non riuscimmo a dormire neanche un’ora. E dopo aver preparato la cena, il mio maestro andò a cercare quel sant’uomo ma non riuscì a trovarlo; lo cercò per quindici giorni e alla fine ci fu detto che era andato in Francia: per questa ragione il mio maestro s’ammalò di tristezza e di malinconia, mentre io con il sangue ribollente per aver osservato quel fenomenale esperimento, domandai il permesso di congedarmi per andare a cercare quel sant’uomo, cosa che mi fu subito accordata e non senza rimpianti da parte del mio maestro che mi mise in borsa cento angeli d’oro e mi regalò un’oncia di quell’oro, per attestare la veridicità della cosa; così ho viaggiato per quasi tutto il mondo per trovare quel sant’uomo, ma non sono mai riuscito a incontrarlo. Ed ecco ciò che resta ancora (e mostrò un anello d’oro che aveva al dito) che mi ha permesso d’accedere a molti luoghi, con gente autorevole e sapiente con la quale ho lavorato a quest’opera; ma fino a questo momento Dio non m’ha permesso di raggiungere questa perfezione. E nonostante la vecchiaia mi stia dietro, avendo sessantotto anni, non smetterò fino alla morte di cercare quella preziosa Pietra, sapendo che è proprio vera». Terminato il discorso si sedette. Io gli resi grazia e mi sentii colpito al cuore, provenendo tali parole dalla bocca d’un uomo tanto saggio e prudente; essendosi fatta notte, ognuno si congedò. Ma quel fatto mi era entrato in mente così bene che non smettevo di pensarci giorno e notte. Ed essendo il mio umore così improvvisamente cambiato, i miei amici pensavano che mi fosse successa qualche disgrazia, o a ciò che avevo di più caro, o qualcosa d’altro, tanto ero pensoso e malinconico; allora avrò avuto cinquantatré anni e quasi tutti i giorni ci riunivamo tutt’e tre per discorrere di filosofia e di questa grande Opera, fino a che nel mese d’ottobre il filosofo inglese morì nell’antico quartiere di Saint Germain, e io fui presente al suo trapasso, che mi procurò gran dispiacere; egli mi aveva dato tre libri di questa scienza, esortandomi soprattutto a non frequentare gli uomini ignoranti, maligni e sofisti: essendo la cosa più pericolosa per chi vuole lavorare in quest’arte preziosa. Poco dopo il filosofo spagnolo se ne andò in Germania; io rimasi solo, e privato di tanta gioia e piacevolezza mi ammalai di malinconia, non sapendo più con chi condividere e trascorrere il tempo, poiché molti uomini sapienti non credono quest’arte veritiera: tuttavia non potendomi trattenere mi accostai a molti che vi lavoravano, ma con false ricette e sofisticherie. Allora mi ricordai i buoni precetti insegnatimi dal filosofo defunto, che fortunatamente come un angelo mandato dal cielo mi aveva spiegato tutti i modi e i segni per mezzo dei quali si riconoscevano i falsi e maligni alchimisti; mi risolsi a lasciarli perdere del tutto e a non frequentare più nessuno. E mi ricordai anche del santo documento di nostro Signore in cui si dice che Maria ha eletto la parte migliore, quella che non potrà andare perduta. Così mi ritirai in solitudine e acquistai un gran numero di libri su quest’arte e meditai, pensai e studiai tanto che feci il meraviglioso sogno che segue.
Nel giorno in cui il sole entra nel segno dell’Ariete dall’alba al tramonto, studiai il primo capitolo della Genesi, meditando molto profondamente sulla creazione del mondo e soprattutto dell’uomo:
È l’opera dei sei giorni che non posso raccontare,
gli angeli stessi han l’ordine di non parlare
Ne ebbi tale piacere e contentezza che il giorno trascorse senza che mangiassi o bevessi: ma la carne che pesa mi fece sentire quando era tempo di mangiare. Dopo aver desinato in modo leggero, alle dieci mi misi a letto e contai le undici senza riuscire a dormire, infine presi sonno. E immediatamente mi sembrò d’essere in una camera riccamente ornata e di sedere su una sedia d’oro fino, tenendo nella mano destra una rosa e nella sinistra un giglio bianchissimo, e sotto i miei piedi era un serpente con sette teste dal cui corpo usciva un fuoco; io ero in estasi, pieno di grande meraviglia 4. Ed ecco che entrarono quattro animali dall’aspetto spaventoso e dai diversi colori e dalle opposte qualità, come i quattro cavalli di cui parla San Giovanni Evangelista, molto alti, ognuno dei quali aveva scritto in fronte il nome d’un elemento: e mettendosi nel centro della camera a due a due, uno di fronte all’altro, iniziarono a dire: tu sei il mio nemico mortale, poiché l’acqua deve combattere con il fuoco e la terra con l’aria 5. Ed entrarono sette uomini, ognuno dei quali aveva scritto in fronte il nome d’un pianeta. Mettendosi in circolo e tenendosi per mano uno con l’altro, circoscrissero i suddetti animali girando in tondo molto velocemente e senza fermarsi. E poco dopo vidi entrare un uomo dal mantello nero che aveva nella mano destra una lingua di fuoco, nella sinistra una tromba di vetro e sulla testa una colomba bianca, uno degli uccelli di Venere 6, i quali per fatale destino, andarono a posarsi sull’albero gemello, dopo aver volato molto in alto nell’aria serena, indicando a Enea il prezioso albero con il ramo d’oro lucente che si trovava nel mezzo della fitta foresta ricoperta di nuvole e circondata da siepi di spine molto pungenti, in modo che l’eroe, una volta trovatolo, potesse facilmente strapparlo e presentarlo a Proserpina, come canta il poeta Virgilio nel sesto libro dell’Eneide. E appena l’uomo fu entrato, gettò a terra la lingua di fuoco e iniziò a suonare forte la tromba, al suono della quale senza indugio i quattro animali summenzionati iniziarono un combattimento cruento, tanto che iniziai a tremare dalla paura; e considerando il pericolo imminente, e temendo che si uccidessero l’un l’altro, cosicché tutto sarebbe andato perduto, feci cenno ai sette uomini di dividerli e di metterli d’accordo, poiché solo loro potevano far sì che tra gli animali nascessero pace e amicizia, dalle quali dipendono la vita o la morte. Ma anziché far ciò, vidi allontanarsi il rappresentante di Mercurio, seguito via via da quelli di Saturno, di Giove, di Venere, di Marte, della Luna e infine da quello del Sole. Il rumore cessò e anch’io smisi di tremare, e tutto sparì davanti ai miei occhi, non vedendo più che tenebre e oscurità come di nebbia. Mutata l’immagine, subito mi fu tutto rivelato e chiarito, come per illuminazione. Ed ecco entrare dodici ninfe con strumenti musicali e spartiti; ciascuna di loro aveva impresso in fronte un segno zodiacale. Esse cominciarono a suonare e a cantare melodiosamente le lodi a Dio, l’immagine del quale non svaniva davanti a chi lo cercava. E subito vidi apparire in mezzo alla camera una tavola di smeraldo, imbandita con carni delicate e facilmente digeribili, che mandavano un buon odore e stuzzicavano l’appetito. Ed ecco entrare un uomo molto vecchio e venerabile, che camminava con passo maestoso, indossando una veste di lamine d’oro molto fine, un mantello di finissimo velluto nero e una camicia bianca come la neve. Aveva la carnagione rossa come il sangue, e guidava sette uomini strettamente legati l’uno all’altro con una catena d’acciaio, lo stesso con cui fu fatta la sottilissima rete di Vulcano quando prese Venere e Marte in flagrante adulterio, i quali avevano scritto in fronte ognuno il nome d’un metallo; avendoli slegati con un artificio più divino che umano, li fece sedere a tavola l’uno dopo l’altro secondo il loro grado e la loro dignità. Dovete sapere che mise a capotavola l’oro, al lato destro in alto l’argento, dopo di lui lo stagno poi l’argento vivo, dalla parte sinistra in alto il rame, poi il piombo e dopo il ferro. E per quanto mi riguarda mi trasportò così com’ero sulla sedia e mi mise in fondo alla tavola.

Così l’argento si trovò di fronte al rame, lo stagno al piombo, l’argento vivo al ferro e io all’oro. Sostando in quest’ordine vidi apparire al centro della tavola una meravigliosa fontana di cristallo, che aveva tre sbocchi da uno dei quali usciva dell’acqua nera come inchiostro, dal secondo acqua bianca come il latte e dal terzo acqua rossa come sangue, stando all’interno d’una vasca d’oro finissimo. Questo vecchio tanto saggio ci fece segno d’andare a lavarci le mani, alcuni nell’acqua nera, altri in quella bianca, eccetto me che le lavai nella rossa: dopo aver benedetto il cibo iniziammo a mangiare con gioia, guardando spesso al contegno e al modo di fare di quel venerabile vegliardo, il quale per la gioia d’aver reso grazie a Dio, pianse lacrime chiare e ignee che bagnarono tutto il suo corpo fino a dissolverlo e improvvisamente la tavola disparve. Ma ecco entrare la colomba bianca che l’uomo dal mantello nero aveva sulla testa, e portava nel becco un libriccino d’oro fino, le cui pagine anche erano d’oro; e avendo fatto tre mezzi giri per la stanza, si posò sul braccio destro del venerabile vegliardo sbattendo incessantemente le ali, e allora egli iniziò a dire così:
Se saprete divinare degli elementi la guerra,
E l’uscita, uno appresso l’altro, dei sette,
Se voi divinerete vostro sarà il libretto
Che felici di molto vi farà, in cielo e in terra.
In quel libretto è racchiuso tutto il segreto della sapienza, è simile a quello che il Conte Trevisano si meritò nella città d’Apuleio, in India, per averlo saputo discutere e che gli fu presentato dalla facoltà di Filosofia. Guardandoci l’un l’altro iniziammo a discutere e aprimmo un grande dibattito tra noi che durò a lungo, senza che mai nessuno potesse dire di conoscere la verità. Allora il vegliardo, sbalordito dalla nostra ignoranza, dopo averci mostrato tante belle cose con le quali avremmo potuto facilmente scoprire il segreto, per dispetto diede un calcio al serpente che mi stava sui piedi, il quale si lanciò in aria infuriato e divorò il libro con straordinaria avidità, tanto che dal fragore mi svegliai.
Essendo suonate le sei ed essendomi ripreso un po’, misi per iscritto il sogno punto per punto così come lo leggete e ne feci dieci copie che ho dato a teologi, astrologi, matematici, poeti, religiosi ed eremiti, gente molto dotta, pregandoli in fraterna carità di darmene qualche lume interpretativo, ma nessuno ne seppe capire nulla. E dopo aver trascorso sei mesi in questa ricerca, nel timore d’essere importuno, mi ricordai della lettera di San Giacomo 7 in cui si dice come tutto ci provenga e discenda dal padre della Luce: decidendo di rivolgermi alla stessa sapienza che è Dio onnipotente, fonte viva di pietà e misericordia, indirizzandogli la mia preghiera con il cuore contrito e umiliato, dissi: «O Luce incomprensibile e gloria maestosa, il cui splendore offusca gli occhi del mio intelletto; O Uno nella sostanza e trino in divinità, Giùbilo di tutte le gerarchie, dispensatore di gloria; O misericordioso purificatore delle anime e pura eternità, che benignamente ci sottrai ai pericoli incombenti, O Potenza, O Sapienza, O bontà e beltà inesplicabile, sorreggimi e appoggiami sempre. Conducimi e guidami affinché possa servirti e obbedirti fedelmente fin dall’inizio, fammi la grazia d’aprirmi gli occhi dell’intelletto e svelami le cose nascoste così come dice il Profeta al salmo cinquantunesimo. Certamente tu hai amato la verità e mi hai concesso di conoscere le cose non rivelate e segrete d’ogni sapienza. Signore, mi cospargerai d’issopo e sarò mondato, mi laverai e diventerò più bianco della neve. All’inizio tu creasti tutto, e dalla massa confusa e dal caos disordinato, che in sé conteneva naturalmente tutte le cose senza forma, per tua divina Provvidenza secondo la tua buona volontà furono separate le varie specie naturali; allora furono fatti il cielo e la terra e tutte le cose che essi comprendono e per ultimo l’uomo. Ma come creatore tu sarai glorificato ora e sempre; quindi Signore, fammi la grazia di concedermi la Sapienza come dice il Saggio nei suoi proverbi: il timore del Signore è l’inizio della Sapienza, poiché il Signore dà la Sapienza e dalle sue labbra procedono prudenza e scienza, doni che tu concedi ai semplici e ai giusti; e soprattutto concedimi l’intelligenza di quest’arte. Come ha detto il buon Filosofo Geber, maestro dei maestri, il segreto di quest’arte è riposto soltanto nella potenza di Dio, ed è Lui che lo rivela a chi gli piace e ne priva coloro che non ne sono degni. Ti supplico quindi, Signore, di assistermi con il Tuo Spirito e che sia fatta non la mia, ma la tua volontà». Terminata la mia preghiera, passai il resto della giornata a studiare e meditare e dopo essermi coricato entrai in un sonno profondo, sognando cose che sarebbero lunghe da raccontare, ma molto simili alle visioni e ai sogni di Giacobbe, di suo figlio Giuseppe, di Esdra, Daniele, Ezechiele e all’Apocalisse di San Giovanni: e all’alba m’apparve come in visione l’uomo dal mantello nero che aveva in mano una meravigliosa fonte e mi disse: «Ecco il segreto che era nascosto nel Libro d’Oro che la colomba bianca portava nel becco e che il serpente divorò per scomparire subito dopo». Risvegliatomi di soprassalto, pensai a lungo a questa visione e decisi di riportarla fedelmente.
