Guénon, Gurdjieff, Crowley e Castaneda

In questo articolo intendo accennare brevemente alla vita e alle opere di quelli che a mio parere furono i maggiori esoteristi del ventesimo secolo. Dissero cose molto diverse, spesso in apparenza opposte, e più di una volta tramite la parola scritta si combatterono a vicenda; ma a chi guarda con rimpianto e malinconia le loro figure di giganti perdersi in lontananza nel fluire del tempo che tutto cancella, ben poca cosa appare oggi ciò che in vita li divise a confronto del tributo inestinguibile che tutti e quattro seppero fornire alla conoscenza esoterica.
Nel sito Lucidzahor avevo dedicato a ciascuno di loro un articolo, ma ad essere sincero non fui molto soddisfatto dei risultati: si tratta di personalità tanto complesse e polivalenti che ogni tentativo di commentare la loro opera risulta infine, a confronto dell’opera stessa, ben misera cosa.
E tuttavia, l’enorme traffico che consacrò quelle pagine – molto al di là di quanto effettivamente meritassero – mi confermò una volta di più l’inesausto interesse che verte intorno a quei nomi. Mi giunse anche un vero tsunami di email, in maggioranza assai critiche, a conferma che ciascuno dei quattro – volontariamente o no – è riuscito a crearsi una corte di seguaci tanto fanatici e esclusivisti che per loro, credo, il semplice fatto che in questo articolo io abbia osato accostare il nome del loro idolo a quelli degli altri tre suonerà come un insulto.
Invece, la cosa che non dovreste proprio fare leggendo questo articolo è pensare “io preferisco questo” o “quest’altro non mi va” e così via. Non stiamo giocando con le figurine dei calciatori: stiamo parlando di gente che è venuta per cambiare la faccia della Terra, e qualunque giudizio superficiale nei loro confronti preclude la possibilità di valutare la loro opera con il distacco e l’obbiettività che sono necessari per coglierne fino in fondo le implicazioni.

 

