LA MASSONERIA IN ITALIA – ORIGINI DELLA CARBONERIA I MOTI CARBONARI DEL 1813 E DEL 1814 – ORGANIZZAZIONE E DIFFUSIONE DELLA CARBONERIA – LE SETTE MINORI

Il Congresso di Vienna aveva restaurato, in nome del legittimismo, i vecchi governi, ma non aveva saputo spegnere nella penisola lo spirito rivoluzionario portatovi da Napoleone Bonaparte; questo spirito, ora che le antiche catene sono rinsaldate, animerà l’opera dei patrioti in seno alle società segrete, che dal 1815 al 1831 rappresentano l’unica forma possibile d’opposizione degli Italiani alla dominazione straniera e all’assolutismo. Napoleone a Sant’Elena lo aveva scritto “occorre una generazione, poi i nuovi giovani che verranno, capiranno, e vendicheranno l’infamia che io qui subisco”.

Madre di tutte le sette fiorite nel secolo XVIII e nel XIX può dirsi la Massoneria, che, nata – a non voler tener conto delle origini leggendarie di cui si compiace – in Inghilterra nei primi decenni del Settecento, ben presto si diffuse nella Francia, nei Paesi Bassi, nella Germania e nell’Italia.
Secondo uno studioso, Gianni Vannoni, che ai rapporti tra Chiesa cattolica e Massoneria ha dedicato più di un libro, la Massoneria – nella forma oggi conosciuta, setta fondata da ignoti è apparsa sulla scena della Storia nella Londra del 1717.

Come nasce la Massoneria? Le forme e il nome stesso risalgono alle corporazioni medievali dei costruttori d’edifici, muratori e tagliapietre d’alta competenza professionale (masons in inglese, maons in francese), stretti in associazioni molto disciplinate. Le loro confraternite, chiamate ad erigere strutture gigantesche (abbazie e imponenti cattedrali che ancora oggi ammiriamo), non possono essere stanziali: migrano dove le grandi opere le chiamano, diventando per questi motivi cosmopoliti e itineranti. Portatrici d’esperienze sempre più raffinate, di veri e propri segreti professionali, esprimono capomastri e maestranze dotate di gran perizia, che principi e vescovi allettano e proteggono con immunità e franchigie. Si diranno perciò, poiché esenti da tasse e vessazioni, “liberi muratori”.

Spiega LUIGI FIRPO, un illustre docente universitario torinese del primo Novecento: “Scolpire nel sasso, ai piè dell’opera, i conci, i capitelli, le nervature di una cattedrale gotica, issarli con semplici paranchi ad altezze vertiginose, collocarli con giunzioni perfette, comportava conoscenze matematiche complesse e formule conservate gelosamente. Disciplinare e coordinare migliaia di manovali fra esperti e inesperti, trasmettere ordini e istruzioni spesso in lingue diverse, sviluppò un linguaggio di segni gestuali, una simbologia, un codice. Gli adepti usarono tra loro termini gergali, si riconobbero mediante segni distintivi, e costituirono una sorta di fraternità sopranazionale, aperta al reciproco aiuto e vincolata alla tutela dei segreti dell’arte da solenni cerimonie d’iniziazione. A sua volta, questa scandiva i gradi di una conseguita professionalità nei tre livelli dell’apprendista, del compagno e del maestro: la cerimonia coronava il lungo tirocinio di un reale apprendimento, che non trasmetteva soltanto nozioni tecniche, ma regole etiche severe di morigeratezza, onestà scrupolosa e devozione pia. Il giuramento sulla Bibbia ne costituiva la sanzione suprema”.

Le unioni massoniche perdettero gradualmente il carattere operativo per diventare simboliche, e il loro segreto professionale si adattò a copertura ideologica, quasi un travestimento del dissenso.
L’antico mutualismo assistenziale si dilatò in generica filantropia; l’idea di una fratellanza morale e mistica del genere umano affascinò molte menti; nobili e borghesi, principi e dotti s’illusero di poter procedere insieme nella “vera luce” verso il grande Tempio ideale dell’umanità, eretto secondo le regole stabilite dal Grande Architetto dell’Universo.

La Massoneria prende corpo all’indomani della Rivoluzione inglese. Negli ambienti del protestantesimo anglicano si concepiva l’Inghilterra come l’isola dei Santi, che avrebbe sgominato l’Anticristo e i suoi satelliti, identificati con il Papa e le monarchie cattoliche, riportando cosi sulla terra l’età… paradisiaca. Non molto diverso nell’aerea gotica germanica (leggi Lutero)

Non potendo costituire un ordine religioso tradizionale, per evidente incompatibilità… del modello, si pensò di costituire un Ordine di tipo nuovo, che in questa lotta apocalittica riusciva ad offrire gli stessi servizi che al Papa erano offerti dai gesuiti. La Massoneria nasce quindi in ambiente cristiano, non laico, ma si tratta di un cristianesimo ereticale e fanatico, complicato da speculazioni cabalistiche e occultistiche. Nonostante certe punte di dottrinarismo materialistico e irreligioso e la segretezza propizia alle cospirazioni, la massoneria settecentesca non è in ogni caso né atea né ribelle al trono, ma patrocina la tolleranza, l’altruismo, la ricerca della verità…, la lotta contro il fanatismo e la superstizione, la liberazione dai pregiudizi, il dominio delle passioni.

A buon diritto, dunque, fu definita “La Compagnia di Gesù dell’Illuminismo”. La Massoneria‚ che è il prodotto di una rivoluzione, con la sua diffusione sul continente europeo, che è datato intorno a metà… del XVIII secolo, pone pure le premesse per un’altra Rivoluzione, quella Francese.
VANNONI, in questo, si allinea a due famosi storici – BARRUEL e COCHIN – che dimostrando scientificamente il nesso tra Massoneria e rivoluzione francese attraverso un’analisi sociologica che costituisce un modello ancora valido per la comprensione dei fenomeni rivoluzionari. E nonostante il Terrore giacobino dia la caccia anche ai massoni, la conclusione dittatoriale della Rivoluzione, con il generale Bonaparte, segna il rapido rifiorire della Massoneria, che diviene la piattaforma sotterranea dell’imperialismo napoleonico, con le logge in Italia e in Europa che costituiscono le quinte colonne dell’egemonia francese.

Scrive VANNONI: “Nella misura in cui il Risorgimento‚ è stato una lotta contro i sovrani cattolici, come Pio IX, gli Asburgo e i Borboni, la Massoneria ha dato il suo apporto, sviluppando una teoria del nazionalismo come mistica missione. Un cammino fin troppo rapido dalla società operaia alla moda elegante e salottiera, annuncio dell’Illuminismo”.