Misi mano alla penna, come vedete, feci dieci copie del racconto del sogno e le diedi a molti miei amici, tra i quali vi era un religioso dell’ordine di Sant’Agostino, uomo molto dotto che confermò quest’arte come veritiera. E un altro era generale dei cappuccini. Rimasi quaranta giorni ad attendere qualche lume dagli uomini sapienti, ma avvenne come per il sogno, che nessuno seppe afferrarne il significato. Così iniziai da capo pregando Dio d’ispirarmi ciò che dovessi fare e mi ricordai del primo comandamento che Dio diede a nostro padre Adamo, secondo il quale si sarebbe guadagnato il pane con il sudore della fronte, ricordai che Marta è proprio sorella di Maddalena, che l’albero sterile di frutti deve essere tagliato e che la legge senza le opere è morta; così dissi a me stesso: è ora di lavorare e di non sprecare altro tempo in fantasiose congetture e melanconiche contemplazioni. E avendo deciso di porre mano a questa grande opera scelsi una camera che fosse la più comoda e la più segreta del mio alloggio. Costruii un forno e vi feci portare da uno dei miei servitori, molto semplice e fedele, tutto ciò che mi parve essere necessario a questa impresa, poi mi ritirai in questa camera e interpretai a tavolino il mirabile sogno che avevo fatto e il modello della fonte perigliosa che mi era apparsa in visione, per servirmene come d’una lanterna ardente che illuminasse il cammino nelle tenebre.
Lo stesso giorno in cui il sole entra nel segno dell’Ariete, appena i suoi raggi iniziarono a rischiarare, accesi il fuoco sotto il forno e non mi allontanai dalla camera, pregando e lavorando, finché Dio mi fece la grazia di svelarmi il segreto di quest’arte e i miei occhi si schiusero e il mio intelletto fu illuminato. Quando uscii fuori ero talmente felice che decisi di trascorrere il resto della mia vita senza avvicinare più nessuno. Acquistai un piccolo appezzamento di terreno in campagna e lì mi dilettai d’agricoltura, che è la vera compagna di quest’arte e della filosofia, seminando e piantando alberi che davano ottimi frutti e quando era cattivo tempo meditavo e studiavo nei diversi libri delle Sacre Scritture cronache e fatti eroici di uomini illustri del passato, da cui con sacrifici e veglie ho tratto questa breve dissertazione che vi presento. Ora tocca a voi, figli della dottrina, amanti della verità e veri ricercatori di questa divina e segreta Filosofia degli antichi, rispettosamente valutare e osservare con cura. E come m’è stato di grande consolazione trovare nei testi scritti elementi che mi sono stati d’aiuto e di conforto per la mente così, allo stesso modo, vorrei riuscire per quanto mi è possibile ad aiutare gli altri a comprendere la materia che è piaciuto a Dio farmi conoscere, senza tuttavia discostarmi minimamente dallo stile dei filosofi i quali si sono indirizzati sempre e solo ai figli dell’arte. Vi prego di prendere in considerazione ciò che liberamente e fedelmente senza alcun inganno vi presento. Non senza avvertirvi che non tutti sono in grado di capire un così elevato argomento. Ma come fedele incaricato di questo grande magistero, v’indico e vi spiego ciò che ho potuto carpire fino a ora dai libri molto oscuri dei filosofi e principalmente di Geber, dal quale ho appreso, per grazia di Dio e con la guida dello Spirito Santo, questa scienza divina al settimo capitolo della summa sulla perfezione, che così ho ordinato come segue. Leggete, tenetelo per voi e siate attenti.
Per chiunque cammini nelle tenebre non è certamente poca cosa trovare una guida per superare il pericoloso ponte d’Apuleio 8, tanto vecchio anzi antico che da innumerevoli anni trema sempre e sembra debba crollare da un momento all’altro, sotto il quale passa un fiume tanto impetuoso nel suo alveo e con profonde voragini, in cui è annegato un numero infinito d’acuti ingegni, ai quali mancava la vera intelligenza e la corretta disposizione della mente. Costoro infatti si sono limitati a interpretare le parole dei Filosofi nel senso letterale e non le hanno potute penetrare nel loro significato occulto e mistico. Questi Filosofi hanno amato tanto gelosamente questa grande opera che, per prudenza e per saggezza, invece d’insegnarla e svelarla attraverso i libri che hanno scritto, al contrario hanno cercato scientemente con tutti i mezzi a loro disposizione di velarla e nasconderla in detti profondamente oscuri e altisonanti. E la stessa cosa avviene per le Sacre Scritture, oggetto di tante polemiche tra gli eruditi. E questo è stato fatto perché gli improbi, falsi e maligni, ne fossero completamente esclusi: dissimulando la verità con parabole e similitudini sull’argomento, costringono i dotti e sapienti ad applicarvisi anima e corpo per venirne a capo e custodirne gelosamente il segreto. Si lamentano di questo modo di scrivere quasi tutti gli studiosi e i praticanti di quest’arte, al punto che giungono sull’orlo della disperazione e arrivano ad affermare che non bisognerebbe mai scrivere il falso, se si può chiamare falso, quello che i filosofi hanno descritto per mezzo d’analogie e similitudini come sono i fenomeni animali, vegetali, e anche minerali e le formule che celano il segreto di quest’arte. Gli avidi sofisti, non avendo trovato ciò che cercavano e avendo condotto gli esperimenti punto per punto secondo il senso letterale, hanno detto che i Filosofi avevano scritto il falso e che erano menzogneri, cosa non vera, ma questo genere di persone, chiunque siano, quando userà discernimento e raziocinio, senza dubbio confesserà che a buon diritto e giustamente i Filosofi hanno adottato un tale modo di scrivere poiché è in gioco il segreto dei segreti di tutta la Filosofia, il quale Dio concede solo per grazia speciale agli animi semplici e giusti. E voi, maligni ingannatori pieni di sofisticherie, fuggite quest’arte, non vi avvicinate, come dice Geber, poiché essa è vostra mortale nemica e vi condurrà in miseria, poiché la vostra falsità è contraria alla nostra verità. E voi, prudenti e saggi figli della dottrina e della verità, cercatela e la troverete, non con la presunzione e la grande dottrina, ma piuttosto con l’umiltà, come il suddetto autore consiglia dicendo: colui che attraverso i libri pensa d’apprendere questa divina scienza e preziosa arte, vi arriverà tardi, visto che abbiamo scritto d’essa in modo tale che solo Dio possa capirla, o noi che li abbiamo scritti o colui al quale Dio ha concesso la grazia d’intenderla. Invocando tale grazia da Dio onnipotente, nel nome di Lui e dell’indivisa e Santa Trinità, inizio sotto la guida dello Spirito Santo 9, che invoco in mio aiuto come ha fatto finora, a presentare questa dissertazione. Nello stile consueto dei Filosofi, affinché la divina Maestà non sia offesa e io non vìoli il sigillo della sapienza, ma lo conservi integro e completo. Che quello che dico possa far capire l’essenza dei miei studi e ciò che ho attinto nei libri oscuri d’ogni genere. Del meraviglioso sogno che ho fatto, come del tipo della fonte perigliosa, come vi ho detto, nonostante una lunga ricerca, non ho mai trovato nessuno che ne abbia saputo dare la minima interpretazione, e nessuno troverò a meno che egli non abbia già conosciuto il segreto di quest’arte, che non si può capire attraverso le cose naturali e le invenzioni umane, per quanto si sia saggi e sapienti nella Filosofia, nell’Arte e nella Scienza: ma lo si può, come ho detto, per grazia e Dono di Dio o per bocca d’un buon maestro quando Dio lo permette. E sappiate, allievi della scienza, che quest’arte è stata studiata con cura, grande diligenza e fatica, e del corpo e dello spirito, com’è scritto anche nell’Apocalisse, dal senso critico con cui Ermete, Pitagora, Socrate, Platone, Aristotele e altri grandi personaggi del passato (intesi quali sorgenti e fonti di tutte le arti e scienze) hanno indagato se vi fosse qualcosa che avesse la capacità e la forza di preservare il corpo umano dalla putrefazione (cfr. nota 8). A ciò fu risposto dall’oracolo divino che si deve morire a causa del peccato commesso dal padre di tutti gli uomini Adamo. E vedendo che non c’era alcun rimedio alla sentenza di questo grande giudice, essi tentarono di scoprire se ci fosse qualcosa per conservare il corpo in buona salute fino all’ultimo giorno, senza il pensiero delle necessità sia del corpo sia dello spirito. Infine, alcuni, molto pochi, hanno trovato una cosa tra tutte le altre che guarisce da ogni malattia, sia fisica sia spirituale, se è trasformata in Pietra filosofale. Ma in verità è molto difficile riconoscere e scegliere questa cosa unica tra tante cose che sono al mondo, animali, vegetali e minerali. Così come non c’è che una sola pietra tra tutte quelle del mondo che abbia forza e potenza d’attirare il ferro 10, così tra tante cose metalliche che ci sono al mondo non ce n’è che una per comporre la Pietra filosofale, della quale sola intendo parlare e con voi solamente, figli dell’arte; sono sicuro che se la conoscete, presto m’intenderete e vi rammaricherete che ne abbiano scritto con tanta chiarezza.
Dirò quindi che la materia con la quale è fatta la Pietra filosofale fu creata insieme all’uomo e che questa materia si chiama terra filosofale, allorché perviene ai Filosofi figli dell’arte, nonostante passi per le mani di diversi uomini e principalmente di minatori, grossisti, mercanti e commercianti. Come dicono i Filosofi in tutti i loro libri, al centro c’è la terra vergine, che è il vero elemento, e la Pietra che cerchiamo con tanto studio, tanta diligenza e tante inestimabili pene, sia del corpo sia dello spirito, e con tanto dispendio di tutti i nostri beni, si vende pubblicamente e se ne trova ovunque a vil prezzo. E Dio e la Natura hanno disposto così in modo che tanto il povero quanto il ricco ne possano trovare facilmente. Ciononostante hanno anche avvertito che l’occulto è contrario a ciò che è palese, e che questa Pietra è un corpo nascosto e uno spirito invisibile, come capirete dal sonetto che segue:
È uno spirito corpo, primo nato di Natura
Molto comune, nascosto, vile, prezioso,
Conserva, distrugge, buono e malizioso,
Principio e fine d’ogni creatura,
Di sostanza tripla: sale, olio, acqua pura
Che coagula, addensa, unge e bagna 11 nell’inferiore
Purissimo, secco, unto e umido nel superiore
È capace d’assumere ogni forma e figura
La sola arte della natura ai nostri occhi fa vedere
Celato nel suo cuore un infinito potere
Ornato delle facoltà di cielo e terra 12
È ermafrodito e dona accrescimento
A ciò che con lui si mescola 13 indifferentemente
In quanto entro sé ogni germe serra.
Ora se questo spirito-corpo, o meglio terra spirituale, i Filosofi l’hanno chiamato terra di lavoro, è a causa verosimilmente del fatto che si acquisisce con un meraviglioso rovello del corpo e dello spirito, e con artifici molto strani, profondi e ammirevoli, più divini che umani.
E alcuni dicono che questo fu il primo lavoro e il primo sudore d’Adamo. Ahimé, quante grandi muraglie 14 bisogna abbattere e pesanti porte infrangere prima d’arrivare là dove questa benedetta terra vergine si trova. E in modo veritiero gli antichi Poeti che hanno avuto conoscenza di quest’arte, a proposito hanno descritto nelle loro fiabe e poesie le grandi e meravigliose fatiche che sopportarono in passato.