Réné GuénonBisogna per forza cominciare da Réné Guénon, per quanto egli abbia sempre ammonito i lettori di non fare caso alla sua persona, che a suo dire non pretendeva di esprimere nessuna idea originale: la sola funzione che egli riconosceva a sé stesso era quella di fornire un’umile voce alla Tradizione.
Nato a Blois nel 1886 da una famiglia di viticultori, il suo aspetto fisico rispecchiava pienamente l’originalità del personaggio: era alto quasi due metri, magro ma atletico, con un gran faccione oblungo da cui occhieggiava uno sguardo gentile.
Avendo dimostrato un notevole talento per la matematica, si trasferì a Parigi per frequentare l’Università e qui subito entrò in contatto con il fervido milieu occultista della capitale, che da tempo si era lasciato alle spalle l’atmosfera pionieristica dei giorni di Eliphas Levi e stentava non poco a raccapezzarsi nel gran numero di nuove scoperte nel campo delle discipline orientali che affluivano da ogni parte; inoltre, l’età dei nazionalismi riverberava sul mondo occultista inquietanti interrogativi ideologici, in aperto contrasto con le tendenze socialiste dei padri fondatori.
Dopo esperienze piuttosto scapestrate nel campo dello spiritismo e brevi militanze nel Martinismo e in Massoneria, Guénon si consacrò anima e corpo agli studi sull’Induismo, e le sue prime opere – caratterizzate da uno spirito più “libertario” rispetto alle seguenti – svelarono un pensatore di livello incomparabilmente superiore a quello di tutti gli occultisti francesi che lo avevano preceduto.
Difficile trarre una sintesi dei temi fondamentali della sua opera: innanzitutto il connubio tra metafisica e matematica, che gli consente – nelle parole di Massimo Scaligero – distinzioni concettuali singolarmente precise. Poi l’adesione incondizionata alla dottrina indù dei cicli cosmici, che lo porta ad adottare il concetto di Tradizione come faro assoluto: tutto ciò che è del passato quanto più è del passato è buono, tutto ciò che è del futuro quanto più è del futuro è cattivo.
A questi temi possiamo aggiungere la sconfinata erudizione in materia di simbolismo, della quale oggi gli è grata soprattutto la Massoneria, cui l’apporto di Guénon – per quanto ne abbia trattato in una parte relativamente piccola dei suoi scritti – sortì l’effetto di innescare un poderoso rinascimento degli studi massonici i cui effetti sono oggi ben lungi dall’essere esauriti.
Secondo il Guénon di questo primo periodo, nessuna forma di esoterismo può essere praticata con successo dagli Occidentali se non è preceduta dall’adesione a una “religione tradizionale”: sono validi a tale scopo soltanto il Cristianesimo Orientale e l’Islam, perché Cattolicesimo ed Ebraismo – per quanto “regolari” nella trasmissione – hanno visto spezzarsi nel corso della storia il legame che li ricollegava alle rispettive vie iniziatiche.
Di conseguenza, per l’Occidentale che voglia dedicarsi all’esoterismo le scelte sono due: o farsi Ortodosso per praticare poi l’Esicasmo, o farsi Mussulmano per abbracciare il Sufismo. Per chi non intenda abbandonare il Cattolicesimo, una terza possibilità (sebbene in qualche modo imperfetta) si configura nell’adesione alla Massoneria.
Con l’adesione all’Islam si entra in un nuovo capitolo della vita intellettuale di Guénon, che va a vivere al Cairo e consegue il grado di sheikh, maestro spirituale. Fonda una sua tariqa, alla quale vanno a farsi iniziare soprattutto Occidentali, ma anche giovani intellettuali arabi occidentalizzati. Muore nel 1951: come per tutti i maestri sufi, il suo sepolcro è meta di devoti pellegrinaggi.
Negli scritti di questo secondo periodo, pare a tratti che avesse mutato opinione riguardo alla possibilità di conseguire la realizzazione iniziatica per mezzo delle vie cristiane. Non tutti i suoi esegeti sono d’accordo con questa tesi, e i guenoniani si dividono su questo punto in due famiglie, delle quali quella islamica è la più numerosa.
E’ ovvio rilevare che la maggior parte dei guenoniani, in virtù del loro tradizionalismo, aderisce più o meno apertamente a ideologie politiche di destra. A costoro ho spesso domandato, senza mai ricevere risposte soddisfacenti, perché il marxismo –  che agli effetti della dottrina dei cicli cosmici rappresenta il punto più estremo della solidificazione del mondo – venga da loro invariabilmente stroncato come “aberrazione moderna”, in luogo del ruolo (che Guénon gli aveva implicitamente riconosciuto) di estremo baluardo contro le fenditure della Grande Muraglia; e in base a che cosa essi ritengano che l’allinearsi su posizioni conservatrici possa rendere giustizia al messaggio che Guénon ci ha lasciato, visto che ciò equivale ad attribuire al capitalismo – che le fenditure della Grande Muraglia le produce e poi le rivende – l’improbabile ruolo di difensore della Tradizione.
E’ vero in effetti che le idee del giovane Guénon – spirito ironico e libero – attingevano al grande fiume di quella destra francese “storica” il cui tramonto politico, anche se nessuno ai suoi tempi lo immaginava, era già imminente: precipitata nella trappola del collaborazionismo, non sarebbe sopravvissuta alla seconda guerra mondiale.
Era questa però una destra contrassegnata da uno spessore culturale oggi impensabile, che si era fatta le ossa nelle polemiche dell’Età dei Lumi e contava tra i suoi numi tutelari tanto De Maistre quanto Lafayette, dividendosi soprattutto sul problema del rapporto tra Chiesa e Stato; mentre dalla nuova destra apparsa sulla scena nel primo dopoguerra Guénon prese subito le distanze e non volle mai avervi nulla a che fare, rimarcando sovente come il concetto di Tradizione di cui era l’araldo non fosse suscettibile di nessuna applicazione politica.
Suona ancora più riduttivo definire il pensiero guenoniano “di destra” se si pensa ad esempio alla vibrante polemica anti-coloniale che lo contrassegnò fin dai primordi; in tempi abbastanza recenti, notevole è stata la sua influenza sui movimenti di liberazione dei popoli del Terzo Mondo, e un argomento imbarazzante – posti dinnanzi al quale, i guenoniani islamici si trincerano dietro un muro di mutismo – è il ruolo non secondario che ebbe nella genesi dell’integralismo mussulmano.
Comunque sia, più che riguardo alle interpretazioni politiche, negli ambienti esoterici le maggiori controversie sul messaggio di Guénon vertono sul problema che un’interpretazione letterale della sua opera preclude di fatto ogni forma di operatività.
Infatti, l’accettazione letterale della dottrina indù dei cicli cosmici implica la convinzione che il mondo stia oggi vivendo un tale periodo di decadenza, per cui qualsiasi forma di lavoro sul piano psichico comporta il rischio di cadere preda delle forze infernali. Questo taglia fuori tutte le forme di attività esoterica salvo quelle in uso presso le tradizioni “autorizzate” da Guénon: le quali però, oltre a pretendere dal discepolo una cieca fede religiosa e imporgli un clima settario che lo pone in conflitto con l’ambiente sociale, fondano la loro azione soprattutto su esercizi di preghiera che ben poco hanno a che vedere con la vera tradizione dell’esoterismo.