Ma torniamo indietro di qualche anno. L’atto di nascita di questo nuovo indirizzo fu firmato a Londra, con la fusione di quattro logge, il 24 giugno 1717. Sedici anni più tardi – Firenze, 1733 – prende il via la Massoneria italiana, che vive una storia fra le più tormentate e diseguali. Nasce dissimulata come “Compagnia della Cucchira”, due anni dopo trova adepti a Milano e, via via, Venezia e Padova, nel ’36 desta già i sospetti dell’Inquisitore di Bologna, nel ’38 subisce la scomunica da parte di papa Clemente XII, rifiorisce in età napoleonica, per poi “esplodere” nel Risorgimento, con Cavour ispiratore della loggia “Ausonia” di Torino e Garibaldi gran maestro a Palermo.

Questa prima loggia massonica in Italia fondata a Firenze nel 1733 pare sia opera dell’inglese duca di Middlesseg; altre poi ne sorsero qua, e là, a Lucca, a Livorno, a Venezia, a Napoli, a Roma, a Milano, in Sicilia.
In un primo tempo in Italia la Massoneria ebbe un carattere riformistico, umanitario, razionalistico; solo quando, allarmati dall’applicazione che delle idee umanitarie faceva la rivoluzione francese, i governi della penisola rallentarono la loro opera riformatrice, gli elementi più battaglieri della Massoneria assunsero un aspetto rivoluzionario, mentre gli altri, ed erano i più, si disperdevano o si stringevano intorno ai sovrani. Più tardi, sotto l’impero napoleonico, la Massoneria si riorganizzò, ingrossò le sue file, perse in gran parte il carattere di segretezza e divenne uno strumento di governo. Venne alla luce con il trionfo.

Ma caduto l’impero napoleonico, il trionfo in pochi attimi diventò una cocente sconfitta; si sciolsero le logge e quelle che rimasero non ebbero più seria importanza politica e si lasciarono soverchiare da altre sette, fra le quali primeggiò la CARBONERIA.

LA CARBONERIA Difficile è rintracciare le origini di questa società segreta, che da alcuni sono perfino poste nel secolo XI.
Secondo FIRPO, la struttura della setta e le elezioni dal basso dei capi furono suggerite dai modelli offerti dalle comunità monastiche e dai capitoli delle cattedrali, mentre l’autogoverno fu consentito dalla sopranazionalità: già nel 1110 Bonifacio IV concesse privilegi, autonomia e libera circolazione al di sopra d’ogni frontiera.

“.. Fondatore di essa – scrive lo storico GIUSEPPE RICCIARDI – si crede sia stato un certo Teobaldo, detto poi Santo, meritevole di essere esaltato, perché morì martire. Era nato in Francia nel 1017 nella città, di Provins. Fattosi prete in Italia, si rifugiò in Svevia, provincia germanica, ove si disse nacque la setta, alla quale, morto Teobaldo, non vennero meno le forze, ma, invece, si accostarono uomini d’ogni ceto. Un catechismo, in forma di dialogo, fu compilato sin da quei tempi e, ad accrescere il numero dei proseliti, in un’età di profonda superstizione, ogni cosa fu involta fra le dottrine e le pratiche del Cattolicismo; ma ciò che fa la Carboneria degna di nota, fin dal suo inizio, fu questo, che per essere accolto nel suo seno, condizione primaria ed indispensabile era una vita incontaminata. I buoni “cugini“, come si chiamavano fin da allora i Carbonari, erano tenuti strettamente ad esercitare l’ospitalità non solo verso i loro “consettari“, ma chiunque era perseguitato dalla sfortuna, con il dargli oltre rifugio, il letto, il mangiare e il bere, cinque soldi ed un paio di scarpe. Ben presto le foreste della Germania, della Franca Contea, dell’Ardesia, del Giura furono piene di Carbonari, denominati così dalla professione esercitata dal maggior numero de’ proseliti della setta, e le loro riunioni assunsero il nome di “vendite“. A costituire le quali bastavano tre buoni cugini, undici a farle perfette. Affabili e caritativi, in tempi tutt’altro che caritativi ed affabili, i Carbonari si facevano voler bene e rispettare da tutti. E la sètta durò in questi termini fino agli ultimi anni del XVIII secolo, cioè allo scoppiare della rivoluzione francese. La quale commosse così tanto i popoli d’Europa che ogni più piccola associazione si mutava, detto fatto, in movimento politico: una tale trasformazione, avvenne anche nella Carboneria, ed ebbe luogo e iniziò in Italia, soprattutto nel reame di Napoli, dove qualche ramo della sètta esisteva già da lungo tempo, anzi forse dal tempo in cui dominò la dinastia degli Svevi” . L’origine straniera della sètta è affermata da altri scrittori. Il GUVINUS la crede derivata dai Franchi Muratori, il COLLETTA afferma che essa esisteva prima del 1799 nella Svizzera e nell’Alemagna, il PRINCIPE DI CANOSA scrive: “Si crede da alcuni che la Carboneria sia nata in Germania: da questa sarebbe partito il primo apostolo ad evangelizzare Capua. Opinione più comune è per altro che la Carboneria sia giunta dalla Francia, ove esisteva, tra le molte sette, una detta dei Charbonniers, pervenuta forse là dalla Germania, come l’Illuminismo”.

Dagli “Charbonniers” francesi la fa discendere anche il GIGLIUCCI. Ma a noi importa di più sapere quando e come la setta fu importata in Italia e – con quella mutazione già detta sopra- in quale regime della penisola per prima fiorì. Discordi sono i pareri. Secondo alcuni essa, per opera della regina MARIA CAROLINA e del cardinal RUFFO, sarebbe sorta in Sicilia e di là diffusa nelle Calabrie come strumento contro i Francesi anteriormente alla prima restaurazione borbonica; secondo altri, la Carboneria sarebbe un ramo dissidente della Massoneria: i Massoni si chiamavano muratori, i dissidenti si dissero carbonari; quelli dicevano di lavorare al tempio di Salomone, cioè della virtù, questi volevano purificar tutto con il fuoco del loro carbone.
Il principe di Canosa dice che essendo state, al tempo di Napoleone, disperse tutte le sette tranne la Massoneria, “un francese profugo della sètta dei Charbonniers portò nel 1810 i misteri della proscritta società a Capua”; il COLLETTA dal canto suo c’informa che “…alcuni napoletani esuli nel 1799, iniziati in Svizzera ed Alemagna, dove la setta portava un altro nome, tornando in patria la introdussero, ma restò debole ed inosservata. Nell’anno 1811 certi settari, francesi ed alemanni, qua venuti, chiesero alla polizia dì spanderla nel Regno come incivilimento del popolo e sostenitrice dei governi nuovi…”. Un altro storico, il BOTTA, afferma che la Carboneria nacque nel 1808 “…nelle montagne più aspre e nei più reconditi recessi dell’Abruzzo e delle Calabrie da alcuni dei repubblicani più attivi, ritiratisi in quel luogo durante le persecuzioni usate contro di loro…”. PIETRO DOLCE invece crede che la sètta sia stata fondata probabilmente nel 1812, mentre Gioacchino Murat si trovava in Russia, dagli Illuminati di Napoli sotto la guida e l’incitamento degli Illuminati di Londra e della Massoneria inglese.
La maggior parte degli scrittori afferma che i Carbonari erano favorevoli ai Borboni e, alcuni giungono perfino a dire che furono Ferdinando IV o Maria Carolina a fondare la Carboneria per opporla ai Francesi e alla Massoneria; e vi sono però altri, e fra questi il Colletta, che asseriscono essere nata la setta intorno al 1809 per ispirazione del governo del Murat e precisamente del ministro di polizia MAGHELLA (ma altri storici affermano che il Maghella era solo un membro).