Come quelle del grande re Ercole 15 e del principe Giasone alla conquista del prezioso Vello d’Oro nell’isola di Colchide che secondo Plinio è una regione in cui si trova una gran quantità di questa terra vergine, dalla quale si può trarre enorme quantità d’oro e d’argento. Come potete agevolmente vedere dai particolari della storia che tratta di questa conquista, una delle più famose e antiche che si possano trovare, si dimostra come la forza nulla possa senza i consigli che Medea diede al suo amico Giasone 16, senza i quali egli non avrebbe mai potuto farcela. Vi prego, dunque, di tornare spesso sul sonetto che segue, che vi potrà illuminare, in quanto contiene tutta l’operazione fisica dello Spirito Universale:
Chiunque voglia sapere qual frutto qui esista,
I mostri come Ercole dovrà sormontare,
Gerione dai tre corpi dovrà dunque domare
Quindi all’Idra sempre rinascente resista
Dietro Diomede e i suoi cavalli persista
A Ippolito lo scudo si sforzi di sottrarre
Dalle stalle d’Euristeo il letame deve trarre
E nel massacro degli uccelli stinfalidi non desista
Combatta poi il cinghiale nereggiante,
Spogli della pelle il leon ruggente
E domi 17 anche il toro con lotta lunga e fiera
Dal cervo, i pie’ di bronzo, 18 guadagni le corna d’or
E Cerbero dai tre capi 19, dall’Inferno attragga ancor
Vincendo il Vello d’Oro con sottil maniera
Questa terra preziosa è costituita di corpo, d’anima e spirito, contiene i quattro elementi di natura e il Sole e la Luna in virtù e potenza, come quella pura sostanza che è composta di zolfo e d’argento vivo, dalla quale sono creati l’oro e l’argento. E i Filosofi hanno chiamato giustamente questa sostanza media Mercurio doppio, visto ch’è al contempo maschio e femmina, fisso e volatile, bianco e rosso, oro e argento, terra grassa e rugiada celeste, zolfo e argento vivo dei Filosofi, e da loro chiamato ermafrodita, figlio di Venere emersa dal mare, generata dal sangue dei genitali di Saturno che Giove aveva reciso; sul quale il poeta Pindaro ha composto i bei versi che seguono:
Dio ti guardi, o isola bella, agli Dei graziosa
In cui un tempo la stirpe di Latona 20,
Latona dai bei capelli, il gemello amato
O figlia del mare, ha generato,
O miracolo immobile, chiamato dai mortali
Seconda Delo; e dagl’immortali
Felice spirto del ciel detto fiammante
Che sulla terra nera è bello e rilucente.
Platone la chiama androgino e Geber arsenico, Ermete aquila e avvoltoio e con gli altri infiniti nomi, pur essendo sempre il vero composto dei Filosofi, che contiene in sé tutto ciò che gli è necessario dall’inizio alla fine per convertirsi nella Pietra preziosa e mirabile dei Filosofi, senza aggiungervi o togliervi nulla. In verità se volessi potrei continuare a narrarvi per similitudini che nessuna cosa al mondo può essere creata dalla natura in altro modo che in questa sola e unica; la creazione del mondo e d’Adamo nostro primo padre, com’è scritto nel primo capitolo della Genesi; e dai profeti e santi padri di nostra madre chiesa, come anche nelle cronache, storie, poesie, metamorfosi, oracoli e sibille dei tempi antichi sono descritte le meraviglie di questo mercurio; il mio discorso potrebbe apparire lungo, ma non noioso agli apprendisti dell’arte. Ma sono sicuro che chiunque abbia la vera conoscenza della vile materia in cui è nascosto e del mezzo divino che bisogna avere per estrarlo dalla terra, confesserà a viva voce che i filosofi non hanno mentito, come la maggior parte di quei saggi che sono inclini a credere nella filosofia. Di sicuro, tuttavia, poche persone hanno questa conoscenza e principalmente non l’hanno gli ignoranti e i sofisti, i quali fanno credere che in cinque o sei mesi o tutt’al più un anno compiranno la grande opera, e assicurano con falsi giuramenti che è così e che l’hanno provato. Ahimé, miserabili che sono, non conoscono affatto la vera materia e l’unico vaso che è come matrice per gli animali, né il divino fuoco che bisogna avere per dissolverla, e il tempo necessario per portarla a termine: non ricordando che per entrare nel regno dei cieli occorrono grandi tribolazioni e che le margherite non si seminano davanti ai maiali. Per quanto mi riguarda mi stupirebbe che al momento esista qualcuno che la conosca soltanto, ma non al punto di possederla perfettamente. Quando questo mercurio esce dalla sua miniera, immediatamente si congela immobilizzandosi; e allora il pianeta Marte usa la sua arte, con la quale gli apprendisti della dottrina hanno scoperto detto mistero; cosa che Geber conferma dicendo: l’ultimo è Marte dal quale dipende il gran segreto. Così Rasi dice: abbiamo estratto il mercurio dal secco e lo abbiamo convertito in oro molto fine, poiché durante il dominio di questo pianeta, la miniera è piena del proprio calore, il che permette di trarne il detto mercurio. Come l’esperienza c’insegna è d’un colore simile al fegato e all’àloe; parimenti Geber dice che il suo colore tende al rosso, e mostrandoci che la sua proprietà, secondo l’opinione di tutti i filosofi, è d’essere calda, e di poter assimilare e cuocere; e per questo motivo l’hanno chiamato zolfo e fermento della pietra, come dice Senior: il nostro zolfo non è quello volgare, ma è quello che giace nascosto nei due grandi luminari e nei corpi perfetti. Poi esce l’acqua viva, bella, splendente e dispensatrice di vita, che i filosofi hanno chiamato acqua viva, umido radicale e argento vivo dei saggi poiché dà vita alla miniera da cui esce: per questo motivo è detta acqua perenne, tanto che senza quest’acqua chiara, la miniera non avrebbe vita; come per esempio e similitudine un corpo animato, rimasto senza sangue che gli dà la vita, muore. Ma notate che il sangue è moderato dall’urina chiara e umida, come si può vedere, e che senza di essa il sangue si sfalderebbe nelle vene del corpo umano, e per questo motivo non ci sarebbero movimento e vita: ecco un passo degno della massima considerazione per gli operatori di quest’arte, visto che con questa similitudine sarà facile scoprire la materia simile ai metalli, che contiene i quattro elementi equilibrati dalla Natura per il governo della nostra arte nel giusto peso e nella giusta proporzione. Poiché il saggio operatore sa bene come agire, anche se visibilmente non compaiono che due elementi, ossia l’acqua e la terra, esattamente quelli che i filosofi ci esortano a conoscere bene prima di mettere mano all’opera quando dicono: bisogna conservare l’umido radicale nella calcinazione dei corpi, per scioglierli meglio. Poiché, se finisse l’umidità, il corpo rimarrebbe arido e secco, nella terra bruciata, senza alcuna lucidità, e non si potrebbe sciogliere mai più né rivivificare come invece sarebbe necessario. Ecco un bel percorso per la resurrezione dei corpi e, come si vede, nella fusione dei metalli che hanno la detta umidità, chi più chi meno. Ma l’oro, tra tutti, ne possiede il supremo grado poiché tale umidità è in rapporto paritario con la terra. Ed ecco il serpente nascosto nell’erba e un grande segreto nascosto dai Filosofi con parole oscure, profonde e grandi meditazioni. A questo fine è necessario che l’operatore capisca bene che dalla decomposizione d’una cosa se ne genera un’altra, riducendo il metallo in materia prima, con la conservazione della sua essenza in questa meravigliosa calcinazione; conoscendone il tempo, e addirittura il momento della sua nascita, lo si proteggerà dalla violenza e forza del fuoco, grazie a questa umidità radicale, acqua viva, fonte di ricchezza e rugiada celeste, sostegno del popolo d’Israele mentre era nel deserto. Di quest’acqua parla Jean di Mehung, dicendo:
Ed esce l’acqua di secco sasso
Nulla bagna nel suo passo 21
Il motivo che ha spinto i Filosofi a raccomandarci di salvaguardare quest’acqua benedetta, è dato dal fatto che deve rendere l’anima al proprio corpo: siccome è lei la causa della morte, solo lei può rendergli la vita. Come si può vedere, per esempio, nella Fenice sulla quale sono stati composti questi versi:
Come la Fenice al batter d’ali, lo sguardo
Fissa al sole, quando i raggi le son dardo,
E l’arde poco a poco, in cenere la riduce
E dopo averla uccisa, a nuova vita la riconduce
Così è il segreto d’alchimia e della sua arte:
Torna vivo sol chi vivo va alla morte.
Né mai si potrebbe unire ad altro che non fosse dell’unità della sua propria natura. Compiendo questo, il buon Artista farà in modo che i quattro elementi siano sempre insieme senza che uno prevarichi l’altro, quantunque appaiano diversi colori nel vaso, dopo questa calcinazione filosofica. Come similmente si vede nell’uovo, e questa diversità di colori ci fa capire la loro qualità. Poiché lo zolfo che è rosso scintillante, ha la qualità d’essere caldo e secco, come il tuorlo che contiene il fuoco e la terra, elementi propri alla digestione e al nutrimento, e l’argento vivo ch’è fluido, bianco e lucente, è di qualità fredda e umida, cioè albuminoso, e contiene gli altri due elementi, l’acqua e l’aria che hanno la qualità d’inumidire e accrescere gli altri due, e proteggere la pietra, ossia il pollo, dalla combustione in tutti i tempi richiesti al compimento di questa grande opera. Per questo motivo i Filosofi hanno paragonato queste due sostanze, cioè zolfo e argento vivo, ai due spermi maschile e femminile che contengono le quattro qualità contrarie e rappresentate dai quattro elementi, causa di tanti errori per tutti coloro che non sono figli dell’arte, che fanno credere per poca intelligenza che la pietra si possa fare con molte cose visto che i quattro elementi sono ovunque, come abbiamo detto; così s’impegnano a estrarre con grandi spese e sacrifici i quattro elementi e da una cosa e dall’altra e non fanno mai niente che valga, visto che non conoscono affatto la vera materia nella quale la saggia natura ha congiunto e proporzionato questi due spermi propri della nostra opera. Come dice Geber sarebbe follia per un uomo cercare una cosa dove non è affatto e bisogna pure che la natura lavori su una sola cosa per la generazione dei metalli e principalmente dell’oro che n’è il fine ultimo, non potendo andar oltre; così in parallelo, nella nostra arte non abbiamo bisogno che d’una cosa sola, di questi due spermi, vale a dire zolfo e argento vivo, quando sono ben miscelati e uniti in modo che uno prenda inseparabilmente la virtù dell’altro, e si realizzi una sostanza che non sia affatto calda e secca come il fuoco, fredda e secca come la terra, calda e umida come l’aria, umida e fredda come l’acqua, ma partecipi in ugual misura di tutt’e quattro le qualità, infine si trasformi in vera quintessenza quando raggiunga questa perfezione, ottenibile con il decotto industrioso della nostra arte, governando il fuoco come c’insegna la natura: e allora i Filosofi l’hanno chiamata la pietra perfetta, avendo così, come essi dicono, virtù innumerevoli e quasi incredibili, come fossero miracolose, che comunicano alle altre specie, vale a dire a quelle animali, vegetali e minerali. E desta grande ammirazione il vedere che una sola cosa abbia tante virtù e produca tutti i contrarî, ossia indurire ciò che è molle e ammorbidire ciò che è duro, uccidere ciò che è vivo e vivificare ciò che è morto, imbiancare il rosso e arrossare il bianco, accrescere se stessa e procrearsi da sola in meno d’un giorno e ritornare vergine come prima, da se stessa diventare volatile, dissolversi, congelarsi e fissarsi e altre cose strane che non possono essere attribuite a cause naturali, poiché superano la natura e si compiono a causa della potenza divina, e sono incredibili se non si ha la possibilità di vederle, e pur vedendole non si potrebbe trovarne la causa, visto che la si attribuisce alla divinità. Così, per similitudine, si perviene alla nascita della nostra Pietra, che alcuni, senza tuttavia offendere la divina maestà, hanno paragonato al parto della gloriosa e Immacolata Vergine Maria, la quale era vergine prima e rimase tale anche dopo. Così disse Alfide, quando affermò: questa pietra si trova in tutti i luoghi e in tutti i tempi, risiede sulla cima delle montagne e il vento la porta nell’aria, e sua madre è vergine. A ben considerarle tutte queste cose non potrebbero essere compiute che dalla divina podestà, e chi volesse avanzare obiezioni, s’ingannerebbe di molto e non potrebbe più ottenerla; vi prego dunque, Figli della dottrina, di non fidarvi delle apparenze dei falsi alchimisti che per trarre in inganno dicono che la Pietra dei Filosofi è facile da fare e si compie in poco tempo. È invece molto difficile scoprire il segreto di regolare il fuoco, l’azione e potenza del quale è infinita, e ancora conoscere i quattro elementi e la loro distillazione e separazione dal caos disordinato e confuso poiché questi regimi sono i veri fondamenti e la base d’ogni magistero, tanto che i Filosofi ci raccomandano espressamente d’approfondire la conoscenza di detti elementi prima di mettere mano alla grande opera, perché se l’operazione ignora i detti elementi, non potrà mai dare forma alla materia in modo corretto, né trovare quello che cerca. Ora, per prima cosa, questa forma deve essere impressa nella volontà dell’artista acuto e incline all’investigazione, prima che cominci l’opera, come accade normalmente in ogni arte: e siccome è nostra intenzione e volontà di comporre e fare una medicina che abbia la virtù e la potenza di convertire i metalli imperfetti in oro molto fine, è necessario e logico che le diamo la forma dell’oro, quella che la natura ha disposto e ordinato che ricevesse fin dall’inizio. Poiché l’elisir non è oro ma forma d’oro, come lo sperma dell’uomo non è uomo in atto ma in potenza e può diventarlo solo se formato nella matrice dovuta, preordinata dalla natura a riceverlo. A questo proposito vi prego di prestare particolare attenzione, parlo a voi che dite d’essere così sapienti e ad alcuni semplici che hanno visto qualcosa. Poiché sapete che l’esperienza è madre d’arte e scienza. Se l’elisir fosse gettato nel vino, acqua, olio, succhi d’erbe e altre cose simili, non le convertirebbe in oro, visto che la natura non ha predisposto queste materie a ricevere tale forma. Per questo vi prego d’abbandonare la vostra falsa opinione e credenza secondo la quale la Pietra dei Filosofi si possa fare con cose animali, vegetali, sali, allumi, vetriolo, arsenico, aceti, orpimenti, antimonî, marcassiti e altre materie, le quali, nonostante siano minerali, non sono state preordinate dalla natura a ricevere la forma dell’oro. Come l’esperienza dimostra e come ancora si vede: l’uomo è animale e una pecora anche, nondimeno i loro due spermi congiunti per mezzo d’un coito non darebbero né l’una né l’altra specie, ma una creatura mostruosa lontanissima dalle intenzioni della natura ch’è ministro della nostra arte. Nel primo libro del Genesi è scritto che Dio, dopo aver fatto tutte le cose, disse: crescete e moltiplicatevi e ogni specie faccia il suo simile. Dunque, se volete fare l’oro, parlo a voi sofistici, bisogna che abbiate la dovuta semenza dell’oro e seminarla nella terra opportuna, che consiste nei metalli imperfetti preordinati dalla natura a convertirsi in oro, che è il fine ultimo a cui essa tende. È necessario dunque che il saggio operatore conosca bene questa materia unica e le sappia dare la forma che appartiene all’elisir e oro dei Filosofi, il quale supera di gran lunga in colore l’oro volgare che la natura ha preparato semplicemente, non potendo fare di più, e questo grande rossore offusca tutti gli altri elementi eccetto l’acqua, il che è un grande segreto nascosto dai filosofi per conoscere il detto oro filosofico. Tanto che si vedono chiaramente i due elementi così contrarî stare insieme senza che l’uno o l’altro perda la sua virtù e potenza, come fanno i comuni elementi d’acqua e fuoco che si consumano l’un l’altro, mentre gli elementi della nostra pietra vivono e muoiono insieme senza che uno offuschi l’altro, anzi s’aiutano e si mantengono meravigliosamente insieme: ciò è quanto i Filosofi hanno detto, ossia che chi è capace d’unire l’acqua e il fuoco conosce uno dei più grandi segreti della natura; come capirete dal sonetto che segue, dove è illustrata la separazione della sostanza pura da quella impura e il mezzo con cui tale separazione è attuata in ogni cosa.