 

Da questo punto di vista, l’opposto di Guénon era Gurdjieff, per quanto le similitudini che legano tra loro i due personaggi siano tante: entrambi avevano prelevato la linfa del loro insegnamento dal Sufismo, entrambi vennero consegnati dall’intellighenzia esoterica tra le due guerre allo scomodo ruolo di araldi della tradizione. Ma Guénon era un teorico che teneva lontani i suoi discepoli da ogni forma di operatività, Gurdjieff un operativo che metteva in guardia contro ogni forma di teoria.
Tra loro non si potevano vedere. “Evitateli come la peste” ebbe a dire Guénon dei gurdjieffiani; ma questo non scoraggiò parecchi giovani entusiasti (e non stupidi, se è vero che tra loro c’era Louis Pauwels) dal credere per un po’ che la rinascita della Tradizione passasse per il crogiolo della fusione dei loro insegnamenti. Fossero stati più esperti si sarebbero resi conto che, se nel caso di Guénon il titolo di paladino della Tradizione era ben meritato, nel caso di Gurdjieff erano caduti nel classico abbaglio di chi confonde la realtà con i suoi desideri.

 

Georges Ivanovitch GurdjieffGeorges Ivanovitch Gurdjieff era nato il 1° gennaio 1877 a Alexandropol, in Georgia. Suo padre, un pastore seminomade di origine greca, era cantastorie e poeta; conosceva a memoria centinaia di racconti, canzoni e antiche leggende che trasmise al figlio fin dalla più tenera età, insieme alla conoscenza di una mezza dozzina di lingue mediorientali.
Dopo una breve esperienza nel seminario arcivescovile di Kars, l’indole inquieta e la passione per gli studi esoterici spinsero il giovane a entrare in rapporto con almeno tre importanti turuq sufiche: Mevleviya, Naqshbandiya e Qadiriya. Insieme ad altri Qadiri intraprese una serie di viaggi che lo posero in contatto con le realtà più disparate, dall’Essenismo allo sciamanesimo dell’Asia Centrale. Di questa felice stagione doveva lasciare testimonianza nel più bello dei suoi libri, Incontri con uomini straordinari.
Nel 1915 a Mosca avvenne l’incontro fatale con il giornalista Piotr Ouspensky (1878-1962), destinato a trasfondere l’insegnamento di Gurdjieff (fondato originariamente soprattutto sul controllo dei movimenti e sulla danza) in due libri memorabili: Frammenti di un insegnamento sconosciuto e La quarta via. Insieme, i due amici fondarono scuole un po’ ovunque in Russia, e dopo essersi trasferiti in Occidente a Londra e a Parigi.
La scuola di Parigi – il Prieuré – ebbe un successo che travalicò di gran lunga il piccolo universo degli appassionati di esoterismo, e attirò intellettuali di tutto il mondo – da Frank Lloyd Wright a Aldous Huxley – fino ad essere funestata dalla tragica fine della scrittrice neozelandese Katherine Mansfield, morta a causa – si disse – della massacrante disciplina cui Gurdjieff aveva sottoposto la sua fragile complessione, già minata dalla tubercolosi.
Questo scandalo segnò la fine di Gurdjieff come fenomeno alla moda, ma non delle sue “scuole”, che sono migliaia ancora oggi. Purtroppo, il proselitismo gurdjieffiano – affidato soprattutto all’opera di pie persone come Rodney Collin – risente non poco dell’errore che ho segnalato a proposito del gruppo di Pauwels: l’illusione che Gurdjieff sia stato un grande tradizionalista, anziché quel brillante e allegro smantellatore della tradizione che fu in realtà.
Mi è capitato di impegnare con amici appassionati di Gurdjieff lunghe discussioni per far loro notare quanto sia assurda la concezione di Collin, che identifica il concetto gurdjieffiano di “emozione positiva” con l’emozione religiosa: non potrei davvero immaginare peggiore insulto alla memoria di un uomo che definiva la quarta via “un cammino contro la Natura e contro Dio” e rammentava fermamente ai suoi discepoli di non credere a nulla.
Ma al gurdjieffiano-tipo, i problemi teorici non interessano molto. Il semplice segreto che egli ha scoperto nell’opera di Gurdjieff è come trasformare i piccoli eventi della vita di tutti i giorni in lavoro interiore: ben poco, se vogliamo, dal punto di vista aridamente “culturale”, ma pur sempre abbastanza per diventare la “grande opera” di una vita. Chi può godere di un simile dono, non dà molta importanza alle discussioni filosofiche: è troppo impegnato a lavorare sulle sue ottave.
Questo tipo di approccio – indubbiamente ortodosso, ma riduttivo – ha contribuito non poco a rimuovere un tema importante che ai giorni di Gurdjieff  fu oggetto di innumerevoli dibattiti e polemiche, ma che nel clima culturale di oggi tutti sono ben lieti di cancellare: ovvero che il suo insegnamento può essere considerato oggettivamente marxista.
Per la prima volta nella storia dell’esoterismo, la sua tecnica del ricordare sé stessi  – che ricava le energie necessarie per forgiare l’io reale dell’uomo dal perfezionamento del suo intercorso con il mondo esterno – non soltanto rende superfluo qualsivoglia ricorso ad angeli e dei, ma fa assurgere il rapporto sociale a unico strumento della realizzazione iniziatica.
Così insegnando, Gurdjieff si colloca ben al di là del famoso rovesciamento feuerbachiano tra concreto e astratto, e solamente un piccolo passo lo separa dall’esplicita identificazione tra coscienza umana e coscienza collettiva.
A mio giudizio, non poche allusioni “tra le righe” (riscontrabili soprattutto nel quinto capitolo de La quarta via) suggeriscono chiaramente che la tecnica del ricordare sé stessi sia stata formulata in quei termini in previsione di una esplicita adesione al marxismo: una possibilità che Gurdjieff accantonò soltanto dopo la fuga in Occidente, quando ebbe sperimentato l’avversione e l’ignoranza nei confronti del pensiero marxista che allignavano in seno all’ambiente esoterico occidentale.
Ignoranza che lui di certo non aveva. I gurdjieffiani religiosi citano volentieri i suoi anni giovanili da seminarista per dimostrare quanto fosse pio, ma forse non hanno mai letto le pagine scritte da Robert Conquest (biografo di Stalin) sul clima imperante nei seminari georgiani di allora:

 

Da tempo gli studenti manifestavano insofferenza nei confronti delle autorità. Nel 1885, quando il rettore russo Cudeckij fece un’osservazione offensiva sulla Georgia, lo studente Sil’vestr Dzibladze lo schiaffeggiò (…). Nel giugno 1886 il rettore cadde ucciso sotto i colpi da arma da fuoco di uno studente da poco espulso, che venne giustiziato (…). A quanto pare, nel 1890 ci fu una specie di sciopero, e nel 1893 (…) gli studenti scesero di nuovo in sciopero. Ne furono espulsi oltre ottanta (…). In Georgia, l’iniziatore del movimento marxista era stato Noe Zordanija quand’era studente in seminario (…); soltanto cinquanta studenti, sui trecento iscrittisi prima del 1900, portarono a termine il corso di studi…

 

Ne parleremo un’altra volta. Il legame tra coscienza collettiva e ricordare sé stessi; la storia della “scuola” aperta da Gurdjieff in Unione Sovietica con l’autorizzazione del Partito; la leggenda dei suoi incontri con Stalin – cortina fumogena sapientemente creata ad arte su misteri ben più grandi della Seconda Guerra Mondiale – sono temi più che bastanti per un corposo articolo che un giorno o l’altro mi piacerebbe scrivere.

Mi ha trattenuto finora il timore che spostare il dibattito sul piano storico possa valere a complicarlo piuttosto che a chiarirlo; mentre sul piano filosofico sarebbe facile far chiarezza sui legami tra il pensiero di Gurdjieff e il marxismo, se solo qualche filosofo prendesse sul serio l’argomento.
Solo una cosa vorrei aggiungere: mi capita spesso di essere criticato dai miei amici esoteristi “tradizionali” per la mia tendenza a trattare in modo intrecciato di esoterismo e politica. Ma forse non si rendono conto di quanto spesso la medesima cosa sia stata fatta, in passato, per trasformare (purtroppo con successo) l’esoterismo nel vettore privilegiato di un messaggio politico reazionario.
Io, poi, parlo apertamente: invece chi mi ha preceduto non aveva scrupoli e operò soprattutto a livello subliminale, pur essendo ben consapevole che la sottile ideologizzazione dell’esoterismo ne avrebbe inevitabilmente limitato le potenzialità operative, con grave danno di chiunque aspiri ad impararlo per migliorare sé stesso e per il bene dell’umanità.