M forse non deve riuscir difficile metter d’accordo tutte queste opinioni. Il confronto tra i catechismi della sètta dei Charbonniers e quelli dei Carbonari, la testimonianza del Generale ROSSETTI, che dichiarò di essersi iscritto alla Carboneria nel 1802 quand’era di guarnigione a Gray, e l’affermazione di parecchi storici bene informati c’inducono a credere che dai Charbonniers derivino i nostri Carbonari. Esuli italiani probabilmente portarono nel Regno di Napoli i riti e il nome dalla Francia e fondarono i primi nuclei che andarono man mano alimentandosi con i massoni dissidenti delle logge troppo ligie alla Francia, con Illuminati, con massoni anglofili, con vecchi giacobini, con quanti, ardenti repubblicani, male tolleravano l’imperialismo napoleonico, e infine con elementi – e questi in gran numero – nei quali il sentimento antifrancese s’identificava con il sentimento antirivoluzionario.

Quest’indirizzo antifrancese della setta spiega il favore dato dalla Corte borbonica; la presenza fra i Carbonari d’elementi anglofili e borbonici spiega l’indirizzo favorevole a Ferdinando dei moti promossi nel 1813 e nel 1814 dalla Carboneria nelle Calabrie e negli Abruzzi; la costituzione siciliana del 1812 e il soggiorno in Sicilia di lord BENTINCK (di cui abbiamo parlato abbondantemente nel riassunto del 1806) spiegano infine come una società segreta, che aveva per scopo l’indipendenza e la libertà della nazione, potesse guardare con simpatie, al Borbone. La potenza ben presto raggiunta dalla setta deve avere spinto il governo del MURAT e il suo prefetto di polizia MAGHELLA a tentar di ingraziarsi la Carboneria, ma, scarsi dovettero essere i risultati.

Furono tanto scarsi che presto si ebbero dei veri e propri moti rivoluzionari contro il governo murattiano. Nel settembre del 1813, mentre il re Gioacchino era alla guerra in Germania, il governo, temendo che scoppiassero insurrezioni in Calabria, prese energiche misure di precauzione che in qualche lungo ebbero carattere d’ingiustificata violenza, si comportarono peggio dei “briganti” (spesso avanzi di galera) che combattevano. Il 15 settembre numerosissimi carbonari furono arrestati a Cosenza, e il 18 una schiera di soldati francesi penetrò nel paesello di Altilia e con il pretesto che era un covo di Carbonari, lo saccheggiò e lo diede alle fiamme. Fu questa la scintilla di un incendio che non doveva assumere vaste proporzioni né aver lunga durata. Il capitano delle truppe provinciali VINCENZO FEDERICI detto CAPOBIANCO, uno dei capi della Carboneria della regione, raccolti intorno a sé alcuni compagni armati si presentò davanti a Cosenza sperando nella sollevazione degli abitanti: non essendosi questi mossi, si diede a scorrazzare nelle campagne, ma, arrestato per tradimento presso Nicastro, fu condannato a morte da una Commissione militare, e il 26 settembre 1813, impiccato.

Nel marzo del 1814 teatro dei moti carbonari fu l’Abruzzo. Il 13 di quel mese in una riunione di capi della Carboneria tenuta a Castellammare Adriatico si stabiliva di approfittare dello stato di guerra in cui il re Gioacchino si trovava con la Francia (l’esercito napoletano era schierato sul Taro) e aveva stabilito di iniziare entro una settimana a Pescara il movimento rivoluzionario.
Però, messa sull’avviso, le autorità locali procedettero a numerosi arresti e fece fallire l’insurrezione che scoppiò invece a Città S. Angelo. Qui, il 27, furono disarmate le esigue milizie regie, fu innalzato il tricolore carbonaro rosso-nero-celeste, fu formato un governo provvisorio repubblicano e il 29 una colonna d’insorti mosse verso Pescara. Ma, nell’attraversare un bosco, un colpo di fucile, involontariamente sparato da un carbonaro, fece credere ad un attacco nemico e produsse tale confusione che la schiera si disperse. Riordinatisi il 31, i Carbonari marciarono su Teramo, ingaggiarono battaglia contro il battaglione di milizia provinciale uscito a contender loro il passo, e, poiché gli abitanti della città non si sollevarono, si ritirarono.

Fallita la rivolta, si scatenò la repressione, eseguita dal generale francese MONTIGNY; però nonostante gli arresti e le condanne al carcere ed alla morte, la Carboneria continuò a vivere, anzi si propagò nelle Marche e nelle Romagne. Come in tutte le sette, l’iniziazione alla Carboneria avveniva con riti che avevano del simbolico, del misterioso e insieme del pauroso. All’iniziato erano bendati gli occhi; quindi lo si portava dentro varie stanze e ad un tratto, lo si fermava, gli si faceva udire una voce che diceva: “Questo è un cieco che ama la luce”. Un’altra voce rispondeva: “La potrà vedere: che cosa brama da noi?” E l’iniziando doveva dire: “l’indipendenza d’Italia”.

