Averroè

Filosofo arabo (Cordova 1126-Marrakech 1198). Appartenente a una famiglia di giudici, seguì egli stesso questa carriera e fu giudice a Siviglia. Dal 1182 fu medico dei califfi Abu Ya!qub Yusuf ibn al-Mu’min e Abu Yusuf Ya!qub al Mansur. Nel 1195 cadde in disgrazia a causa delle accuse degli ortodossi; la protezione del califfo Abu Yusuf Ya!qub al Mansur gli salvò la vita, ma dovette andare in esilio in Marocco.

IL COMMENTATORE
Averroè fu per l’Occidente latino il commentatore di Aristotele; la sua attività intendeva restaurare il significato autentico dell’opera di Aristotele, al di là delle interpretazioni neoplatonizzanti di al-Farabi e Avicenna. Tre sono i tipi di commentario usati da Averroè: il Grande Commentario, in cui viene seguito il metodo ancora greco della spiegazione frase per frase del testo aristotelico, cui si aggiungono spesso note di Averroè, indicate come Commentaria; il Commentario medio, consistente in un riassunto di testi aristotelici; le Parafrasi, in cui è riportato solo il senso dei libri aristotelici, ridotti a un’esposizione che non segue l’ordine originale, con sviluppi personali di Averroè. Inoltre Averroè difese la filosofia contro al-Ghazzali in un libro intitolato Distruzione della distruzione dei filosofi. Averroè intese mantenersi fedele ad Aristotele, che per lui rappresentava il più alto esempio di ciò che la natura sa produrre; ma questa sua è una fedeltà critica, retta da una continua indagine sulla filosofia e la tradizione religiosa.

IL PENSIERO RELIGIOSO
Nei confronti della religione, Averroè si mostra attento a distinguere i vari livelli della fede. Vi sono infatti uomini che possono essere volti a Dio solo mediante argomenti tratti dalla realtà sensibile, altri cui meglio si adattano le esortazioni: per questi l’insegnamento coranico, che fa leva soprattutto sulla facoltà immaginativa, è particolarmente adatto. Per coloro invece che sono in grado di accedere al pensiero puro, all’ordine razionale, il Corano non contiene che esortazioni e spunti a proseguire la ricerca di Dio. Come è critico nei confronti della tradizione religiosa e dei commenti teologici al Corano, altrettanto Averroè si mostra verso la tradizione di pensiero araba. Alla dottrina di al-Farabi e di Avicenna – per i quali il molteplice nasce da Dio nel seno della Prima Intelligenza, dove si verifica la distinzione tra la semplice possibilità, che a questa è propria in quanto non coincide con Dio, essere necessario, e la causalità divina che la rende necessaria – Averroè contrappone la dottrina del necessario fluire della realtà molteplice da un’unica sorgente.

IL PENSIERO FILOSOFICO
Avicenna concepiva, neoplatonicamente, la realtà come un seguirsi di emanazioni, secondo il principio che una cosa deriva da una cosa sola; Averroè ritiene invece che l’ordine cosmico derivi dal comprendersi reciproco e dal convergere finalistico delle intelligenze. Il risultato è quello di una concezione del mondo come accordo di attività finalizzato al Dio supremo come scopo ultimo. La negazione della visione del mondo di Avicenna, come serie di realtà emananti l’una dall’altra, è pure visibile nella concezione che Averroè ha della generazione nel mondo sublunare: egli ritiene che non già, come per Avicenna, sia un’intelligenza separata a imprimere le forme alle cose materiali, bensì materia e forma sussistano all’interno di ciascun essere e sia il loro composto a generarsi, passando dalla potenza all’atto. Dalla dottrina della materia e forma si svolge anche la più celebre delle dottrine averroiste, quella dell’intelletto. La conoscenza inizia con l’impressione prodotta sui nostri sensi dalle forme materiali a noi esterne. Dalla contemplazione di tali impronte, come oggetto di conoscenza, si generano delle forme sensibili in atto, sulle quali l’immaginazione a sua volta interviene. Così elaborate le forme sono pronte, attraverso un ulteriore processo, a divenire degli intelligibili. Ma il passaggio da tali immagini a forme intelligibili non può essere immediato, perché esse sono in effetti solo potenzialmente intelligibili: è quindi necessario ammettere un intelletto attivo che le faccia passare dalla potenza all’atto. L’intelletto attivo, facendo passare in atto le forme intelligibili, fa passare in atto anche l’intelletto potenziale in cui esse vengono accolte, divenendo quindi per noi intelligibili. Le forme intelligibili hanno così una duplice relazione, con l’intelletto da un lato, con le immagini sensibili da cui derivano dall’altro. In tal modo esse sono eterne e nello stesso tempo corruttibili e generate. L’intelletto speculativo o acquisito, che nasce dall’attualizzazione dell’intelletto potenziale o materiale, è così almeno per un verso corruttibile: Averroè conclude che conseguentemente non v’è immortalità individuale per l’uomo, perché, sebbene l’intelletto attivo e quello materiale siano per sé eterni, la nostra partecipazione a essi è condizionata dalle immagini sensibili attraverso le quali avviene per noi l’attualizzazione dell’intelletto. L’intelletto attivo è l’oggetto di conoscenza più alto da noi raggiungibile. Alcuni uomini possono superare il limite della natura, degli oggetti materiali a noi esterni e cogliere l’intelletto agente stesso. Poiché questo è l’ultima delle Intelligenze celesti e a sua volta conosce l’Intelligenza a lui superiore, in una catena che di Intelligenza in Intelligenza risale sino a Dio, l’ultimo termine della scienza è la semplice conoscenza intuitiva di Dio stesso.

Averroèultima modifica: 2009-05-17T11:17:18+02:00da giovannisantoro
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