 

Come Gurdjieff, anche un altro grande esoterista del ventesimo secolo incentrò il suo lavoro sulla sovrabbondanza dell’attività mentale “meccanica”, croce e delizia della civiltà occidentale: fonte primaria ad un tempo tanto del nostro sbalorditivo “sviluppo” quanto della smarrita consapevolezza di sé dell’uomo moderno.

L’approccio da lui riservato al problema era però diametralmente opposto. Il suo sistema, anziché uccidere l’immaginazione, puntava su di essa, conducendola a fissarsi su obbiettivi che le fossero graditi e a trasformarli gradatamente in paesaggi mentali multicolori. Da un giorno all’altro, da un esercizio all’altro le visioni acquistavano forza e vita propria, fin quando magicamente il discepolo
non si ritrovava ad essere egli stesso un elemento dell’universo da lui immaginato.
Era necessaria senza dubbio una buona dose di pazzia per assaltare la roccaforte dell’inconscio in modo tanto diretto, senza nessuna precauzione tesa a scongiurare il risveglio dei suoi demoni; ancora di più se pensiamo che l’esoterista occidentale medio non è in nessun modo attrezzato per questa prova, dopo molti secoli in cui la progressiva razionalizzazione dell’esoterismo ha favorito l’affermarsi di tecniche operative ben più modeste tanto riguardo agli obbiettivi quanto ai risultati.
Chi se ne è reso conto, ha scagliato su Aleister Crowley l’accusa di aver cospirato per dissolvere le strutture della civiltà. Marshall McLuhan avrebbe potuto definirlo un alfiere del neotribalismo, e Guénon lo avrebbe accusato (come i suoi discepoli non mancarono di fare) di aver scientemente contribuito, per mezzo del suo insegnamento, a spalancare le fenditure della Grande Muraglia.
In verità, il giudizio su Crowley è strettamente legato a quello che ci immaginiamo debba essere un maestro. Se pensiamo con Guénon che debba essere un frenatore incaricato da Dio di invertire il corso della storia, è doveroso ammettere che Crowley fu tutto il contrario; ma se crediamo che a un maestro debba essere riconosciuto il diritto di incarnare lo spirito del tempo per regolare su di esso il suo insegnamento, allora nessuno fu mai più maestro di lui.
Tutto ciò che Gurdjieff era venuto a insegnare all’uomo moderno – imprigionato e compresso dalla solidificazione del mondo nella corazza della sua razionalità –  venne da Crowley riadattato alla natura dell’uomo postmoderno, coi suoi vizi, i suoi sogni e la sua debolezza davanti alla realtà.
Potrà forse sembrare stupido, ma ho sempre trovato sconvolgente il dettaglio – rivelatore ai miei occhi di una sorta di legame edipico – che nel corso di un viaggio a Parigi Crowley sia andato al Prieurè per conoscere Gurdjieff, e che Gurdjieff si sia rifiutato di riceverlo.
Nelle brevi note che seguono non intendo accennare tanto alle sue opere quanto alla sua vita, lo studio della quale mi ha sempre fatto uno strano effetto. Ho sempre visto nelle sue tormentate vicende qualcosa di “cristico”: una sorta di “vita esemplare”, tracciata dalla mano di un destino beffardo, per rappresentare con l’ausilio di un’allegoria vivente il vagabondaggio senza meta di un’umanità senza più radici.

E sono giunto anche a una conclusione. Non so se Guénon, Gurdjieff e Castaneda erano davvero ciò che pretendevano di essere; probabilmente sì. Ma su Aleister Crowley sono pronto a mettere la mano sul fuoco: egli aveva veramente realizzato in sé la Grande Opera, come affermava, e come nella storia soltanto pochi uomini hanno fatto.