“…Allora un’altra voce gli domandava se conoscesse l’istituto in cui voleva entrare e faceva all’iniziando un breve esame sulla religione e sui diritti dell’uomo, quindi faceva ripetere solennemente la formula del giuramento: “A gloria del Grande Maestro dell’Universo, io giuro sugli Statuti dell’Ordine, e su questo ferro punitore degli spergiuri, di custodire e conservare i segreti della Venerabile Carboneria e di aiutare i miei Buoni Cugini Carbonari per quanto lo permettono le mie forze e di non attentare al loro onore né a quello delle loro famiglie. Se divento spergiuro, sono contento che il mio corpo sia fatto a pezzi, bruciato, e le ceneri sparse al vento, onde il mio nome sia in esecrazione a tutti i Buoni Cugini Carbonari sparsi sulla superficie della terra: così Iddio mi sia in aiuto..”.
“…Quando l’iniziando finiva di pronunciare il giuramento, una voce chiedeva: ” Insomma, che cosa brama?” e un’altra voce, cavernosa, rispondeva: “La luce”. Allora veniva tolta la benda al neofita, il quale si vedeva circondato da quattro uomini ricoperti di cappe nere che brandivano sulla sua testa quattro pugnali. Egli firmava un foglio su cui era scritta la formula del giuramento, riceveva la spiegazione delle parole segrete forza, coraggio, salute, costanza, degli emblemi, alcune notizie su S. Teobaldo, protettore della setta, imparava il segno di riconoscimento che consisteva nello stringere la mano applicando l’indice al polso del Cugino e formando un semicerchio e battendo poi nel centro un colpo staccato e due colpi uniti, e da ultimo dava e riceveva il bacio dell’amicizia…”
“…Quasi sempre, il neofita veniva sottoposto a prove impressionanti. Dopo il giuramento, Carbonari, travestiti da gendarmi, facevano irruzione nella sala suscitando un tumulto, durante il quale si osservava il contegno dell’iniziando; sovente, mentre il neofita era bendato, si facevano udire alcuni colpi di arma da fuoco; qualche volta gli si presentava una pistola e gli si diceva che, avendo egli dichiarato di esser pronto a tutto per la setta, si facesse saltare le cervella..”.

Quattro erano i gradi per i quali si passava nella Carboneria e chi era insignito del quarto era chiamato “Grande Eletto”. La Carboneria era divisa in sezioni dette “vendite“, o “baracche“, composte di almeno undici Cugini; i rappresentanti di venti vendite, i quali dovevano essere rivestiti del secondo grado detto pitagorico, formavano una “vendita centrale” presieduta da un Grande Eletto; i rappresentanti di un certo numero di “vendite centrali” costituivano un’ “alta vendita”; infine i rappresentanti delle “alte vendite” formavano la “vendita suprema…”.

“…I Grandi Eletti avevano una speciale formula di giuramento: “Io giuro in presenza del Gran Maestro dell’Universo e del Grande Eletto, buon cugino, di impiegare tutti i momenti della mia esistenza a far trionfare i principi di libertà, di uguaglianza e dì odio alla tirannia, che sono anima di tutte le azioni segrete e pubbliche della rispettabile Carboneria. Io prometto di propagare l’amore dell’ uguaglianza in tutte le anime sulle quali mi sarà possibile esercitare qualche ascendente. Io prometto, se non è possibile di ristabilire il regime della libertà senza combattere, di farlo fino alla morte”.

Vi erano delle vendite che avevano tra gli affiliati delle donne dette “sorelle giardiniere“, anche preti e frati erano nella Carboneria e sia questi che le donne erano utili alla setta per diffondere ordini ai seguaci, eludendo la rigorosa sorveglianza della polizia dei vari governi. Persone d’ogni condizione sociale facevano parte della Carboneria, nobili, ufficiali, magistrati, professionisti, impiegati, possidenti, commercianti, soldati, artigiani, sacerdoti; e numericamente la setta costituiva una vera potenza: difatti, nel solo regno delle Due Sicilie, se si deve prestar fede a certi storici, essa contava ottocentomila affiliati (ma anche il generale Church, indirettamente conferma in un altro modo)

Quanto al programma politico i Carbonari, almeno quelli dei primi gradi, non n’avevano uno ben definito. Essi miravano a liberare l’Italia da ogni servitù interna ed esterna, ma riguardo alla forma di regime, non mostravano di aver preferenze: qualsiasi forma, escluso l’assolutismo, era buona, monarchica o repubblicana, a base unitaria o a base federale, purché non mancasse un’illuminata e larga costituzione. Pare però che i gradi superiori della Carboneria avessero un programma di massima, da attuarsi in un secondo tempo, che probabilmente corrisponde all’utopistico “Patto sociale costituzionale dell’Ausonia, giunto sino a noi.

Secondo questa costituzione, l’Ausonia comprendeva tutta la penisola italiana dalle Alpi allo Stretto, tutto il territorio dell’antica Repubblica di Venezia fino alle Bocchedi Cattaro e ai monti della Croazia, la Sicilia e tutte l’isole del Mediterraneo a cento miglia dalle coste italiche. “Il territorio dell’Ausonia sarà diviso in 21 province; ogni provincia invierà un deputato all’ “Assemblea sovrana” centrale che rappresenterà la nazione. Ci sarà in ognuna delle 21 province federate ed obbedienti alle leggi generali della Repubblica un’ “Assemblea nazionale particolare”, che potrà dare alle province dei regolamenti particolari adatti alle abitudini, costumi e utilità della popolazione. Questi regolamenti, per essere messi in vigore, dovranno tuttavia essere sottomessi all’approvazione dei comuni delle province e notificati al governo della Repubblica che al bisogno li farà proteggere dopo essersi assicurata che essi non hanno nulla di contrario al bene generale dello Stato”.

Ogni provincia doveva essere suddivisa in dipartimenti, distretti e cantoni. I dipartimenti dovevano essere “governati civilmente da un Consiglio generale di 6 membri, presieduti da un settimo; i distretti da un Consiglio di due membri, presieduti da un terzo; i cantoni da un presidente, assistito da un aggiunto e da un segretario; i comuni da una Municipalità”. Inoltre ogni provincia avrebbe avuto un arcivescovo e ogni dipartimento un vescovo eletti dalle assemblee provinciali.

Il potere esecutivo della repubblica doveva essere affidato a due re, eletti per dieci anni dall’Assemblea sovrana, l’una detto “Re del mare”, l’altro “Re della terra”. “Amministreranno, il primo la marina e i porti, il secondo l’interno della Repubblica. Essi dovranno comunicarsi tutti i loro atti, i quali non avranno valore senza il consenso unanime. In caso di dissidenza, ne riferiranno all’Assemblea sovrana, la quale nominerà fra i suoi membri un “Re del popolo”, eletto “ad hoc”, il quale deciderà senza appello la questione in favore dell’uno dei re. Gli atti relativi alle dichiarazioni di guerra e alle spedizioni lontane della marina, non potranno eseguirsi senza l’approvazione dell’Assemblea sovrana”.