Come per il vestimento 22 della massa indigesta
Natura usa in principio separazione,
Così ogn’arte che mira a perfezione
Ha da seguir codesta regola e via manifesta

La sostanza ha dappertutto l’escremento che l’infesta,
Sia per limo della terra o adustione.
Ma l’arte per cozione o digestione

Sia d’acqua, sia di fuoco, bandisce questa peste
L’opra d’arte sol sa separare
E a nuova vita poi rigenerare

Tutto in tutto, sciogliendo d’ogni vizio l’alma pura
Chiunque ben sa l’arte d’usar acqua e fuoco
Sa che il sentiero vero conduce poco a poco
Sin all’altissimo segreto di tutta la Natura.
Dunque eccovi ordinatamente il modo per acquisire questo prezioso mercurio, tanto lodato da Ermete Trismegisto, che alcuni ritengono essere stato il grande Melchisedec, quando dice: ciò che i saggi cercano si trova nel mercurio, cioè corpo, anima e spirito, e tale mercurio è nascosto nelle caverne dorate. Altrettanto afferma Giovanni Rupescissa, dicendo: ascoltate le parole dello Spirito Santo; la Pietra dei Filosofi è mercurio e, infine, è l’argento vivo animato sul quale ricade interamente l’attenzione dei Filosofi, che ci hanno espressamente esortato a conoscere la natura prima di mettere mano alla grande opera. Tali parole già menzionate traggono in inganno un’infinità d’ignoranti, facendo loro credere che si tratta del volgare mercurio e facendo loro perdere tempo e denaro.
Dunque, nel nome di Dio Onnipotente, prenderemo questo mercurio animato e filosofale, e poi con natura, calore e putrefazione se ne farà una buona generazione. Uniformeremo la regola e il governo di quest’opera al modello della generazione umana, in modo da istituirvi prudentemente e osserveremo in tutto quanto ci sarà possibile i precetti dei Filosofi, i quali vietano espressamente la profanazione di questo grandissimo segreto che è tanto facile da capire che si può apprendere in un istante, e tutta l’opera può essere scritta in cinque o sei righe tanto è eccellente e ammirevole come sostiene Ermete il Padre dei Filosofi, nel suo Pimandro, quando dice: Cambiò d’aspetto e tutte le cose mi furono improvvisamente svelate in un istante; il che non avviene affatto in tutte le altre arti, fossero le più meccaniche del mondo, poiché questa che è detta grande, quando la si è compiuta una volta non si può più sbagliare nel ripeterla, come invece accade per le altre. Ed è fondamentale che i filosofi abbiano cercato per lo meno di nasconderla. Ora bisogna comprendere che lo sperma dell’uomo raggiunge un grado d’estrema putrefazione nella matrice della femmina, essendo il suddetto sperma della più pura sostanza del sangue, e con il calore dei genitali al momento del coito esso diventa bianco, ed entrato nella matrice si putrefà a un punto tale che al settimo giorno genera una massa sanguinolenta o una massa sanguinosa, che contiene in sé virtualmente e in potenza tutte le membra del corpo. Ascoltate bene voi che siete prudenti e saggi: il primo è il cuore, cioè l’oro dei Filosofi nel quale sono tutti i metalli in potenza. Gli succede il fegato dal quale procedono tutte le vene del corpo, delle quali sette sono le principali: vale a dire i sette metalli raffigurati dai Filosofi con i sette pianeti, che è cosa degna di considerazione. Dopo si formano i nervi, le ossa e finalmente tutto il corpo, e Dio invia l’anima, e il detto corpo si perfeziona nel ventre della madre, essendo nutrito dal sangue mestruale e aiutato dal calore naturale fino a che sia trascorso il tempo stabilito, che è ordinariamente di nove mesi: allora la creatura nasce, maschio o femmina come piace a Dio: ossia la natura ha dato ai due spermi, maschile e femminile, la capacità di riuscire vittoriosi l’uno sull’altro: poiché se lo sperma maschile, che è zolfo, domina i due più nobili elementi, ossia il fuoco e l’aria, ed è risultato vittorioso a causa del suo calore sullo sperma femminile, senza dubbio la creatura sarà maschio, vale a dire oro, mentre, al contrario, se è lo sperma femminile a dominare gli altri due elementi meno degni, cioè l’acqua e la terra, quindi ha dominio sul maschile, sarà femmina, cioè argento, poiché il freddo domina il caldo; ed ecco la differenza che c’è tra l’oro e l’argento, cioè tra l’elisir bianco e quello rosso. Questa analogia è espressa dai Filosofi con il paragone delle urine digeribile o indigesta, che è molto importante per i figli dell’arte. Poi, quando la creatura è nata, viene nutrita con un latte bianco anziché con il mestruo rosso, come avveniva quando era celata nel ventre della madre, fatto a cui vi prego di prestare attenzione, poiché se la vostra opera segue quella di natura, si manifesteranno senza dubbio tutti questi segni e allora comprenderete a quale prudenza, astuzia e sottigliezza i Filosofi hanno fatto ricorso per nascondere questa preziosa Pietra sotto tutte le similitudini che hanno utilizzato nei loro libri e vedrete come quest’opera si avvicini a quella della Natura nella creazione del mondo. Cosicché questa materia unica contiene in sé, per Dono di Dio e della Natura, tutto ciò che le è necessario per essere perfetta e compiuta, come è ampiamente espresso nel sonetto che segue, che vi mostra come il mondo sia pervaso dallo spirito grazie al quale ogni cosa vive:
Il gran corpo del gran Dio creatura prima
Da uno spirto fu colmato nel cominciamento
Onniforme in semenza, e vivo in movimento
Tutto mette in luce e tutto anima
Della terra e dei cieli è l’anima nutrice
E di tutto quanto in essi ha vita e peso,
In terra è vapore, in cielo è fuoco acceso
Triplo in una sostanza e prima matrice
Poiché dal tre, un tre per natura proviene
E torna in ogni corpo il cui balsamo contiene
Avendo per genitori Sole e Luna
Con l’aria genera in basso, mirando in alto
La terra lo nutre nel suo grembo caldo
E della perfezione è causa comune
Quali difficoltà incontri chi cerca questo spirito tanto nobile ed eccellente per riconoscere la materia nella quale si cela e si riposa così come il sottile artificio per liberarlo. Vi dirò con questi versi:
Non v’è che un metallo al mondo
Nel quale il nostro mercurio abbonda
La nostra Pietra si genera naturalmente con il magistero e bisogna prenderla al momento della nascita; momento che il prudente artista deve conoscere prima di metter mano all’opera, perché se non avesse questa conoscenza la sua opera sarebbe sprecata, come spiega Geber: L’errore o la riuscita di quest’opera risiedono in un punto. Lo stesso dice Calid il buon Filosofo: colui che non prenderà questa pietra onorata al momento della sua nascita, non bisogna che ne aspetti un’altra al suo posto. Simile il parere del Morieno: attenti a non seccare quella radice che deve nutrire il prezioso albero con le mele d’oro piantato nel giardino delle Esperidi, menzionato da Virgilio nell’Eneide, quando dice che appena colto un ramo ne rinasce subito uno simile. Ugualmente è necessario che l’operatore sia vigile e non si lasci sfuggire l’incomparabile tesoro per sua ignoranza. Fate perciò attenzione ai Filosofi, discepoli della dottrina, quando dicono che nella dissoluzione del corpo avviene il congelamento dello spirito in una sola operazione nella quale si osservino la temperatura del fuoco, il peso e la misura nella composizione degli elementi, in modo che la Natura, grazie all’arte, li equilibri e proporzioni in ugual misura in un solo elemento che è la nostra acqua mercuriale, filosofica e permanente, e non volgare come lascia credere la maggior parte della gente. Questi elementi devono essere immediatamente legati e trattenuti, altrimenti si convertiranno in terra e diverranno una cosa sola con le loro feci e non potranno più esserne separati. Come si può vedere nei metalli imperfetti, a quanto dice Geber, quando si lamenta d’essere stato a lungo triste e disperato perché non riusciva a preparare il piombo e lo stagno comuni con lo splendore e la lucentezza che loro competono e che è necessario abbiano.
Certamente i Filosofi ci nascondono al proposito un gran segreto, relativo alla regolazione del fuoco, come Calid ci dà l’esempio a proposito del sapone 23. Analogamente vediamo con l’esperienza quante cose si preparino con il fuoco: se non conoscessimo il punto preciso della loro cottura e non le sottraessimo alla sua azione e alla sua potenza infinite, senza dubbio le distruggerebbe e consumerebbe. Questo vale tanto per le cose animali quanto per quelle vegetali. Perché se la creatura non esce dalla matrice nel tempo determinato, senza dubbio ne è soffocata e muore. A esempio il pollo che è rinchiuso nel guscio dell’uovo. Come anche i semi dei vegetali: se non germinassero uscendo dalla terra morirebbero e s’estinguerebbero. Parimenti e per similitudine, se questo spirito o virtù seminale non esce nel momento opportuno, che l’operatore deve conoscere con precisione, la sua opera sarà vana; poiché successo o insuccesso dell’opera dipende dalla materializzazione di questo spirito universale in tutte le cose, e dalla ritenzione in quest’unica materia delle virtù celesti e terrestri che si formano grazie alla virtù e all’azione del fuoco. Ciò capirete chiaramente dal sonetto che segue:
Dai globi eterei colmi di fuoco vigoroso
Dal ruotar senza posa l’influsso veloce cala
Sui corpi della terra e d’ardore animale
Penetrando i fianchi 24 del suo grande grembo poroso
Quando s’empie questo ventre d’altro fuoco vaporoso
Senza sosta alimentato da umore radicale
In questo grande 25 corpo prende corpo d’acqua minerale
Per la concozione del suo fuoco caloroso
Quest’acqua aggrumata, ogni cosa generante,
Diviene terra pura che in sé tien chiuse
Le virtù celesti unite strettamente
Per tale effetto in essa son congiunti
La terra e il cielo. Con bel nome la chiamo 26
Di cielo terrificato 27 degnissimo e prezioso
Il grande Filosofo Avicenna ha paragonato questa Pietra preziosa all’anima del mondo. E anche molti altri filosofi l’hanno definita nello stesso modo. Vi dirò la mia opinione e ciò che ho ricavato dai miei studi dei santi libri e da altri filosofi: la prima cosa che Dio creò fu la luce, che secondo l’opinione di tutti deriva dal sole. Molti altri filosofi ci hanno raccomandato espressamente di non mettere mano se non a cose luminose; queste sono il sole e la luna. Il motivo per cui la Natura non può costituire questa Pietra nella sua miniera è dovuto alla continuità delle sue azioni per cui non può fare questa ammirevole congiunzione d’elementi, cioè dei due spermi summenzionati, se l’operante non vi mette mano, poiché la natura produce i detti spermi e l’arte li congiunge. Come dice chiaramente Morieno, non bisogna che l’artista s’aspetti alcun utile dall’opera fino al tempo in cui il sole e la luna non siano congiunti insieme inseparabilmente, congiunzione che non si può ottenere se non con la volontà e il permesso di Dio, per mezzo della nostra acqua mercuriale che congiunge le tinture, come dicono tutti i Filosofi e principalmente il suddetto Morieno, il quale afferma che dopo la putrefazione le mani dell’operatore non potranno compiere quest’opera, ma che solo Dio potrà realizzare con la sua bontà e misericordia. Poiché questa cosa è stata generata dal sole e dalla luna, uno come padre l’altra come madre, non necessita d’aggiunte e sottrazioni come sostiene Geber, e tutto il magistero consiste in una cosa sola, alla quale non s’aggiunge o toglie nulla salvo eliminare il superfluo nella sua preparazione. Constatiamo ciò in tutte le arti, poiché quando il maestro vuole dare forma alla materia ne sottrae la superfluità. Come gli elementi di cui sono fatte tutte le cose, fossero stati confusi nel caos e niente fosse stato distinto come una forma, cosa che vi conferma ulteriormente come la nostra Pietra sia fatta d’una sola cosa; così conferma Trismegisto nella sua Tavola di Smeraldo e nel suo Pimandro, nonché il sonetto seguente. Esso è degno d’essere studiato con frequenza dai discepoli dell’arte, perché dimostra come Dio abbia creato tutto con una sola materia, con la sua generazione, sottilizzazione e perfezione:
È un fatto certo, degno d’ammirazione
Che l’alto e il basso non son che stessa cosa
Per far del mondo una conchiusa e sola cosa:
Effetti di meraviglia degni d’attenzione.