 

Aleister CrowleyAleister Crowley era nato a Lermington (Warmickshire) il 12 ottobre 1875, da una famiglia di agiati industriali della birra. Fin dall’infanzia, l’irrefrenabile esuberanza fisica e la fertile immaginazione lo posero in contrasto con la fede religiosa della famiglia; da questo prese le mosse la sua violenta avversione per il Cristianesimo e per qualsiasi forma di repressione sessuale.
Studiò a Cambridge, mettendosi in luce come poeta e coltivando la passione per la montagna. Era un ottimo scalatore, e i suoi sfortunati attacchi al K2 e al Kanchenjunga sono annoverati tra le più rilevanti imprese dei primordi dell’alpinismo: mi è capitato di trovare libri di alpinismo che parlano a lungo di lui, spesso senza nemmeno accennare che fosse un esoterista.
All’età di 23 anni si affiliò alla Golden Dawn, nelle cui file conobbe un giovane bizzarro che era anche il più famoso maestro occidentale di yoga: Alan Bennett (Bhikku Ananda Metteya, destinato a morire in odore di santità buddista nel monastero di Lamma Sayadaw Kyoung, ad Akyab, Sri Lanka). Crowley si trasferì nel suo appartamento e apprese da lui, oltre a tutti i misteri dello yoga, anche il vizio dell’eroina, che non doveva più abbandonarlo sino alla fine dei suoi giorni.
Due anni dopo abbandonò la casa di Bennett per trasferirsi nel maniero di Boleskine, in Scozia (che negli anni settanta-ottanta fu di proprietà del Led Zeppelin Jimmy Page, crowleyano entusiasta; sulle montagne di fronte a Boleskine i Led Zeppelin girarono una parte del film The song remains the same (1) ) dove realizzò l’Operazione di Abramelin, una potente forma di auto-iniziazione magica.
Nel 1904, con la prima moglie Rose Kelly, si recò al Cairo con l’idea di stabilire un contatto mentale con le fonti dell’Ermetismo. Per bocca di Rose, abile veggente, giunsero allora a più riprese le comunicazioni di un’entità chiamata Aiwass, che dettò a Crowley il “Liber Legis”: enigmatico testo auspicante l’avvento di una nuova umanità governata dalle leggi dell’amore e della magia.
L’illuminazione definitiva gli venne dall’incontro con Theodore Reuss, capo dell’Ordo Templi Orientis (OTO): una scuola trasmutatoria tedesca che tramandava una tecnica sessuale di origine tantrica, il cosiddetto vamacharis. La grande idea di Crowley fu di adattare il vamacharis a un contesto simbolico ispirato allo Gnosticismo; a partire da quel momento, egli conferì alle sue partners magiche il titolo di “Donna Scarlatta”, mentre l’operatore di sesso maschile (nel caso, Crowley stesso) era “La Grande Bestia” (cfr. Apocalisse, 17).
Il sistema che ne venne fuori era una fede bizzarra e audace, nella quale dogmi di matrice libertaria (FAI  CIO’  CHE  VUOI   SARA’  TUTTA  LA  LEGGE) si intrecciavano con severe prescrizioni piuttosto difficili da rispettare per chi non ne avesse colto l’oscuro significato ermetico (UOMO,  TI  E’  VIETATO  DI  MORIRE ! ). Dell’Ermetismo conservava l’intento trasmutatorio: lo sviluppo di un “Corpo di Luce” mediante il supporto dell’energia sessuale e di un’immaginazione sviluppata artificialmente fino ai limiti più estremi.
Su indicazione di Aiwass, affittò una grande villa in Sicilia (a Cefalù) dove prese dimora con una piccola corte di discepoli, fondando la “Abbazia di Thelema”. Come per Gurdjieff al Prieurè, anche questa esperienza fu spezzata da un grave lutto: la morte del “figlio magico” di Crowley, il giovane statunitense Raoul Loveday (probabilmente per aver bevuto crudo il sangue di un gatto).
Gli attacchi della stampa inglese, che già da tempo seguiva la vita nell’Abbazia con morboso interesse, indussero il governo fascista a espellere Crowley dall’Italia.
Dopo la fine di Thelema, la parabola di Crowley entrò nella sua fase discendente. Vagabondò per tutto il mondo, perseguitato ovunque dalla stampa che lo bersagliava con le accuse più immaginose, presentandolo perfino come cannibale; lui d’altra parte aveva imparato a sfruttare questo genere di pubblicità. Vendeva pillole che assicuravano lunga vita, un corso per il ringiovanimento fisico e sessuale chiamato Amrita, dava lezioni di yoga e scacchi, scriveva poesie e si drogava.
Si spense ad Hastings il 1° dicembre 1947, e il suo ultimo scandalo fu il funerale secondo il rito thelemico, celebrato da uno sparuto manipolo di seguaci. Era stato dimenticato da tutti, ma il suo mito era destinato a ravvivarsi negli anni sessanta – quando i vagabondaggi per l’Asia, i fluenti capelli biondi della sua giovinezza, la passione per le droghe e lo spirito libertario che avevano caratterizzato la sua esistenza dovevano fare di lui “il profeta sconosciuto degli hippies”.