Le famiglie dei re non dovevano godere di alcuna prerogativa, i figli non avevano diritto alla successione ed erano esclusi dall’elezione; i re non potevano comandare gli eserciti né le flotte, uscire dal territorio della Repubblica, aver beni o altra casa che non fosse quella dell’Assemblea sovrana: avevano un assegno annuo d’un milione di piastre forti e come guardia d’onore la Guardia Nazionale. Essi erano inviolabili, salvo che nel caso in cui attentassero alla libertà della patria: allora decadevano dal potere e, colpiti da un decreto d’accusa dell’assemblea sovrana, erano deferiti al giudizio dell’Alta Corte.
Il Cattolicesimo sarà proclamato religione dalla maggioranza dei popoli d’Ausonia; tutti gli altri culti però saranno permessi. La religione cristiana sarà custodita nella sua divina purezza da un concilio generale di vescovi, il quale eleggerà il Patriarca, d’Ausonia, che avrà un trattamento decuplo di quello degli Arcivescovi. Il Papa attuale sarà pregato di accettare tale dignità e un’indennità personale, in compenso della perdita delle rendite temporali che saranno riunite al tesoro della repubblica. Il collegio dei Cardinali sarà mantenuto durante la vita dell’attuale Pontefice; poi dovrà risiedere fuori del territorio dell’Ausonia al pari del nuovo Papa nel caso che volesse eleggerne uno.
Tutti gli ordini religiosi, mendicanti o no, saranno mantenuti, ma parte dei loro beni passerà allo Stato. I religiosi d’ambo i sessi potranno deporre l’abito entro un anno; in seguito non potrà farsi monaco chi non ha prestato per sette anni servizio alla patria e non abbia compiuti i quarantacinque anni.
Tutti i cittadini sono soldati dai diciassette ai sessantaquattro anni e fino ai quarantasette dovranno prestare servizio attivo nell’esercito. Tutte le fortezze interne che non servono alla difesa contro lo straniero saranno demolite. La repubblica avrà una marina fortissima, ma sarà sempre in pace con tutti e non intraprenderà mai guerre di conquista.
“I cittadini, senza alcun’altra considerazione che i loro talenti e la probità, poveri o ricchi, saranno idonei a pervenire a tutti gli impieghi. Tutti gl’impieghi saranno elettivi e temporanei. Tutte le elezioni saranno gestite dal popolo, direttamente o indirettamente”.

L’imposta sarà progressiva e conforme all’agiatezza dei cittadini, proprietari o industriali. La tassa sarà stabilita dai giurati e saggi uomini di ogni comune: il più povero pagherà un settimo delle sue rendite, il più ricco sei settimi. Il comune offrirà lavoro ai poveri abili e soccorrerà gli inabili. Tutti i titoli feudali e nobiliari saranno aboliti. La pena di morte sarà applicata soltanto ai rei di omicidio volontario. La bandiera della repubblica sarà il tricolore turchino, verde e giallo-oro.

Dopo il Congresso di Vienna e la seconda restaurazione, la Carboneria si propagò dall’Italia meridionale nelle altre regioni della penisola, specie nel Lazio, nell’Umbria, nelle Marche e nelle Romagne, dove la setta dei “Raggi“, che ora troviamo sotto il nome di “Centri“, le aveva preparato il terreno. Limitata fu invece la diffusione nel LombardoVeneto (eccetto il Polesine) e nel Piemonte, scarsissima nella Toscana, dove invece ebbe una discreta ripresa la Massoneria, mentre una vendita carbonara, istituita a Livorno nel 1818 e capeggiata da GIUSEPPE IZZO, ebbe vita difficile fino al 1820, anno in cui la Carboneria fece la comparsa in Firenze.
In Sicilia la Carboneria penetrò nel 1815, portatavi dal sacerdote calabrese LUIGI ODDO e più tardi, nel 1818, diffusa da altri, fra i quali il poeta pistoiese BARTOLOMEO SESTINI. Essa si propagò in parecchie città, a Trapani, a Girgenti, a Caltagirone, a Siracusa a Catania e specialmente a Messina, dove il colonnello COSTA, che comandava il reggimento “Principessa” formato tutto di carbonari, presiedeva una vendita ed era in relazione con le vendite della vicina Calabria.

Ma, come si è detto, le parti della penisola dove maggiormente era diffusa la Carboneria, erano la centrale e la meridionale. Qui, accanto alla Carboneria, troviamo un gran numero di sètte minori, di cui è difficilissimo ricostruire la storia, ma ne conosciamo i nomi. Nella sola Puglia vi erano, per citarne solo alcune, i LIBERI MESSAPI, i LIBERI DAUNI, gli SPARTANI DELLA PAUCEZIA, i PITAGORICI, i CAVALIERI DI TEBE, i NUOVI CASSI, i SEGUACI DI COCLITE, i PROSELITI DI CATONE, i VIRGINII RINATI, i FIGLI DI FOCIONE, i FIGLI DI BRUTO, i FIGLI DI VALERIO, i FIGLI DI SCEVOLA, i FIGLI DI REGOLO, i FIGLI DELLA PATRIA. Altri nomi, più tardi, si trovano di società segrete: gli AMICI DI NOLA, i BEATI PAOLI, i BERSAGLIERI, i DIFENSORI DELLA PATRIA, i DORMIENTI, gli EDENISTI, gli EGIZI, gli EREMITI, i FEDELI, i FIGLI DI MARTE, i FRATELLI ARTISTI, i FIGLI DI EPAMINONDA, gli ILLUMINATI, i LATINISTI, gli OPPRESSI NON VINTI, i PELLEGRINI BIANCHI, ecc.

Di fronte a tanti nomi lo storico rimane perplesso e non riesce a comprendere se si tratti di sette indipendenti con scopi simili a quella dei carbonari o di vendite carbonare vere e proprie o di sezioni che raccoglievano i membri della Carboneria insigniti di un certo grado, come i “Guelfi“.

Società segrete indipendenti dalla Carboneria pare certo che fossero quelle DEI PATRIOTI EUROPEI, dei FILADELFI e dei DECISI. In un rapporto del generale borbonico CHURCH si legge che la setta dei “Patrioti europei” fu costituita nella provincia di Lecce verso la fine del 1814 da un MAURO MANIERI che fu iniziato da uno straniero. “Se ne faceva l’arruolamento così: il proponente, ossia emissario, dava all’iniziato un biglietto scritto con un certo numero, e la persona iniziata non conosceva altri individui che quello da cui aveva ricevuto il biglietto e coloro cui egli stesso distribuiva gli altri, e sapeva solo che apparteneva alla grande Repubblica europea”

Le sezioni dei “Patrioti europei” si chiamavano campi e quelle dei “Filadelfi” invece “squadriglie” e, se dobbiamo credere al citato generale Church, i capi dei “Filadefi” erano “Patrioti europei” e la seconda organizzazione era discendente dalla prima. I “campi” e le “squadriglie” erano organizzati militarmente e i membri erano istruiti da ufficiali. “Il numero totale dei “Campi” nella provincia di Lecce, scrive il Church, “era 113”, e di Squadriglie infinitamente più: il Campo, inclusivo con le Squadriglie, consisteva almeno in una sezione di 200 a 300 uomini. Nelle grandi città e a Lecce, capoluogo di tutta l’organizzazione, il Campo consisteva in quattro sezioni di circa 200 uomini ciascheduna. E’ facile calcolare la forza totale dei Patrioti europei e Filadelfi nella provincia, e si è del parere che nei mesi di dicembre e di gennaio (1817-1818) poteva ascendere al numero di 30 o 40 mila nella sola provincia di Lecce. Ciò che rendeva formidabile questa massa di gente era l’infinito numero di fucili che si trovavano fra di loro, oltre carabine, pistole, bastoni armati di stili, ecc. Oltre di queste armi, ogni individuo con un ordine ricevuto doveva procurarsi un pugnale”.