Solo una sola cosa in tutto vuol meditazione
Alla quale per genitori, matrice e nutrice 28 posti
Son Febo e Diana, l’aria e la terra in essa riposti,
Questa cosa in cui giace total perfezione
Convertita è in terra, ha la sua forza intera
Separando con grande arte, ma in semplice maniera
Dallo spesso il sottil, dalla terra il fuoco
Dalla terra sale in cielo e poi in terra
Dal cielo ridiscende, e acquista poco a poco
La forza dei due dèi che nel suo centro serra.
Ma ecco una grande difficoltà per chi non è figlio dell’arte, a causa del peso dei suddetti due spermi, come è menzionato dalla Turba dei Filosofi: Se farete una composizione senza guardare al peso, vi sarà un tale ritardo nella vostra opera che verrete completamente scoraggiati, poiché in questa ammirevole congiunzione è necessario che il saggio operatore salvaguardi il germe che la saggia natura ha costruito nella sua grande sapienza, e non sia violato e alterato, poiché lo spirito generativo deve crescere e moltiplicarsi nella nostra terra vergine, come spiega Ermete: seminate l’oro nella terra frondosa, un passo a mio giudizio che pochissimi capiscono nel significato inteso dall’autore. Infatti non riescono a comprendere come quest’oro venga seminato in questa terra senza il concorso delle mani, se non in modo naturale, come per esempio quando vediamo la rugiada che dal cielo cade sulla terra e accresce e fa fruttificare ogni cosa, secondo le parole del gran patriarca Giacobbe, il quale dice che dalla rugiada del cielo e dal grasso della terra provengono grandi ricchezze 29, ma se la terra non è stata preventivamente lavorata e coltivata non può ricevere questa rugiada e tesoro celeste: come accade nella grande opera in cui l’oro dei Filosofi, generato con l’industria e con l’arte, non potrebbe dissolversi senza questo divino liquore di cui parla il conte Trevisano quando scrive a Tommaso di Bologna, medico del re Carlo VIII, dicendo: L’arte, aiutando la natura, congiunge l’oro al mercurio per l’abbreviazione dell’opera, dissolvendo il corpo che è composto e congelando lo spirito. Perché lo spirito non si congelerà mai se il corpo non si dissolve, e a proposito di questa dissoluzione a mio giudizio s’ingannano molte brave persone che, attenendosi al senso letterale dei filosofi, intraprendono la via dei sofisti e dei falsi alchimisti, divertendosi a dissolvere l’oro con l’acqua forte e altri prodotti corrosivi, o anche con il mercurio volgare, lontani dall’intendimento di natura; mentre la nostra dissoluzione filosofica mostra immediatamente all’occhio una gioia incomparabile. Come appare dal sonetto seguente, che mostra l’eccellenza e la potenza dello spirito universale:
Chiunque possa gustare il suo liquore puro e mondo
Una gran luce negli occhi sentirà aumentare
E da ogni ombra oscura si potrà liberare
E, vedendo, avrà scoperto l’onore 30 di tutto il mondo
Potentissima è la forza che non ha pari
E che penetra attraverso ogni saldezza
E che domina piuttosto ogni sottigliezza
Tanta esercitando forza sui suoi contrarî
Così per primo Dio creò l’Universo
Da cui derivò ciò che è grande e diverso
Per adattamento a ciò qui fattosi scienza
Così Ermete Trismegisto fu chiamato
E dal cielo il bel tesoro a lui fu rivelato
Così come le tre parti d’ogni sapienza
Vedete il motivo per il quale Ermete è stato chiamato Mercurio, e paragonato per similitudine al Mercurio dei Filosofi, che è trino in una sostanza; i Filosofi pagani che lo hanno conosciuto, e in diversi momenti sono giunti alla perfezione dell’opera, si sono affidati all’Indivisa e santa Trinità e hanno creduto in essa e dato fede alle parole del filosofo Isaia che dice: E la vergine concepirà per mezzo dello Spirito Santo Gesù Cristo, Dio e uomo, nostro Salvatore, il quale durante la calura del giorno cammina sulle acque. Così i saggi di quest’arte vogliono che questa Pietra concepisca il nostro bronzo, che ha corpo, anima e spirito, e che rimane vergine come in precedenza. Dello stesso bronzo è scritto nella Turba dei Filosofi, che non si può fare tintura che sia vera e permanente se non dal nostro bronzo, poiché tutte le altre sono sofistiche e prive di valore, non essendo che di primo e second’ordine, mentre la nostra è del terzo essendo doppia, ossia solare e lunare, ed essa sola può rimuovere il superfluo e le impurità sopravvenute nei metalli imperfetti al momento della loro creazione, corrompendo la loro prima forma e istantaneamente introducendone un’altra, quella dell’oro e dell’argento, secondo la virtù della scienza illuminante. Su questo stesso bronzo sono stati composti i quattro versi che seguono:
Tre cose sono in una, e una in tre convive
Per comporre il bronzo, materia principale
Che ha anima e corpo per mezzo spirituale
Che in lui tutto si compie, lui che muore e vive
Un bel paragone troviamo nella famosa storia del re Perceforet dei tempi del grande Alessandro, allorché conquistò il regno d’Inghilterra; il quale re, a memoria d’un così importante avvenimento, fece edificare un bellissimo tempio al dio della natura e, non sapendo quale immagine collocare nel santuario per adorarlo come Trinità, vi mise un vaso di cristallo nel quale erano posti i tre elementi, cioè l’aria, l’acqua e la terra, e una lampada che ardeva giorno e notte senza sosta e che doveva ridurre alla sua natura, cioè al fuoco, i suddetti elementi, la cui fiamma era ammirevole essendo di tre colori, la punta in alto bianca come la neve, il centro rosso come il sangue e la base come il fuoco naturale. Sicché e non a caso tutti i filosofi in generale hanno esaltato sopra ogni altra cosa, in questa grande opera, codesto bronzo prezioso e più di tutti Geber, nel settimo capitolo della sua “summa”. La grande difficoltà tuttavia consiste nell’imbiancarlo e volatilizzarlo per mezzo degli spiriti della sua stessa natura. Perché è quest’oro filosofale che ha sopportato i forti attacchi del fuoco, i più forti che si possano subire, e invece di fuggirli, come fanno tutti gli altri metalli imperfetti, si dissolve in essi e ne esce più puro e più bello; poi da questo fuoco costante l’oro stesso resuscita e sale al cielo.
Ecco quindi come i saggi Filosofi con questa scienza divina e con questa arte sacra hanno conseguito la conoscenza della teologia e dei grandi misteri, che in questo caso si potrebbe paragonare per analogia (senza tuttavia offendere la divina maestà) all’Ascensione di Nostro Signore, compiuta da lui solo senz’altro aiuto, non come quella della gloriosa Vergine, sua Madre, avvenuta per mezzo degli angeli o come quelle d’Enoc ed Elia avvenute per mezzo d’un carro di fuoco nel paradiso terrestre 31: così avviene in questa grande soprannaturale opera, ossia che lo spirito congiunto inseparabilmente ai corpi tuttavia se ne separa, come dicono il Trevisano e Tommaso di Bologna. Gli spiriti hanno il potere di sollevare i corpi in aria e i corpi di ritenere lo spirito affinché non fugga, come afferma Geber parlando della natura del mercurio quando dice che tutto rimane o se ne va; così accadrà dopo la resurrezione dei corpi nell’ultimo giorno, che l’uno non si allontanerà più dall’altro, per l’eternità. Per mezzo di tale similitudine gl’ignoranti e sofistici potranno individuare i loro errori quando si sforzano di trasformare l’oro e l’argento in spirito e i loro liquidi corrosivi in corpi. Ma l’acqua che dissolve i corpi non è costituita di cose vegetali, animali o minerali: ma è essa sola che dimora in loro in materia e forma, quando il corpo è dissolto e lo spirito è congelato, natura dilettandosi di sua natura e non di cose eterogenee, lontane dai suoi intenti, ma proprio della materia di cui è costituita la Pietra che la natura ha congiunto proporzionalmente nell’ora e nel momento della sua nascita: lo spirito ha il potere, con il concorso della nostra arte ingegnosa, di fissare l’anima e il corpo, infondendo nella matrice il vero sperma, il seme proprio e conveniente atto a generare ciò che la natura ha stabilito fosse ricevuto dalla materia fin dall’inizio della creazione, il che consiste, come già detto, nella forma dell’oro che in verità i miei occhi hanno visto e le mie mani hanno toccato. Quest’oro, giunto alla sua perfezione, inseparabilmente congiunto con l’anima e lo spirito, gettato sui metalli imperfetti, senza dubbio li convertirà in oro molto fine. I Filosofi tuttavia hanno così meravigliosamente nascosto il modo d’operare in questa grande opera, sia riguardo alla materia sia ai regimi del fuoco, ai pesi e ai tempi, che la maggior parte non sanno nulla: poiché i loro libri sono molto diversi a questo riguardo, mentre la nostra opera s’approssima per quanto possibile a quella di Natura, vediamo le istruzioni che ci dà il sonetto che segue, nonostante l’adattamento tra cose divine, naturali e artificiali:
Dio, la Natura e l’Arte da patrono artefice guida
Per disegno, ragione o emulazione
L’idea, la virtù e l’operazione
In spirito, forma e fatti fa, ordina e sfida
Dio dice, Natura fa, l’Arte poi inventa
Il progetto, il progresso e la preparazione
Per esprimere, promuovere, veder l’esaltazione
Di lui, di lei, per lei in discorso, opera alimenta
Chi ode e intende Dio, Natura e Arte
Saggio dotto inventore senza frode o inganno
Governa il fuoco e il secco per destino
Ché Dio natura e arte, del triangolo divin
A inizio centro e fine se ne stan
E inclusa in loro tre ogni cosa ha parte
Riguardo alla materia tutti i Filosofi concordano che sia costituita da zolfo e argento vivo: ma a mio giudizio se ne trovano pochi che riconoscano questo zolfo e questo argento vivo poiché non sono quelli volgari, come Geber dimostra inconfutabilmente. Ma per gratificarvi e chiarirvi dove queste sostanze così preziose siano racchiuse, vi dirò che non si possono trovare che nei sali dei Filosofi, poiché sapete bene, voi che studiate nei libri di questa scienza, le lodi che vengono attribuite al sale. Infatti Geber dice che da tutte le cose combustibili si può fare il sale. Paracelso dice anche che tutte le cose sono fatte di sale, zolfo e argento vivo: ma bisogna conoscere bene la natura del sale, che è composto dall’elemento che lo contiene in potenza, dalla virtù del sole che la natura ha in esso proporzionato in qualità e giusto peso, non dovendosi fare altro che portarlo dalla potenza all’atto osservando sempre ciò che questi due versi vi insegnano:
Fortunato è colui che con gran riguardo e cura
Equilibrerà il suo peso come fa la natura.