 

Se Crowley degli hippies  fu il profeta, il loro Messia era un grassoccio ragazzo hispanic alto non più di un metro e sessanta, che il mattino della morte di Crowley probabilmente scorrazzava in bicicletta per i sobborghi di Los Angeles, del tutto ignaro di ciò che il destino gli riservava.
La west coast americana era il posto adatto per recepire le rivendicazioni di Crowley sui diritti in campo esoterico dell’immaginazione. Qui l’individualismo ottimista che è tipico della mentalità americana si combina a uno stile di vita fondato sull’edonismo, e spunti ulteriori allo sviluppo della fantasia vengono forniti dal suggestivo ambiente naturale, dalla storia e dalle leggende.
Nei primi decenni del dopoguerra, in California videro la luce (o trovarono un fertile terreno) i più suggestivi e duraturi adattamenti del messaggio crowleyano, che ben si conciliavano con il nascente movimento psichedelico e con la sua “espansione della coscienza” fondata sull’uso di droghe.

(1) N.d.r. Il film contiene la celebre Stairway to Heaven una delle canzoni più belle della musica rock.
Nella pagina dedicata ai testi delle canzoni potete leggere il testo con traduzione sia di Stairway to Heaven (testo molto interessante) che di The song remains the same.

 

Carlos CastanedaMa Carlos Castaneda aveva seguito un altro percorso. Secondo le note editoriali dei suoi libri, sarebbe nato a Cajamarca (Perù) il giorno di Natale del 1925; invece secondo la giornalista spagnola Carmina Fort, che sostiene di averlo incontrato e intervistato, era nato in realtà nelle favelas di San Paolo del Brasile, trovandosi coinvolto fin dalla più tenera età nei misteri della macumba. Questa ipotesi mi è sempre sembrata piuttosto plausibile, perché in molte delle esperienze da lui narrate ho ritrovato la tipica atmosfera dello stato di trance indotto dai orixà.
Adottato nell’adolescenza da una famiglia di Los Angeles, avrebbe poi condotto studi d’arte in Italia (a Milano) entrando in contatto con il frizzante milieu culturale italiano degli anni sessanta, e in particolare con Federico Fellini, di cui fu amico. Recita la leggenda che Fellini, pochi anni dopo, si sia recato in Messico per girare un documentario sugli sciamani, ma abbia dovuto rinunciare in seguito a misteriosi eventi che spaventarono a morte la sua troupe; Milo Manara si è ispirato a questa vicenda per un suggestivo fumetto.
Tornato a Los Angeles, Castaneda si iscrisse all’UCLA per conseguire il dottorato in antropologia; il suo primo libro (The teachings of Don Juan – a way Yaqui to knowledge) fu presentato come una ricerca etnologica svolta “sul campo”. Castaneda raccontava di essersi recato in Arizona per svolgervi un’indagine sulle piante medicinali, e avervi casualmente conosciuto uno stregone Yaqui messicano – Don Juan – che gli aveva dischiuso le porte di una forma di tradizione sciamanica fino ad allora sconosciuta.
“The teachings of Don Juan” fu un caso letterario in tutti i sensi: per lo straordinario successo di pubblico (viene ristampato tuttora in decine di paesi del mondo), per gli onori accademici e la celebrità che fruttò al suo autore, per il fanatismo di massa che destò presso i giovani hippies, che si riversarono in Messico a caccia di stregoni e di… peyote, il fungo allucinogeno di cui Don Juan faceva uso.
Anche per noi hippies italiani il passo da Tex Willer a Castaneda fu breve, ed il suo nome andò inscindibilmente a unirsi nell’immaginario collettivo a quello di altri “stregoni” (molti dei quali con la chitarra elettrica) che furono protagonisti di un attimo di “allineamento dei mondi” irripetibile nella storia del ventesimo secolo: i teenagers, la politica, il mondo dell’arte e quello della cultura riuniti per invocare l’avvento di una nuova “umanità liberata”.
Tra le innumerevoli critiche che sarebbero state rivolte a Castaneda negli anni successivi, non gli venne risparmiata quella di modellare i suoi sciamani secondo quelle che erano le mode culturali del momento, e in effetti non si può negare che il Castaneda scrittore sia sempre stato attentissimo a recepire e assecondare gli interessi e le opinioni dei suoi lettori.