La setta dei DECISI fu fondata nell’ottobre del 1817 dall’abate CIRO ANNICHIARICO di Grottaglie, che alcuni mesi dopo fu fucilato per ordine del generale RICCARDO CHURCH il quale scrive: “Gli iniziati in questa società furono i più insigni assassini della provincia, ma specialmente quei di Grottaglie, Francavilla e Martina, i quali furono riuniti in una setta, organizzati e patentati come Decisi; la loro assemblea o seduta si chiamava “Decisione“. L’aspirante doveva provare a aver commesso due omicidi di sua mano a sangue freddo”.

Il diploma di Deciso portava ai due angoli superiori due teschi, sormontati dalle parole “Tristezza, Morte”, e ai due angoli inferiori due tibie incrociate con le parole “Terrore, Lutto“. Due emblemi o sigilli stavano accanto al teschio e alle tibie degli angoli di destra. Nel superiore, tra una ghirlanda di alloro, era raffigurato uno scudo contenente un fascio littorio su un teschio, fiancheggiato da due scuri e con la verga centrale sormontata da un berretto frigio; nell’inferiore, circondato da due fronde d’alloro e dalla scritta “Segno del Tuonante Giove”, uno scudo, in cui da un ammasso di nubi piovevano saette sopra una corona reale, una imperiale e il triregno papale. L’intestazione era formata dalle iniziali L. DDTGIAFGCITDUG. TED, che significavano “La Decisione del tuonante Giove inspira a fare guerra contro i tiranni dell’umano genere. Terrore e decisione”. Il giuramento diceva: “Io, … giuro su gl’impenetrabili segreti delle Società Filantropiche di non rivelare a persona che a me non appartiene, i miei segreti, come non confessare anche ai nostri chi mi ha dato la luce, sottomettendomi, in casi di spergiuro, ed acconsentimento, che il mio corpo, se tal il ciel non voglia, sia fatto in pezzi e la carne sia il cibo degli avvoltoi. Giuro inoltre su questo ferro, vindice di torti di D., d’essere inesorabile nemico di tutti i F. D. che non sapranno mantenere i segreti, e di fare aspra vendetta con il consenso di tutti i F. D. ed il loro capo”.

LE SETTE AVVERSE ALLA CARBONERIA:
I CONCISTORIALI, I SANFEDISTI E I CALDERAI
I BORBONI E LE SETTE – ECCIDIO DEI VARDARELLI
GIUDIZIO DEL MAZZINI SULLA CARBONERIA

Sebbene la Carboneria e le sette affini agissero con la più gran segretezza pure le loro macchinazioni non sfuggivano all’occhio vigile dei governi, informati più o meno esattamente da traditori, da spie e da agenti segreti; e poiché la potenza di queste società costituiva un gravissimo pericolo per i principi, era naturale che questi per combatterle si servissero delle loro medesime armi e favorissero il sorgere di altre sette. Fra le sette reazionarie occupano il primo posto quelle dei CONCISTORIALI, dei SANFEDISTI e dei CALDERAI.
La setta dei Concistoriali nacque, a quanto pare, sul finire del 1815 nello Stato Pontificio e si diffuse nelle Romagne, nel Ducato di Modena, nella Toscana, nel Lombardo-Veneto e nel Piemonte. Suo scopo, era quello di combattere le sette liberali, ma accanto a questo aveva un altro fine: ridurre o abbattere la potenza che il trattato di Vienna aveva assicurato all’Austria nella penisola. Potentissima era la setta, la quale era divisa in “parrocchie, chiese, cappelle”; vi erano iscritti cardinali, vescovi, sacerdoti, nobili, forse il cardinal CONSALVI, che senza dubbio la proteggeva, forse anche i cardinali ALBANI, DELLA SOMAGLIA e SEVEROLI, e si sospettò che perfino PIO VII, il re di Napoli e VITTORIO EMANUELE I fossero a conoscenza dei disegni della Società. Dei principi chi certamente appartenne ai Concistoriali fu FRANCESCO IV d’ESTE e, se dobbiamo credere a quel che nel 1818 dichiarò al METTERNICH, s’iscrisse alla sètta per sorvegliarla, conoscerne i disegni e svelare poi tutto all’Austria. (e gli eventi che accaddero, più che presumere è una certezza – altri affermano che scoperto di appartenervi la tradì).

Molto più probabilmente Francesco IV entrò nelle file dei Concistoriali per scongiurare il pericolo d’essere cacciato dal ducato come sovrano nelle cui vene scorreva in parte sangue asburghese e per la smodata ambizione d’ingrandire i suoi domini. Difatti, a quel che pare, era lui l’unico principe straniero che, secondo i disegni della setta, accordavano di rimanere in Italia e a lui dovevano esser dati il Ducato di Parma e Piacenza, il Veneto con Bergamo e Brescia e il titolo regio; a Vittorio Emanuele I sarebbero state affidate Milano, parte della Lombardia, Lucca e la Lunigiana, al re di Napoli le Marche e al Pontefice la Toscana.

La setta dei SANFEDISTI sorse per impulso del cardinale RIVAROLA nel 1818 e si sviluppò specialmente nelle Marche e nelle Romagne, dove la sua azione feroce e sanguinaria infuriò fino al 1850. Per dare un’idea dell’efferatezza di questa società segreta basti dire ch’essa si prefiggeva di “uccidere, gli affiliati o soltanto sospetti di appartenere all’infame sètta dei liberali, non avendo riguardo alla loro condizione, origine, patria, fortuna o aderenza, e di non avere pietà né dei pianti de’ bambini né di vecchi; di far versare fino all’ultima goccia di sangue gli infami liberali, senza riguardo né a sesso, né a grado”.