Questo vi mostra chiaramente gli errori di coloro che non sono allievi dell’arte e usano una cosa al posto del fuoco, un’altra per sostituire l’aria, che chiamano olio, un’altra per l’acqua e un’altra per la terra; e così realizzano le loro composizioni con i pesi a loro discrezione e alla fine si trovano ingannati. Ma alla nostra opera, che segue la natura, non necessita bilanciamento o peso, non essendo che una sola cosa. Infatti il peso che l’operatore deve conoscere prima di metter mano al suo lavoro sta nella conoscenza delle qualità della materia e dei suoi elementi, dell’agente o paziente che domina o deve dominare nella prima composizione elementare, fatta dalla natura, sulla quale l’artista deve operare, con il mezzo e l’aiuto del primo agente, cioè l’intelligenza e grazia divina, che guida il nostro spirito in tutto ciò che dobbiamo fare in questa operazione, amministrando il fuoco sì che a poco a poco e lentamente solleciti il secondo agente che i filosofi chiamano zolfo: poiché la calcinazione deve essere fatta con un appropriato zolfo combustibile, come dice Geber, che non si trova nell’oro né nell’argento, ma negli altri metalli imperfetti. Giuseppe, nella sua storia, racconta che Adamo in lingua ebraica significa rosso, in quanto fu creato dalla terra rossa vergine, e che non potendo generare da solo, Dio lo fece addormentare e durante il sonno trasse da lui una costola 32 e generò Eva, sua compagna, e che essi avendo disobbedito al comandamento di Dio furono cacciati via dal paradiso terrestre con una condanna a morte; e non ci fu alcun rimedio per riacquistare la vita e la beatitudine eterne, qualunque penitenza essi avessero fatto, se non con la morte del Redentore Gesù. In modo simile questa materia costituita da zolfo e argento vivo, l’uno maschio e l’altro femmina (Cfr. nota 26), non si può ottenere senza loro purghe e purificazioni e per questo motivo occorre dapprima volatilizzare e poi fissare, e infine convertirla in preziosa Pietra dei Filosofi, grazie alla potenza di Dio aiutata dalla nostra Arte, come capirete chiaramente dal sonetto che segue riguardante l’ascesa dello Spirito al cielo e la sua discesa sulla terra come dice Ermete nella sua Tavola di Smeraldo, mediante i due grandi purificatori divini e naturali.
Il gran Dio che tutto dona e in vita conserva
Fissa a rimedio d’anime e corpi scuri
Due purificatori di ciò di cui si è spuri
Che lo corrompano fino a che ciò serva.
Ai mali d’ambedue provvede e ovvia
Loro aprendo di terra e ciel tutti gli sfarzi
Tesori bene efficaci contro i due sforzi
Che su anima e corpo morte invidiosa avvia
Artefici i due son della restaurazione
Cui cielo e terra hanno partecipazione
Per mediar fra gli estremi l’alleanza
Ecco perché dal cielo son discesi
Entrambi in terra e al cielo ancora ascesi:
Per ritornare in terra ricchi in potenza
Il saggissimo Filosofo Geber c’insegna che i principî di natura nella procreazione dei metalli saranno ancora principî del nostro Magistero, dicendo che i principî nell’opera di natura sono lo spirito puzzolente e l’acqua viva, che concede sia chiamata acqua secca, e che queste due cose, ossia zolfo e argento vivo, ridotti in terra, per mezzo d’essa ascendono in forma di fumo sottilissimo che, per effetto di una prolungata cottura s’ispessisce e diventa metallo per mezzo del calore naturale che è in esso, ed eccitato dal movimento dei corpi celesti, produce un calore così tenue che si può appena immaginare. Ed ecco l’errore compiuto da coloro che vogliono imitare natura non conoscendo la vera materia e che si divertono a comporre la loro Pietra di zolfo e argento vivo comuni, aggiungendo a caso l’oro e l’argento, credendo di aver ben inteso le parole del detto Geber quando afferma: «Concluderemo dicendo che la nostra Pietra non è altro che spirito puzzolente, acqua viva a cui si deve aggiungere il terzo elemento per l’abbreviazione dell’opera, e questo è il corpo perfetto assottigliato e attenuato», parole che traggono in inganno coloro che non sono figli dell’arte. Perché non devono sgobbare che su una sola materia come fa la Natura, e con operazione conforme alla creazione del mondo; tant’è vero che lavorando su due o tre materie, non sapreste quale di loro darà questa perfezione: poiché tutto ciò che è aggiunto alla cosa impedisce la perfezione e la conoscenza d’essa, e coloro che operano sofisticamente, nonostante si ritengano molto dotti e sapienti, alla fine si trovano ingannati e come stupidi, per aver perso tempo e denaro come indica il sonetto seguente che parla a proposito della loro riverenza e mostra loro il segreto dei misteri divini e naturali:
Completamente cieco è l’uomo nato dalla terra (Cfr. nota 26)
Ma l’astrale e celeste ha chiara vista
Poiché in lui potrà essere intravista
La doppia vetta del mistero che in sé serra
L’una dall’altra in purità splende rischiarata
A chi è volgare la loro identità restando ignota
Ma può con grandi meraviglie essere nota
A chi da ignoranza l’anima non ha velata
La nascita del gran seme d’ogni forma
Alla creazione del mondo si conforma
Con l’unione trina in terra e in cielo
Doppio albero di vita si vede d’altra via,
Entrambi preziosi, della terra e del cielo,
Di cui l’un segue l’altro con ammirevole armonia
Ecco dunque il motivo per soffermarci sulla sentenza di Ruggero Bacone quando dice che bisogna trovare una materia nella quale siano zolfo e argento vivo, bianco e rosso, non completi come sono nell’oro e nell’argento, e che con il nostro strumento e fuoco artificiale rendiamo più perfetti di quelli creati dalla natura, fino al primo grado, su dieci, centomila e più 33. E data la sovrabbondanza che hanno ottenuto per mezzo dell’industria della nostra arte soprannaturale, dopo molto tempo potrebbero essere d’aiuto ad altri che ne abbiano bisogno, cosa che non può esser fatta dall’oro e dall’argento volgari, non essendoci tinture che per essi soltanto, poiché la Natura non può andare oltre. Ma quando i Filosofi hanno parlato dell’oro e dell’argento, hanno inteso parlare della pietra perfetta e quando hanno parlato dello zolfo e dell’argento vivo, hanno inteso la propria e debita materia; come Geber l’ha chiaramente indicata poiché lo zolfo e l’argento vivo, mischiati insieme, si alterano l’un l’altro; e come l’uno non può stare senza l’altro quando questa miscela viene fatta da un operatore saggio e prudente che osservi l’ordine naturale, poiché, nonostante si tratti d’una sola cosa, bisogna fare la separazione del sottile dallo spesso, del rarefatto dal denso, dolcemente o con un gran arnese finché non sale dalla terra al cielo e si converte in un altro tipo di terra gloriosa, che riceve le virtù celesti tanto inferiori quanto superiori, come ci conferma Ermete Trismegisto nel suo segreto dei segreti. E certamente, se non si operasse questa separazione, l’uno non potrebbe aiutare l’altro: come facevano i quattro elementi mentre erano nel caos; similmente nel nostro caos filosofico, che Pitagora chiama Saturno (Cfr. nota 1), dicendo che in lui si trovano congiunte le nature, se non si facesse la separazione degli elementi per comporre la nostra pietra, essa non diventerebbe mai perfetta. Il sonetto che segue denuncia bene l’errore di coloro che si stimano molto dotti e pretendono che la natura da sola possa compiere questa separazione e ammirevole congiunzione della sostanza intermedia, che è tra il mercurio e il metallo, e mostra le forze dello Spirito universale tanto nei limbi del caos e quanto nei corpi speciali. Questo sonetto potrà riportare sulla retta via coloro che sono stati sviati dal cammino della saggia natura, quando si dovrà imitare la nostra arte.
Nello spirito generale che contiene la semenza
Tanto la morte che la vita si devon considerare
La doppia forma doppiamente ammirare
Con il secco e il veleno, doppio nell’essenza
Il doppio succo i corpi nutre con sua presenza
Il doppio veleno li fa consumare
Serbando o disfacendo cose dolci e amare 34
Pieno com’è di benigna o aspra veemenza
Ecco le sue facoltà prima che schiuso sia
Dal profondo suo limbo, dalla confusione
Gli stessi effetti avendo sé da terra estratto
Ma quando da separazione è attratto
Del succo e del veleno con preparazione
Contro buono e cattivo mortal guerra avvia
Questo ci dice quanta verità sia contenuta nelle parole del Conte Trevisano quando afferma che nella nostra materia, all’inizio, dominano i due elementi più forti, ossia la terra e l’acqua, ed è necessario che la nostra arte ingegnosa li sottometta e che il fuoco e l’aria diventino padroni e signori; compiendo questo faremo l’oro. Poiché l’oro non è altro che l’insieme dei quattro elementi accresciuti, in cui l’aria e il fuoco dominano come i più nobili e degni. Ed ecco perché i Filosofi hanno detto che è necessario iniziare dove finisce la Natura. Ma nel nostro oro risiede una certa quintessenza che i filosofi chiamano spirito della pietra, ossia il genitivo, il quale deve essere sottratto ai legami quasi indissolubili che lo tengono prigioniero nel detto caos, altrimenti non potrà mostrare la sua forza e la sua virtù nell’operazione del perfezionamento della pietra per riunirsi al proprio corpo quando, nell’ora della congiunzione come dice Morieno, appariranno grandi meraviglie, poiché allora il corpo sarà fatto spirito e lo spirito corpo e saranno lucenti come il sole e la luna; perciò i Filosofi l’hanno chiamato corpo glorioso, poiché conoscendo questa grande opera sanno che nel giorno del giudizio ogni anima riprenderà il proprio corpo. Infatti così come non si può unire a Dio che l’uomo fatto a sua immagine e somiglianza, anche questo spirito non può unirsi che al suo proprio corpo; il profeta Daniele intende questo dicendo: lo spirito è uscito fuori e poi è ritornato nella sua terra; questo fu detto ad Adamo: guadagnerai il tuo pane col sudore della fronte fino al tempo in cui ridiventerai terra con la quale sei stato fatto, poiché sei polvere e polvere ritornerai. Lo stesso fu detto al serpente: striscerai sul ventre e mangerai la terra tutti i giorni della tua vita. Perché i Filosofi ritengono che mangi il nostro oro, cioè la terra, come anche vuole per similitudine la leggenda di Gabrizio e Beia in cui si narra che Beia nasconde Gabrizio nel suo ventre. E come dice il saggio Arisleo: se tu mischi il nostro bronzo che è terra, con l’acqua filosofale, farai grandi e ammirevoli cose. È scritto nel capitolo del Genesi che una fontana si alzava dalla terra bagnandola tutta. Anche Ermete conferma che la forza e la potenza di questa Pietra si manifestano quando ritorna in terra; ecco perché i Filosofi dicono d’imbiancare l’ottone rosso con l’acqua bianca scaldata a fuoco lento e di rompere tutti i libri. E lo stesso dice Raimondo Lullo: bisogna imbiancare con pazienza poiché ci vuole molto tempo. Zenone dice anche: se non imbiancate questa Pietra, non la potrete colorare del vero rosso. Per questo motivo Graziano dice: imbianca il Bronzo con il mercurio, e se una volta potrai risuscitarlo penetrante, avrai ciò che desideri. E Rosino dice: ci sono due nature, una bianca e l’altra rossa; quindi imbiancate il rosso e poi arrossate il bianco. Di queste due nature parla Raimondo dicendo: Quando sono congelate bisogna sublimarle, e sublimando lo zolfo bianco sale in alto e in basso, nel vaso, rimane lo zolfo rosso. Così i veri Filosofi hanno avuto nei loro vasi e veri setacci d’Ermete lo zolfo bianco e rosso insieme. Per questo motivo, il grande Filosofo Aristeo, il quale, grazie al suo sapere, governò il mondo, dice: cuocete con pazienza e imbevete con l’acqua prodotta dalla cottura stessa, cioè con la Pietra che Mosè colpì con la sua verga facendone uscire l’Acqua viva per abbeverare i corpi secchi e aridi. Anche il sogno di Polifilo tratta della grande sete che pativa, come testimonia Geber che sostiene: per reiterazione si separa l’olio nelle sue parti elementari, come acqua molto bianca e serena da un olio rossissimo, rimanendo tutto quel rossore a fondo del vaso. A questo proposito il buon Filosofo Athephimalecq afferma: metti l’uomo rosso con la donna bianca in una camera circolare circondata di fuoco di cortecce e lasciarveli il tempo necessario perché avvenga la congiunzione dell’uomo nell’acqua filosofale e non volgare. E lo stesso dice Morieno con queste parole: «Il nostro ottone all’inizio è rosso, ma non c’è utile; se potrete imbiancarlo avrà un valore enorme»; questo dice Davide nel suo salmo: «Tu mi laverai con l’issopo e diventerò più bianco della neve». E Mireris dice: «Come fare il rosso prima del bianco?». Per merito di questa grande sapienza il profeta Merlino, ai tempi di re Artù in Gran Bretagna, scoprì i due dragoni, uno rosso senza ali, e l’altro bianco con le ali, che erano stati nascosti dalla vergine dama del castello Vermiglio, su consiglio dell’uomo con la folta chioma; erano circa quattrocento anni che nessuno, per quanto saggio e prudente fosse, era riuscito a trovarli; questi medesimi dragoni sono del tutto simili a quelli che Nicolas Flamel ha lasciato per ricordo sulla sua tomba nel cimitero dei Santi Innocenti di quella città e che nei suoi scritti ha chiamato zolfo, il dragone senza ali e quello con le ali, argento vivo, dei quali il buon Filosofo Parmenide dice come a fuoco lento facciano insieme pace. A questo riguardo Pitagora afferma che tutta l’esperienza di quest’arte è d’imbiancare e che a tale biancore non pervengono se non i veri Filosofi e figli della dottrina, amanti della verità e conoscitori delle cause naturali e dello spirito universale, che è la cosa eccellente del mondo, come il sonetto che segue ci spiega meravigliosamente, dicendo:
Chi voglia conquistare la gloria del mondo
Filosofo divenga e gioia ne trarrà
Poiché la Filosofia del tutto lo condurrà
Al colmo di virtù di cui natura abbonda
Dell’ultima notte su cui invano fonda
La cieca opinione ella dissiperà
E del vero la luce spanderà
Traendola dalla macchina del mondo
Facendogli vedere il bene desiderato
Dagli antichi saggi, che rende l’uomo sicuro
Di vivere felice e sano come più non può volere
E mostrandogli a che prezzo sia ammassato
Il niente degli altri beni. Tutto questo per il puro
Avere dell’universo gloria e onore.