Che avesse l’istinto del narratore di razza fu chiaro già dall’apparizione del suo secondo libro, più onestamente presentato come “romanzo”; e dopo questo ne vennero altri dieci – tutti senza eccezione scritti magistralmente, e di enorme successo – nei quali Castaneda descriveva le vicende del suo difficile e splendido apprendistato con Don Juan, durato dodici anni.
Quando fu chiaro a tutti che Don Juan non era mai esistito e la “ricerca sul campo” era stata una presa in giro, la reazione del mondo accademico non fu affatto divertita, e l’ostracismo verso Castaneda fu totale e senza perdono.
Non aspettavano nulla di meglio gli esoteristi di scuola europea, che di romanzo in romanzo si stavano rendendo conto sempre più agghiacciati di quello che Castaneda stava facendo in realtà: stava elaborando un sistema di trasmutazione interiore direttamente mutuato dallo sciamanesimo, bypassando serenamente quattro millenni e mezzo di tradizioni esoteriche d’Oriente e d’Occidente come se per lui non fossero mai esistite.
Nessuno prima di lui aveva ardito sbarazzarsi tout court dei pesanti apparati teorici ereditati dalle scuole tradizionali: perfino Crowley, il grande enfant terribile dell’esoterismo, nel dare vita al suo sistema rivoluzionario si era ben guardato dal discostarsi più di tanto dalla solida e ben collaudata struttura di base dell’Ermetismo.
Ed ecco all’improvviso saltar fuori questo scrittorucolo venuto dal nulla, che come se fosse la cosa più facile del mondo ti tira fuori un nuovo modello dell’universo, una nuova terminologia e una galassia pressoché infinita di nuove nozioni; plasmando il tutto in un sistema coerente nelle sue dinamiche come se questa pseudotradizione uscita dalla sua testaccia di mezzo indio fosse vera
Per una volta in sintonia con l’aborrito mondo della cultura profana, a traino delle stroncature dei critici letterari cominciarono anche ad apparire quelle degli pseudoguru dell’esoterismo, e il linciaggio morale del mezzo indio Carlos Castaneda fu compiuto; cosa che non gli impedì mai di continuare a vendere milioni di libri, né di essere adorato da milioni di giovani in tutto il mondo.
Dopo la sua morte avvenuta nel 1998, il mondo dell’esoterismo è orfano senza rimedio. Negli ultimi anni della sua vita, seguaci poco scrupolosi avevano usato il suo nome per la produzione di libri new age di infimo livello: la perdita di credibilità e il crollo commerciale della new age li travolsero, e ancora una volta Castaneda fu messo in croce.

 

Sembra già un’eternità, ma non più di quarant’anni sono trascorsi da quel magico 1968 che, tra mille prodigi, vide anche la comparsa nelle librerie di tutto il mondo di The teachings of Don Juan.
Da allora in poi molta acqua è passata sotto i ponti, portandosi via molti sogni. Quello che era il magico mondo degli “stregoni” è diventato terra di facili guadagni per praticoni di dubbia serietà. Nessuno di essi appare interessato a rilanciare il messaggio che Castaneda – nell’arco di una vita operosa – ha a malapena avuto modo di accennare: ovvero che l’esoterismo è un adattamento dello sciamanesimo, e il solo modo possibile per restituirlo alle sua funzioni è tornare alla fonte.
Il fiume della conoscenza scorre ora profondamente occultato nelle viscere della terra, forse per sfuggire all’orrore di rispecchiare nelle sue limpide acque il triste vagare dell’uomo negli aridi deserti del pensiero unico. Ma è solo questione di tempo: un giorno o l’altro, quando meno ce lo aspetteremo, lo sentiremo di nuovo gorgogliare allegramente in mezzo alle rocce.

Daniele Mansuino

http://www.riflessioni.it/esoterismo/guenon-gurdjieff-crowley-castaneda-4.htm

 

Guénon, Gurdjieff, Crowley e Castanedaultima modifica: 2009-02-01T17:10:59+01:00da giovannisantoro
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