Non meno famosa e sanguinaria di quella dei Sanfedisti fu la setta dei CALDERAI, divenuta, nel regno di Napoli, per volere di ANTONIO CAPECE MINUTOLO, principe di Canosa, strumento di governo.
Il principe di Canosa, fornito di grande ingegno e di non poca erudizione, aveva cominciato a far parlare di sé nel 1799, quando, fuggito il re di Napoli all’avanzarsi del generale Championnet, era stato eletto deputato del Buon Governo, era andato a proporre con il MOLITERNO una tregua al generalissimo francese ed aveva inoltre proposto che s’istituisse un governo aristocratico. Riusciti vittoriosi i repubblicani, dopo la prima restaurazione era stato condannato a cinque anni di reclusione dai Borbonici e chiuso in prigione, ma, amnistiato dopo la pace di Firenze, era ritornato a Napoli. Nuovamente costretto ad abbandonare la capitale, aveva seguito in Sicilia Ferdinando ed era ritornato nelle grazie della regina Maria Carolina. Mandato a governare le isole di Ponza e di Ventotene, il Canosa aveva di là ordito e diretto numerose trame prima contro il re Giuseppe Bonaparte poi contro Gioacchino Murat, eccitando gli elementi borbonici alla rivolta e promuovendo il brigantaggio. Ritornato a Napoli dopo la seconda restaurazione aveva dissentito dai metodi del cav. MEDICI, ministro della polizia, il quale si era mostrato molto tollerante con i Carbonari, anzi li aveva favoriti nella speranza di farne una forza organizzata al servizio dello Stato. Il Canosa aveva senza dubbio influito sulla decisione presa dal governo, di osteggiare le sette segrete del regno, sia per le loro idealità liberali sia perché dentro vi erano entrati gli elementi peggiori della società.

Il 20 gennaio del 1816 fu affidata al principe di Canosa la direzione della polizia del regno, carica che ricoprì per sei mesi. Per combattere i Carbonari si servì della società dei Calderai “…uomini – dice il Colletta – malvagi, che provenivano dalle prigioni aperte nei tumulti del ’99, dall’anarchia di quell’anno, dal brigantaggio del decennio e dalle galere di Ponza e di Pantelleria”. Il loro nome si vuole derivato dall’ingresso nelle file della setta di parecchi emigrati napoletani che avevano fatto parte delle maestranze dei calderai di Palermo ed avevano dovuto lasciare la Sicilia per ordine dell’inglese lord Bentinck; ma è più probabile che derivi dal loro simbolo, il quale era rappresentato da una caldaia sotto di cui si bruciava e si consumava il carbone. La setta aveva anche il titolo di “Riforma della Carboneria” perché, quanto pare, era stata costituita da persone sospette ed equivoche espulse dalle file dei Carbonari al tempo del re Gioacchino, era divisa in “curie” e comprendeva tre gradi: “Amico cavaliere, Principe, Gran principe“. All’iniziato si faceva un piccolo salasso tra il polso e la mano sinistra; il giuramento era fatto davanti un Crocifisso e brandendo un pugnale. Nel diploma di calderaio vi erano raffigurati una donna con una fiaccola accesa rappresentante l’amicizia, una donna che abbracciava un albero rappresentante la vita, e uno scheletro, simbolo della morte.

Gli affiliati avevano un gergo speciale e segni convenzionali di riconoscimento toccarsi la barba con la destra e quindi il labbro superiore; metter l’indice della destra dietro l’orecchio; unire il pollice e il medio sotto le narici alzando l’indice sul naso; premere due volte con il piede destro la punta del sinistro dell’amico, quindi, ritirato il piede, sollevare un po’ da terra il tallone; strisciar la mano destra sulla mascella e sull’occhio; prender tabacco con il pollice e il medio tenendo alzato l’indice. I calderai si salutavano incrociando le mani sul petto e portandole quindi al ventre.

In poco tempo la setta dei Calderai divenne fortissima, protetta – qualcuno afferma – anche dal principe di Moliterno e dal duca di Calabria, e commise tante violenze che gli ambasciatori d’Austria e di Russia protestarono presso la Corte ed ottennero che il 14 giugno il principe di Canosa fosse licenziato. L’8 agosto il governo emanava un decreto con il quale era rimessa in vigore la legge del Murat del 4 aprile 1814 contro le sètte. E affermava: “Le associazioni segrete che costituiscono qualsivoglia specie di setta, qualunque sia la loro denominazione, l’oggetto e il numero dei loro componenti, sono vietate nei nostri reali domini, e dichiarate manifesti attentati alla legge. I trasgressori al divieto contenuto nell’articolo precedente saranno puniti con la pena del bando dai nostri reali domini, da cinque a venti anni. Contro i capi direttori ed amministratori della setta sarà applicato il “maximum” di questa pena”. Per i favoreggiatori si stabiliva una multa da dieci a cinquecento ducati; per chi dava ospitalità nella propria casa a riunioni settarie, il bando da tre a dieci anni; a chi distribuiva emblemi, carte, libri, distintivi, cinque anni di prigione; un anno a chi le stesse cose gli venivano trovare in casa.

Dopo il licenziamento del principe di Canosa e la pubblicazione del decreto citato, la potenza dei Calderai scomparve, ma la setta continuò a vivere sebbene molto ridotta di numero. Non pochi degli affiliati tornarono alla macchia, altri si dispersero nelle altre società segrete e perfino nella Carboneria, la quale nel 1817 accolse nelle sue file l’intera banda di GAETANO VARDARELLI.
Aveva militato costui nel 1799 sotto il cardinale FABRIZIO RUFO; passato nell’esercito del Murat, aveva disertato ed era fuggito in Sicilia; avendo quivi commesso alcuni delitti, era ritornato nel Napoletano dandosi al brigantaggio; perseguitato dal governo murattiano aveva cercato di nuovo riparo in Sicilia e, ottenuto perdono, era, stato ammesso nell’esercito borbonico raggiungendo il grado di sergente; ritornato in Napoli nel 1815, aveva lasciato l’esercito e si era dato a far la vita del brigante con due fratelli e oltre quaranta compagni. La Capitanata e il Molise erano il teatro delle gesta dei Vardarelli, che si atteggiavano a protettori dei deboli e dei poveri contro i ricchi e i potenti. La banda, scontratasi più volte contro distaccamenti austriaci, li aveva sconfitti e per queste sue imprese era stata accolta in una vendita carbonara, la quale però, dietro ordine delle alte gerarchie, aveva dovuto poco dopo cancellare dai ruoli o, come in gergo si diceva, annerire i nomi di quei briganti.