Adesso vedete chiaramente che chi desidera acquisire questa preziosa Pietra dev’essere un vero Filosofo naturale, studioso e diligente, che investighi il segreto della Natura, dotato di pazienza e spogliato dell’abito della perniciosa e maledetta avarizia 35 e ambizione, vestito di quella carità e umiltà, che onora Dio come spirito e verità, vivente in pace con ognuno, e che abbandona completamente le vostre ricette false e diaboliche, piene di sofisticherie, per sperimentare le quali, con falsi giuramenti, siete stati chiamati ingannatori mendaci e iniqui, poiché sapete bene che è scritto che in un animo malvagio non entrerà mai la sapienza. Vi prego dunque per amore fraterno di conoscere voi stessi e d’abbandonare la via della perdizione, per intraprendere il cammino della prudenza, ritirandovi a vita solitaria per imparare a conoscere Dio e anche questa divina scienza e arte sacra in compagnia dei nostri maestri, i Filosofi, che c’insegnano senza parlare e ci fanno conoscere per mezzo di questa Grande Opera tutti i grandi misteri: vi assicuro che così facendo ogni ombra d’ignoranza si allontanerà da voi e scoprirete con gioia il contenuto del sonetto che segue:
Come il bel sorgere della vermiglia aurora
Toglie l’ombroso velo al vuoto aereo
Scoprendo lentamente il globo terreo
Con i raggi dorati di cui il cielo l’onora 36
Così quando la luce del Sapere supremo decora
Lo spirito purificato da antiche nebbie malsane
Della volgar dottrina, e tutto vede e nulla rimane
Di tanto segreto che al mondo ancor s’ignora
D’ipocriti e beffardi una Turba lo discosta
Come i gufi se il sole la notte allontana
E non sopporta della sua scienza la chiarezza
Marcia avendo sulla destra dei giorni la lunghezza
Ricchezze e onori nella sinistra ognora mena
Seguendo l’astro della Sapienza cui s’accosta.
Il grande Filosofo Ermete Trismegisto, padre di tutti i Filosofi, quando giunse alla fine e perfezione di questa grande opera, per la gioia allegrezza inestimabile che provò a vedere una sola cosa e tanto vile, creata dalla natura e per arte portata a perfezione tale da trasmetterla a tutte le cose, disse queste precise parole: «Se non fosse per la paura che ho di renderne conto davanti a Dio, negli ultimi giorni del Giudizio, non avrei mai scritto né lasciato memoria di questa scienza divina e arte preziosa, tanto ne ho ammirato gli effetti».
Che cosa diremmo dunque di tanti uomini che non sono che sofisti e ancora d’altri che nulla sanno di Filosofia e che vogliono comporre la nostra Pietra e renderla perfetta in 5 o 6 mesi o un anno al più; di costoro se ne trovano di così sfrontati, che arrivano al punto d’affermare con falsi giuramenti che è la verità e che essi l’hanno già fatto. Noi sappiamo invece che a studiare decreti e leggi o ad apprendere un’arte meccanica ci vogliono, ahimé, ben cinque o sei anni e talvolta ne devono trascorrere dodici o quindici prima d’essere diventati dottori o maestri; e in questa che è la più lunga e superlativa non vorremmo impiegare che un anno! Quanto a me, non so su cosa fondino le loro ragioni, poiché i Filosofi in tutti i loro libri non raccomandano che la pazienza di cuocere e portare a digestione questa sostanza mercuriale la quale, grazie alla sua dignità, sublimerà i corpi e si moltiplicherà essa stessa, come capirete dal presente enigma, che vi presento di cuore alla fine di questa dissertazione e che fu cantato dall’uomo dal mantello nero quando mi apparve in sogno, mostrandomi la fontana pericolosa:
Sai tu qual è, amico, questa selvaggia belva
Che adesso così attentamente cerchi
Qual mostro orribile e pure formidabile
Ascolta, per capirlo, questo canto
Crudele è l’animale, bestia stridente
Che descritta è nella graziosa storia
Di Betis de Feson re di Gran Bretagna
Là si vede andar per monti e campagne
E dalla bocca emette un fetente alito
La sua dimora e nido ha dentro una fontana
Là si nasconde e cela, là riposa
Con i sottili mezzi con cui Natura la serra
Ti posso assicurare là sta la sua dimora
Non mostrandosi mai se non a una certa ora
Ubriaca e gonfia d’acqua come stella chiara
Esce per tornare subito, come la vergine madre
Prendila in fretta e subito ne smembri
La massa del suo corpo in minuziose parti
In modo tuttavia che forza e vita
Di queste membra ridotte non sian perdute
E ne abbiano altrettante che nel corpo intero
Quando la massa non era ancor scomposta
Che mai si è vista cosa più veemente
Che alla forza del fuoco questo mostro cresce
E senza rifiutarla ben le si adatta
Come a trarne cibo grato e piacimento
Come argento sette volte purgato alla fornace
Che più è ardente e più si sente agiato
Che più pulito e bello dalle fiamme esce
Mentre vi era entrato infetto, orrido e lordo.
Si altera sempre e questa sete ardente
Non si può spegnere se non nella discesa
Dell’igneo rugiadoso liquido macerante
Di fatto non prende che a malincuore
Altra acqua che questa della gran conoscenza
Per la parentela prossima della loro essenza
E perciò l’umore sorbito dal più basso
E aspirato in aria non tarda a risalire
Se da tratti voluttuosi non è appannato
In modo che il mostro privato della vista
Ci sveli la sua traccia, e essendo rinnovato
Poco a poco si dissolva come in un’acqua
Ma non credere perciò la bestia morta
Anzi spera piuttosto che ancor porti
La vita che ha nascosto con evidenza
Quando spossata è andata dentro
La tomba in cui giace sepolta
Come il polipo, anche se muta ancora
Trasformando il suo aspetto, in varie forme
E beffandosi di noi la vista ci sconcerta
È eccezionale che essendo poc’anzi altera
Contro l’ira del fuoco ora va certa
D’esaltare la fortuna e con dolce libertà
In mezzo agli ardori le sue delizie sceglie
Ricreandosi come l’onda trasparente
Gioca il pesce nel calore lento
Essa stessa si esalta e muore adagio adagio
Ecco dunque ciò che fu fin dall’inizio
Corpo massiccio e poi acqua da una dolce fiamma
Una polvere diventa tutta secca e senz’anima
La più grande e priva di ragione meraviglia
È che il mostro così morto ribeva il suo veleno
Nel quale è nascosto per artificio strano
La vera medicina che la sua natura muta
E rinnovandola le restituisce i sensi
Non per un tempo limitato, un’età misurabile,
Ma per un’eternità che con forza mirabile
Vegeta incessantemente in vita perdurante
O mistero tanto alto da non doversi rivelare
Che un veleno sì nero l’abbia potuto rinnovare
E non solo, ma che in più il termine della sua età
Abbia saputo ancora prolungare
Ma ciò che qui di seguito voglio recitare
Ti deve ancora più meraviglia suscitare
È che tanto più beva acqua laida e mortale
Tanto più la virtù in lei cresce vigorosa
E quando si espande in tutta la sua totalità
Origina nei suoi figli grande fertilità
Più stordita sarà da umori saturi
Tanto più crescerà il numero della sua discendenza
Il primo varrà cento, il secondo mille, dopo
Il terzo diecimila e così via a poco a poco
Si susseguono i corpi e la razza opulenta
Per potenze di dieci infinitamente aumenta
E vieppiù questa bestia genera cento volte
Senza fallire un colpo, e i figli son del peso
E della natura della loro madre.
Ora intendi il segreto qui in breve espresso
Il corpo deve essere esposto al fuoco del fornello
Da cui esce intero, per ritornare acqua
Dopo diviene polvere e colpito da una livida morte
Infine, resuscita e si pasce della sua stessa acqua;
In breve se vuoi operare questi artifici credi a me
Che questo mostro si genera e aumenta da sé
Quando tre corpi produce ciascuno con potenza
Di generare tutto come la primeva essenza
Poiché mille già fatti, diecimila ne rifanno
E molti figli ancora usciranno
Senza il proprio veleno la bestia non nasce affatto
Senza questo non è padre né figlio
La forza è nel veleno ma importante è la preparazione
E dal grande danno guardati del veleno.
FINE
La dissertazione fu fatta e composta l’anno di grazia millecinquecentonovanta, dal primo giorno di giugno all’ultimo giorno d’agosto durante il memorabile assedio della città di Parigi il quale ha impedito la prosecuzione della mia opera.

Note di Maurizio Nicosia
  1. Può darsi che la Dissertazione sia un testo “veritiero” che racconta un incontro fortuito, e scritto entro le due cornici cronologiche apposte in apertura e chiusura. È tuttavia inconsueto trovare date così precisate nella letteratura alchemica. Molto inconsueto. Inoltre, malgrado l’autore dichiari in chiusura che «il memorabile assedio della città di Parigi -nell’estate del 1590- ha impedito la prosecuzione della mia opera», può darsi che si riferisca alla stesura del testo e non alla pratica di laboratorio, altrimenti non affermerebbe, ben prima della chiusura, «Lo stesso giorno in cui il sole entra nel segno dell’Ariete, appena i suoi raggi iniziarono a rischiarare, accesi il fuoco sotto al fornello e non mi allontanai dalla camera, pregando e lavorando, finché Dio mi fece la grazia di svelarmi il segreto di quest’arte e i miei occhi si schiusero e il mio intelletto fu illuminato. Quando uscii fuori ero talmente felice che decisi di trascorrere il resto della mia vita senza avvicinare più nessuno. Acquistai un piccolo appezzamento di terreno in campagna e lì mi dilettai d’agricoltura, che è la vera compagna di quest’arte e della filosofia, seminando e piantando alberi…». Da quanto segue sembra estremamente improbabile che sia passato poco più d’un anno. A ciò va aggiunta l’insistenza con cui l’autore sottolinea l’impossibilità di realizzare l’opera in tempi brevi. Comunque sia, la data in apertura, 12 maggio 1588, e la data di chiusura, dal primo giugno al 30 agosto 1590, sono piuttosto particolari, anzi uniche. La prima vedeva nel cielo di Parigi questa configurazione planetaria: Venere e Mercurio a fianco del Sole dietro il quale si celano Marte e Saturno. È un momento unico dell’anno in cui le orbite di Mercurio e Marte incrociano quelle di Saturno e del Sole. Poiché con saturno i Filosofi indicano la materia prima, e Artefio -che il nostro anonimo ben conosce- si segnala tra i più generosi, chiamandolo «antimonio delle parti di Saturno», converrà riflettere più attentamente su questa configurazione planetaria in cui Saturno si congiunge con Marte e proprio dietro il Sole, il cui segno zodiacale si approssima al simbolo spagirico del sale, mentre si mostrano alla vista Venere e Mercurio congiunti. Così il primo giugno del 1590 il cielo parigino vedeva Saturno sotto Marte, a sinistra del Sole, e alla sua destra il Mercurio sulla Luna e Venere al fianco. Anche in quest’anno questo è l’unico momento in cui le orbite dei pianeti veloci s’incrociano nel Sole con Saturno. E tutte le verifiche compiute dimostrano che in quei due anni le congiunzioni di Mercurio e Marte con Saturno, nel segno del Sole, avvengono solo nelle date che contrassegnano il nostro testo anonimo. Inoltre fra il primo giugno e il 30 agosto del 1590 si sono verificate un’eclisse lunare il 17 luglio, e una solare anulare il 31 dello stesso mese. Converrà dunque riflettere attentamente su queste date e ciò che queste congiunzioni indicano. Per il lettore meticoloso aggiungerò che il 30 agosto alla destra del Sole, sotto Marte, ancora una volta Mercurio e Venere si mostrano congiunti. Saturno, invece, è ormai distante.
  2. Il riferimento è alla «guerra dei tre Enrichi», che infuriò a Parigi dal 1585 al 1589. Enrico III di Valois, figlio di Caterina Medici, “re di Francia e di Polonia”, temendo l’eccessiva potenza del duca cattolico Enrico di Guisa, lo fece assassinare a Blois nel 1588, suscitando la rezione popolare e l’insurrezione di Parigi. Cacciato dalla città e alleatosi col capo degli Ugonotti Enrico di Navarra, fu a sua volta assassinato da un fanatico cattolico, il domenicano Jacques Clément. Enrico di Navarra rimase padrone della situazione, ma Parigi gli chiuse le porte; abiurò così la fede calvinista per divenire re: «Parigi val bene una messa». Anche la guerra tuttavia si potrebbe prestare a metafora dell’opera, canonicamente rappresentata da numerose figurazioni come un combattimento tra animali, spesso in posa significativamente araldica. Enrico di Navarra, qualche anno dopo, fu usato da Robert Fludd per crittografare una fase dell’opera nella sezione sull’arte di memoria del suo Utriusque cosmi historia.
  3. Signore di Nevers, ducato del regno di Francia, era allora Ludovico Gonzaga, fratello di Francesco III Gonzaga, che aveva sposato l’erede dei Nevers.
  4. Il riferimento, com’è chiaro anche da quanto segue, è ad Apocalisse, 12, 3; con la differenza che sul serpente, in luogo della donna, v’è l’autore. Identificata tradizionalmente con Maria, il cui frutto sconfigge la bestia, l’autore la menziona poco prima. Quindi come Maria l’opera dell’autore darà frutto.
  5. Ecco che il teatro della guerra storica tra i tre Enrichi si sposta in cielo e s’anima dunque di prospettive escatologiche e simboliche, ma sempre secondo il principio della tavola smeraldina, che verrà citata poco avanti: quindi il combattimento tra i quattro animali riguarda il mondo elementare.
  6. In corrispondenza alla configurazione planetaria celata nella data, anche il sogno si apre sulla figura di Venere.
  7. L’epistola di Giacomo, 1, 4, avverte: «la perseveranza poi è quella che deve portare a perfezione l’opera, in modo che siate perfetti, completi, senza che vi manchi nulla».
  8. È probabile che il riferimento sia da ricercarsi nell’Asino d’oro. Lucio, il protagonista che dalle fattezze asinine torna alla forma umana per l’intervento d’Iside, afferma: “dagl’Inferi ero tornato alla luce del giorno”. Iside «soleva scegliere coloro che, varcati i termini dell’umana vita (transactis vitae temporibus), si trovano sulla soglia ove finisce la luce… Costoro, la provvidenza divina, in certo modo, li fa rinascere, e di nuovo li pone sulla via salutare d’una novella vita». Il romanzo d’Apuleio era ben noto nel Cinquecento e godette di numerose pubblicazioni.
  9. La dissertazione, che deriva dal sogno, si apre in piena corrispondenza con il sogno: lì la colomba è associata a Venere, qui allo Spirito Santo. Apuleio, che l’autore ha poc’anzi citato, narra della nascita di Venere tra spume rugiadose.
  10. L’autore ha già alluso alla sostanza indicando, attraverso la data del primo giugno 1588, la congiunzione di Saturno e Marte, ovvero del «piombo» e del ferro.
  11. Nell’originale l’autore usa il verbo ‘arroser’, che significa ‘innaffiare’, ‘bagnare’, ‘ungere’; l’allusione, trasparente, è alla rugiada: ‘rosée’.
  12. Il simbolo del cielo è il cerchio; della terra e dei suoi quattro elementi costitutivi, la croce. D’altronde simbolo del potere è il globo crociato.
  13. Il termine francese ‘mêle’, ‘mescola’, rinvia al greco ‘mšlaj’ (mélas), ‘nero’.
  14. ‘Muraille’, ovvero ‘muraglia’, deriva da ‘mur’, ‘muro’, omofono di ‘mûr’, ‘maturo’; e ‘mûrement’ significa ‘a lungo’. L’allusione in questo caso, analoga al «frangite libros» o «rumpite libros» di Maier e Fludd, indica che quanto circonda il «germe» ed è ‘nero’, va rotto come guscio, ed è ciò che consentirà, se è ‘maturo’, di vivere ‘a lungo’.
  15. Si vedano Le favole egizie e greche di Dom Pernety, Genova 1985, ECIG, per un’esauriente lettura alchemica delle fatiche d’Ercole.
  16. Anche Fludd qualche anno dopo la Dissertazione insisterà nel suo Utriusque cosmi historia, con ricchi e complessi giochi cabalistici, sull’essenziale funzione di Medea nella conquista del vello d’oro. È da ricordare che il vello d’oro era sospeso nella foresta di Marte, in un recinto murato.
  17. Il gioco di parole si apre a un ventaglio semantico molto ampio: ‘mater’, che significa ‘domare’, indica la madre in latino, e la materia, ‘matière’; ‘mater taureaux’ gioca al bisticcio con ‘mâtereau’ (da ‘mât’, ‘albero’), che in gergo marittimo indica un’asta, un piccolo albero (‘mâter’ significa alberare un naviglio), e può essere diviso agevolmente in ‘mater eau’: acqua madre. Le implicazioni sono troppo complesse per una nota. Comunque una ‘mater’ per la quale si arma una nave è Iside, già evocata dall’autore attraverso Apuleio, dea dalle corna taurine e lunari che si celebrava sotto il segno dell’ariete col navigium Isidis. Le implicazioni operative sono correlate ai versi precedenti che invitano a spogliare il leone della pelle, che s’indovina nera come il cinghiale.
  18. In questo verso l’eroe, dal cervo «aux pieds d’airain», «gaigne le corne d’or»; dunque l’animale ha i piedi d’aria, ‘d’air’, come un ‘cerf-volant’. ‘Gaigne’ è omofono di ‘gaine’, la guaina; le corna d’oro dunque vanno estratte da una guaina, come il leone va spogliato della pelle. Inoltre ‘airain’, ‘bronzo’, richiama esplicitamente il greco ‘a…rhn’ (aíren), cioè la ‘calamita’, richiamata nel verso successivo dal verbo ‘attirer’. E nel dialetto provenzale, cui la lingua del nostro autore spesso inclina, il ferro è chiamato ‘aran’ e ‘iran’; anche ‘enfer’ (‘inferno’), nel verso ulteriore, lo dice chiaramente: ‘en fer’, ‘in ferro’.
  19. Anche qui il gioco di parole insiste sui tre capi, ‘troi chefs’, e ‘Cerbère’, anagramma di ‘cerebrum’, ‘testa’, ‘cranio’. D’altronde la testa di Cerbère è nella ‘bière’, nella ‘bara’, e non potrebbe essere altrimenti, vivendo nell’inferno: è dunque un caput mortuum che contiene un ‘fermento’ (‘bière’, ‘birra’) da ‘serbare’ (Cerbère: serber, serbare). Questo morto sarà rigenerato: Cer-bèr sarà da ‘ber-cer’, cioè da ‘cullare’. Tralasciamo le implicazioni tra ‘chef’, e ‘chauf-‘, caldo, scaldato, che ben s’addice al luogo in cui si trova Cerbero. Questi versi, come dice bene il nostro autore, vogliono «subtile manière», cioè un ‘subtile manier’: vanno trattati, maneggiati sottilmente, ascoltando il «toi-son» (vello, ma anche ‘tuo suono’) nel pronunciarli.
  20. Anche in questo caso converrà rivolgersi alle pagine di Dom Pernety nell’opera già citata, alla voce Diana. Latona, figlia di Saturno e madre d’Apollo e Diana, dea che indica l’oblìo e l’oscurità, è il «leton» di Sinesio: «figlio mio, per grazia di Dio possedete già un elemento della nostra pietra, ch’è la testa nera, la testa del corvo… Questo elemento terrestre e secco si chiama lattone, toro, fecce nere, il nostro metallo». Delo, invece significa ‘chiaro’. Maier, nel suo Atalanta fugiens, suggerisce laconicamente: «Dealbate Latona et rumpite libros» (sbiancate Latona e rompete i libri).
  21. «Et sort l’eau de sèche souche / Que rien ne mouille qu’elle touche». ‘Souche’ indica il ceppo, la matrice, basamento, zoccolo in muratura. Per restituire il ritmo di ‘sèche souche’ ho tradotto con ‘secco sasso’, considerando che ‘rester come une souche’ equivale a restar di sasso e quindi restar senza vita, morire. ‘Sort’, oltre che uscire, indica la sorte, il destino, tema che verrà ripreso dall’autore nel commento ai versi.
  22. Nell’originale il termine ‘ornement’ va inteso nel senso figurativo di ‘vestimento’, come chiarisce il quinto verso.
  23. Il riferimento è al “sapone dei saggi”, necessario a detergere e purificare le feci che avvolgono il mercurio.
  24. «Percent de tous cotez son grand ventre poreux»; ‘cotez’, che indica la ‘costa’, il ‘fianco’ e la ‘costola’, gioca a richiamare il latino ‘cotto’. ‘Percent’ allude, oltre al ‘penetrare’, anche all”aprire’ e allo ‘sfondare’.
  25. «large» allude a ‘l’argile’, l’argilla, ma soprattutto all”argento’, cioè alla «materia argillosa» che grazie alla cottura giunge al bianco ed è anche definita «acqua mercuriale».
  26. «Du beau nom je l’appelle»; foneticamente ‘beau nom’ è analogo a ‘bonhomme’, uomo; ma il gioco linguistico tende a unire nel «bonhomme» la ‘bonne’, la donna, e l”homme’, l’uomo, come cielo e terra. Ma l’autore va oltre: ‘je l’appelle’ si può leggere come ‘je la pele’: la scorteccio, la sbuccio. L’allusione è dunque allo sbucciare la parte femminile della corteccia che la ricopre, che è di natura maschile, cioè sulfurea; “du bonhomme je la pele”: ‘dell’uomo la sbuccio’. I filosofi, ricorda Dom Pernety nel suo dizionario, han chiamato “maschio” il fisso, e “femmina” il volatile.
  27. In questo caso terrificato, ‘terrifié’, significa letteralmente ‘fatto terra’. I due versi dunque suonano così: dell’uomo la sbuccio, / del cielo fatto terra, degnissimo e prezioso.
  28. L’autore gioca qui a evocare con ‘nourrisse’, nutrice, anche ‘noircisse-‘, annerimento. Madre di Apollo e Diana, e loro nutrice, s’è già visto, è Latona, la ‘nera’. Ma Esiodo la vuole figlia di Febo.
  29. Questo particolare indica che l’autore conosceva la Monas Hierogliphica di John Dee, pubblicata ad Anversa nel 1564, opera che nel basamento dell’arco a ornamento del frontespizio cita la Vulgata: «DE RORE CAELI, ET PINGVEDINE TERRAE, DET TIBI DEVS, Ge. 27. I, av.».
  30. «l’honneur» richiama ‘le neur’; quindi «vedendo, separerà il nero da ciò ch’è puro».
  31. Le figure di Enoc ed Elia, gemini victores che rientrano nel paradiso da cui furono cacciati Adamo ed Eva, sono frequentemente accoppiate nella letteratura patristica e talmudica. S. Agostino li cita esplicitamente nel Contra Iulianum (Migne, Patrologia latina, 45, 1581), e anche Giuseppe Flavio, che il nostro autore cita più avanti, li menziona nelle Antichità giudaiche. Ma ciò ch’è qui significativo è che il nostro autore anonimo li vuole entrambi ascesi al paradiso con un carro di fuoco, diversamente dalla storia biblica. E l’unico a menzionare sia Enoc che Elia su un carro di fuoco è Agrippa di Nettesheim in De occulta philosophia, III, XLIII, del 1533: «Se dunque il potere dell’immaginazione è tanto grande da potersi insinuare ovunque, senza esserne impedito da lontananza di luogo o di tempo, trascinando seco perfino talora il corpo pesante là dove esso concepisce, è indubitabile che la potenza della mente sarà maggiore quando realizzerà la propria natura, quando non sarà più appesantita dai legami dei sensi e quando si manterrà incorruttibile e simile a se stessa. Allora le anime si riempiono d’abbondante luce a simiglianza degli astri, la quale s’irradia ai corpi. …ecco perché Elia ed Enoc ascesero al cielo su un carro di fuoco e Paolo fu trasportato sino al terzo cielo; ecco perché quei corpi che saranno glorificati dopo il giudizio universale, verranno similmente rapiti e risplenderanno come il sole e la luna».
  32. Si veda la nota 24. L’allusione avanzata in quel verso si esplicita qui, mediante il termine ‘costola’, ‘côte’: il «grembo poroso», le cui «cotez» saranno aperte e impregnate dallo spirito universale, è una terra adamitica, «rossa»; ed è dal corpo d’Adamo che va estratta Eva.
  33. Altra allusione alla Monas di John Dee, che nella prefazione all’imperatore Massimiliano, cultore d’alchimia, scrive: «secondo la proporzione della nostra progressione, è fra cento miriadi di sinceri filosofi… che noi dobbiamo attendere questo unico e felicissimo bambino».
  34. È propria del sale la capacità di conservare; ed è a un sale doppio che l’autore allude insistentemente, ripetendo quattro volte il termine ‘double’.
  35. Flamel ammonisce che l’avarizia è la radice di tutt’i mali e che l’opera la estirpa.
  36. La forma primordiale dei raggi, nella simbolica, è a crociera. Quindi il cielo onora il globo con la croce, rivelando il simbolo della gloria mundi.
Dissertazione sulla pietra filosofale 1590ultima modifica: 2009-11-29T18:15:00+01:00da giovannisantoro
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