Il governo napoletano desiderava che l’occupazione austriaca cessasse e siccome voleva mostrare che il paese era tranquillo ed era perciò inutile la presenza dei dodicimila soldati del Nugent, decise di venire a patti con Gaetano Vardarelli. L’accordo ebbe luogo il 6 agosto del 1817; i briganti furono amnistiati e passarono al servizio dello Stato, il quale assumeva la banda come una squadra di polizia; al Vardarelli fu assegnato lo stipendio di colonnello.
I banditi giurarono fedeltà al re e cominciarono a liberare la Capitanata dai delinquenti; invece il governo, rimproverato di esser venuto a patti con dei briganti, pensò di sbarazzarsene venendo meno alla fede data. Si incaricò dell’affare il generale AMATO. Un giorno, mentre la banda riposava nella piazza del villaggio di Ururi, da alcune finestre partirono alcune fucilate che uccisero i tre fratelli Vardarelli e sei dei più temuti compagni.
Gli altri però riuscirono a fuggire e le autorità per impadronirsene, ricorsero ad un indegno stratagemma. Finsero di metter sotto processo coloro che avevano fatto fuoco dalle finestre e fecero sapere ai trentanove superstiti della banda che potevano entrare senza timore a Foggia, per eleggersi nuovi capi alla presenza del generale Amato.

Otto briganti non vollero aderire all’invito, gli altri trentuno invece entrarono a Foggia (29 aprile 1818) al grido di “Viva il Re !” e si schierarono in una piazza, dove, ad un tratto, furono circondati dalle truppe regolari che intimarono loro la resa. Due riuscirono a fuggire, nove furono uccisi, venti si rifugiarono in una cantina vicina. Si tentò allora di stanarli accendendo un gran fuoco vicino la porta: uno perì tra le fiamme, due si fecero saltare le cervella, diciassette si arresero e alcuni giorni dopo furono condannati a morte e giustiziati. Gli ultimi dieci furono a poco a poco catturati e uccisi.

Così fu tolta di mezzo la feroce banda; ma il governo ebbe il biasimo degli onesti e la memoria del generale AMATO si coprì di una macchia che nulla non potrà mai cancellare. GUGLIELMO PEPE lasciò scritto di lui: “Il Generale Amato, che aveva fama di uomo onesto, in quell’occasione fu reo di finzione e di viltà per debolezza, infatti, ottenne poi grandi lodi dal governo; e io mi ricordo che al racconto che mi fece di quelle sue indegnità compiute, la prima idea che mi s’affacciò nell’animo fu di lacerare la mia uniforme e di gettarla dalla finestra”.

Mentre il generale Amato ripuliva di briganti il Tavoliere e il Molise, il generale RICCARDO CHURCH, irlandese al servizio borbonico, “ripuliva” la Terra di Bari e il Leccese. Ai più noti capibanda, che cercavano di innescare i loro delitti con il programma umanitario e liberaleggiante della setta dei Decisi, il Church diede una caccia spietata e caddero tutti sotto i suoi colpi; come al paese di Occhio di Lupo, sotto i suoi colpi caddero il Capocelli, il Perrone e l’abate Ciro Annichiarico, il quale, prima di essere giustiziato, si confessò reo di settanta omicidi.
Se i banditi furono decimati e tremendi colpi ebbero i Calderari e i Decisi, nessun danno ricevettero i Carbonari, che anzi nel 1819, dopo la partenza delle truppe austriache, videro le loro file ingrossate dalle milizie provinciali, le quali per opera di GUGLIEMO PEPE si iscrissero alla Carboneria, portando nella setta il prezioso contributo di una massa imponente di uomini armati e inquadrati.

Queste le società segrete degli albori del riscatto nazionale italiano. Trattati come gregge dal Congresso di Vienna dopo tante vicende che avevano fatto nascere nel loro animo il desiderio dell’indipendenza e della libertà e il sentimento della dignità nazionale, gli Italiani, non potendo liberarsi dal giogo con una generale insurrezione, non consentita da innumerevoli ragioni, opposero ai tiranni un’organizzazione segreta, che, sebbene frazionata in tante sette, seppe far tremare i principi liberticidi e andò a riempire le prime pagine di quella che fu poi detta “storia del nostro Risorgimento”.

Fra tutte le società il primo posto spetta – lo abbiamo detto – alla Carboneria. Fu scuola di sacrificio, ritemprò il carattere degli Italiani, tenne desto negli animi il desiderio della libertà, alimentò l’odio contro la tirannide e lo straniero e cominciò ad affratellare con un legame spirituale gli abitanti delle varie regioni della penisola, gettando, senza saperlo e senza volerlo, la prima pietra dell’edificio dell’unità.
Della Carboneria, il MAZZINI che vi appartenne diede più tardi il seguente giudizio:

” Il Carbonarismo potenza anonima, arcana, indefinita, preparatrice ma non rivelatrice, che non mancò se non dell’unità di fede politica necessaria al trionfo, una potenza distruggitrice dei mille pregiudizi e delle mille superstizioni che accecavano in Italia le moltitudini, ….potenza, che, incerta come un popolo nell’epoca prima dei suoi destini, stringente in una comunicazione d’odio più che d’amore quanti diversi elementi uscivano dalle particolari tendenze, perché ostili agli oppressori stranieri, cominciò tentennando fra il Papa e l’Impero, ma sentì, non definì la libertà e ne sollevò forse talora il velo, e dietro a quel velo intravide il popolo, lo lasciò ricadere come il giovane poeta di Schiller, senza osare di mettersi a contemplarlo. Il Carbonarismo iniziò solo, ma non compì la rigenerazione italiana”.

Ma la storia di questa “rigenerazione” è ancora lunga.

Questi sopra sommariamente sono solo i primi accenni alle sette, i loro primi seguaci, i loro persecutori, ma che nel lungo percorso di questa “rigenerazione” come dice il Mazzini,
ritroveremo nelle pagine degli eventi nei prossimi anni.
Ora dobbiamo ritornare al 1815 iniziando a parlare
primo di ogni altro – nella Restaurazione- dello Stato Pontificio…

LA MASSONERIA IN ITALIA – ORIGINI DELLA CARBONERIA I MOTI CARBONARI DEL 1813 E DEL 1814 – ORGANIZZAZIONE E DIFFUSIONE DELLA CARBONERIA – LE SETTE MINORIultima modifica: 2009-04-09T19:23:00+02:00da giovannisantoro
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2 pensieri su “LA MASSONERIA IN ITALIA – ORIGINI DELLA CARBONERIA I MOTI CARBONARI DEL 1813 E DEL 1814 – ORGANIZZAZIONE E DIFFUSIONE DELLA CARBONERIA – LE SETTE MINORI

  1. GRAZIE PER LE NOTIZIE STORICHE VERAMENTE INTERESSANTI PER UNO COME ME CHE SCRIVE ROMANZI AMBIENTATI IN UNA EPOCA CHE HA VISTO FIORIRE MOLTE SOCIETà PIù O MENO SEGRETE (XVIII-XIX SECOLO).
    CORDIALI SALUTI
    MARCELLO BORGESE

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